50. LA STELLA POLARE

Seduta sulla panchina, accanto all'area giochi del giardino, osservo Sparrow che gioca tra i curati cespugli a forma di animali, dando la caccia a qualcosa che non riesco a vedere. Refoli di vento pungente le increspano il folto pelo grigio allo stesso modo in cui mi manda i capelli in faccia.

Alan fa un gesto con la mano per richiamare la mia attenzione. «Keeley».

La prima domanda che mi ha fatto è stata anche l'unica che non mi aspettavo: "come stai?". Sarei potuta a scoppiare a ridere per l'ironia, invece mi sono limitata a rispondere che il mio umore rispecchia quello di Harry Potter alla fine del quinto libro. Non credo abbia capito la metafora.

«Ti ho sentito» bofonchio seccata, avvertendo il suo sguardo indagatore premuto su di me. «E te l'ho anche già detto. Non è colpa mia se non mi credi».

«Sul serio?» La sua voce è intrisa di scetticismo. «Dovrei bermi davvero che sei andata a Clayton solo per mangiare al grill di un certo... Joe

Faccio spallucce. «È simpatico».

«Neanche lo conosci!»

«Ma si chiama Joe! Deve essere per forza un pacioccone!»

Con un movimento frustrato, Alan si scosta una ciocca castana dalla fronte. Gli sono cresciuti un po' nell'ultimo mese e, insieme alla barba leggermente ispida, gli danno un'aria trascurata. «Ho perso il mio tesserino della Walker Agency, la mattina che ho trovato te e Klaus nella casa dei tuoi genitori, a Baker Street. Poco dopo, sei andata da sola a Clayton».

Per un attimo, lotto contro l'impulso di voltarmi di scatto, cercando di non lasciar trapelare la mia sorpresa.

È possibile che non sappia che non ero affatto da sola?

L'unica certezza che ho è che lui sia venuto nel mio loft mentre dormivo, ma potrebbe essere entrato dal retro del palazzo per non farsi notare, pertanto non avrebbe incrociato Klaus, appostato all'ingresso a prendere la pioggia.

Questo significa che Alizée, quando lo ha chiamato per riferirgli della mia scampagnata fuori città, non deve aver specificato che ero in compagnia di uno dei suoi figli... perché?

Alan si china in avanti, frapponendosi fra me e la vista di Sparrow che insegue una lucertola. Ha un'espressione corrucciata. «Se mi spiegassi cosa sta succedendo, potrei aiutarti».

Vorrei credergli, lo vorrei con tutte le mie forze. Eppure, una vocina nella mia mente continua a chiedersi se abbia la pistola con sé anche adesso, magari nascosta sotto i jeans o nella macchina parcheggiata accanto alla fontana, sul davanti della villa.

«Non so niente del tuo tesserino. L'avrai messo in lavatrice» mento con forzata disinvoltura. «Sono stata nel mio vecchio appartamento».

«Ah».

Alan torna ad appoggiarsi allo schienale, tamburellando le dita su un ginocchio. Il cipiglio di prima è stato spazzato via da una maschera di compassione mista a finta perplessità. Anzi, probabilmente, nessuno dei due sentimenti è autentico.

«Che cosa cercavi?» Di nuovo, lo stesso tono interessato che lo aveva tradito nel tentare di farsi rivelare cosa avevo scoperto su mio padre.

«Niente». Infilo la mano in tasca e accolgo con sollievo il contatto con il metallo del coltellino, duro e freddo. «Ho incontrato la signora delle patate con cui ci provavi...»

«Io non ci provavo» esclama imbarazzato. «Mi serviva lo zucchero».

«Sì, certo. Al posto dello zucchero di canna, tu volevi lo zucchero per la canna».

Gli scocco un'occhiata maliziosa e lo vedo scuotere la testa, borbottando una frase come "sei senza speranza" che mi fa sogghignare.

«Comunque, mi ha raccontato una storia strana di un possibile intruso in casa, rumori inquietanti di notte o roba simile». Sforzandomi di nascondere la mia diffidenza, camuffata da innocente curiosità, lo scruto attentamente in volto. «Tu ne sai qualcosa?»

Senza scomporsi di un millimetro, mi fa un cenno d'assenso. «Sì, mi aveva avvisato. Sono andato a controllare e non è più successo. Non era nulla di che, tranquilla».

«Ci sei andato anche di recente?» lo incalzo, lasciandomi sfuggire una nota d'accusa.

Lui aggrotta la fronte e un'ombra gli rabbuia le iridi marroni, trasformandole dal colore del cioccolato al latte a quello fondente. «Keeley, so di non essere in cima alla lista delle tue persone preferite, al momento...»

«Non prendertela. È una lista che si assottiglia sempre di più».

«... anche se non mi è ben chiaro il motivo» prosegue Alan, ignorando il mio commento. «Ma sto cercando di aiutarti. Se hai qualche problema con gli Hallander, o con Alizée, devi dirmelo». Esita un secondo. «Oppure c'entra quel ragazzo?»

La risata che esce dalla mia bocca suona abbastanza isterica. «Che ragazzo? Ne sono letteralmente circondata, ormai posso aprire un mercatino di ragazzi fighi in svendita. Non che mi lamenti, eh».

«Quello che ci ha guardati per tutto il tempo».

Avverto una stretta al petto e, senza volerlo, mi giro con un balzo in direzione della sua camera. Il moto di delusione che mi pervade, accorgendomi che il terrazzo è vuoto, è così intenso da diventare un dolore fisico, una fitta che si dilata dalla parte sinistra del torace.

«Stai attenta». Alan si alza, rabbrividendo alle sferzate fredde del vento che si insinuano nella camicia di flanella. Sparrow spunta dall'erba e gli cattura la punta di una scarpa con gli artigli.

Si china per accarezzarla, pur continuando a fissarmi con la mascella contratta. «Che sia un Hallander, un Blackwood o uno Waylatt, non si può negare che abbia una pessima reputazione. Magari non sarà responsabile dell'omicidio di Elizabeth Reed, ma è di sicuro coinvolto in qualche modo. Frequentarlo ti potrebbe mettere nei guai».

Le parole di Adam Greyson, il capo della sicurezza dell'agenzia, mi riecheggiano come pulci fastidiose nelle orecchie: "Se vuoi la mia opinione, non dovresti fidarti di uno Waylatt. Hanno il male nel sangue".

In fondo, non ha tutti i torti a pensarlo, considerato quello che ha fatto Michael e il mostro che suo fratello Vincent deve essere per aver cresciuto un bambino nel terrore e nella violenza.

«Klaus non è cattivo» dichiaro con fermezza.

«Forse no, però è problematico». Alan si solleva, lasciando la micia a rotolarsi sulle foglie secche. «Anzi, stando a quello che si dice, un po' tutta la sua famiglia lo è...» riflette, sfregandosi le dita intirizzite.

«SPARROW!» soggiunge una vocetta stridula, accompagnata da uno scalpiccio di passi frenetici.

La gatta salta sulle zampe e schizza via alla velocità tipica dei felini. In meno di cinque secondi, è già scomparsa tra la schiera di ulivi che contorna la massiccia recinzione di pietra.
Non la biasimo: anch'io avrei reagito così, se avessi visto un bimbetto assatanato sfrecciarmi incontro con le sottili braccia spalancate in avanti.

Dato che il suo bersaglio è sfuggito, si affretta a cambiare obiettivo e, prima che io possa anche solo pensare di spostarmi, si tuffa sulla panchina e prende a stritolarmi in una morsa potenzialmente letale. Alan ci osserva con un sorriso, a metà fra il divertimento e lo stupore.

Per una volta, invece di divincolarmi, decido di sopportare stoicamente. Non lo ricambio, ma lascio che mi stringa per qualche secondo, per poi scansarlo. «Babbo Natale, ti presento il piccolo umano, alias Abbracciatore Compulsivo».

Con la chioma corvina che gli svolazza sulle spalle, Tobias si rimette in piedi e lo guarda emozionato con quei suoi occhi strani, un verde intenso circondato da sclere bluastre.

«Sei Babbo Natale?» chiede meravigliato.

Alan ridacchia. Quando si porta una mano dietro la schiena, rovistando nella tasca posteriore dei jeans, il mio cuore ha un sussulto e, d'istinto, acciuffo il bambino all'altezza della vita e lo attiro piano verso di me, sempre con delicatezza. Ian mi ha messa in guardia che basta poco per fargli male.

Tobias sbatte le palpebre, interdetto. Alla fine, assume un ghigno allegro e sussurra: «Sapevo che ti piacevano gli abbracci!»

«Oh sì, li adoro quanto Bakugo adora Deku in My hero Academia».

«Ecco, tieni» ammicca Alan, porgendogli una minuscola coccinella di plastica con un magnete attaccato alla base. «Babbo Natale porta doni, no?»

Il bambino emette uno "woo" affascinato. «La mamma non vuole che accetti cose dagli sconosciuti». Curiosamente, lo dice nello stesso istante in cui prende la calamita. «Lei sa che sei qui? Di solito, l'unico uomo che può stare in casa senza il suo permesso è il mio papà. O anche Stefan, perché è buono».

«Certo. Tua madre mi ha detto di venire e...» Alan si blocca di colpo, increspando le sopracciglia.

Dedica a Tobias uno sguardo particolare, come se lo stesse fissando ma, al tempo stesso, fosse concentrato su qualcosa di lontano che nessun altro può cogliere. «Scusate, ora devo andare» biascica in tono distratto, facendomi un cenno. «Ci vediamo, Keeley. Ciao, piccolo Hallander». E si allontana a grandi falcate lungo il giardino.

Tobias lancia un gridolino e si precipita fino alle radici di un albero dove, sotto il ramo su cui è appollaiato un passerotto, sta accovacciato un fagotto grigio. «Cattiva, Sparrow! Cattiva! Non fare male all'uccellino!» esclama, raccogliendola.

Con la gattina che si agita nella sua presa, non troppo esaltata di dover rinunciare alla sua preda, si incammina verso l'entrata secondaria, la porta di vetro della sala delle colazioni. Passandomi vicino, si ferma e mi rivolge un'espressione pensierosa. «Comunque, lo immaginavo con il pancione».

***

Il disegno preparatorio sul foglio è ancora un intrico di linee e curve, ma già si intravede la bozza di ciò che rappresenta.

Un lupo argentato su uno sfondo stellato, un cortile di pietra con un pozzo e un uomo che dipinge su una tela. E, mentre la mia matita si muove quasi di propria volontà, la punta che struscia sulla carta, ripenso a tutte le volte che lo spiavo da dietro una colonna o un cespuglio, ammaliata dal talento con cui plasmava il mondo attraverso la sua arte.

Non c'erano persone nella sua realtà, ma simboli, sogni e sentimenti di un animo che aveva bisogno di dare colore al grigio dell'esistenza. Ricordo mio padre che posava il pennello e si chinava, chiamandomi con un sorriso, e allora mi tuffavo tra le sue braccia, nella casa che odorava di borotalco e di un amore che non avrebbe mai chiuso le sue porte. Non per me.

«Non è troppo buio per disegnare, ficcanaso?»

Al suono della sua voce, marchiata dall'inconfondibile accento inglese, dei brividi mi corrono lungo la spina dorsale e la matita mi scivola dalle dita. Con la schiena premuta contro la quercia, sollevo il mento e gli scocco un'occhiata al di sopra delle ginocchia piegate verso l'alto.

Durante il giorno, ci siamo incrociati solo una volta: giocavo con Kal alla PlayStation e lui è sceso in soggiorno. Vedendomi, si è bloccato a metà della rampa e, se uno sguardo potesse bruciare, sarei di sicuro diventata cenere. Alla fine, ha percorso i gradini rimanenti ed è uscito dalla villa senza parlare con nessuno.

Adesso, ha sostituito il suo look total black con una camicia bianca, abbottonata fino al colletto e dai luccicanti ricami dorati, che si sposa alla perfezione con la carnagione diafana. Le ombre della notte danzano sul suo volto, rischiarato dai lampioni da giardino che si sono accesi al suo passaggio, facendo scurire i suoi occhi grigi che mi fissano in modo strano.
Nessun ritratto potrebbe descriverlo: è come un naufrago che, dopo anni su un'isola sperduta, avvista una nave tra le onde, ma non è certo di voler essere salvato.

«Gli altri sono già andati a dormire?» chiedo, stringendomi nella felpa. L'aria, immobile e nera, è simile a schegge di ghiaccio che mi pungono il naso a ogni respiro.

Esitante, Klaus avanza con il suo solito passo felpato, tanto che a malapena è percettibile lo scricchiolio delle foglie cadute che gettano un manto giallastro sull'erba falciata. «Lo chiedi perché non vuoi restare da sola con me?»

Corrugo la fronte, colta alla sprovvista. Forse interpretando male la mia reazione, lui si ferma, attraversato da un lampo di ferita rassegnazione che mi infligge una pugnalata al petto. Stagliato su un cielo d'inchiostro, sembra un angelo scolpito nel cristallo, fragile e bellissimo insieme.

Getto in disparte il blocco da disegno, stendo le gambe e torno a posare la nuca alla corteccia ruvida del tronco massiccio dietro di me.
«Sdraiati» borbotto, facendogli un cenno. «L'angolo della depressione è aperto a tutti».

Klaus appare sconcertato per un secondo, poi si avvicina e si abbandona al mio fianco. Baciato dal tenue chiarore della luna, la sua cicatrice è una sottile zanna d'avorio scolpita nel marmo.

Tra di noi cala un silenzio fremente, carico di elettricità, e la sua presenza mi investe a ondate ardenti, nonostante non ci stiamo neanche sfiorando.

«Mi dispiace» sussurra con un sospiro, guardando tra i rami nodosi che si protendono nelle tenebre. «Lo capisco se sei arrabbiata. Ne hai tutto il diritto. È colpa mia, soltanto colpa mia...»

«Io...»

«Sai, è buffo». Klaus prosegue in tono assente, quasi non mi abbia neanche sentita. Il suo sguardo è venato di infinita tristezza. «Sono abituato all'odio. È una sensazione con cui sono cresciuto, l'ho conosciuta abbastanza da iniziare a credere che facesse parte di me, che fosse giusto odiarmi. Ogni colpo che mio zio mi dava era per correggere quello che c'è di storto, di corrotto in me. A volte, penso che perfino volermi bene dovrebbe essere sbagliato... Come possono i miei fratelli amare qualcosa che ha fatto soffrire così tanto la loro stessa madre?»

I peli mi si rizzano sulla nuca, cogliendo tutto il disprezzo per sé stesso racchiuso nelle sue parole. "Ha detto qualcosa, non qualcuno", non posso fare a meno di notarlo.

«Ho ferito le persone più importanti della mia vita, tutte quante. Non volontariamente, ma questo non cambia nulla. Non cambia che, senza di me, loro sarebbero stati meglio, più felici. Si direbbe che il destino stesso voglia sbattermi in faccia che non dovrei esistere, che sono un errore. L'errore di Michael». Pronuncia quel nome con amarezza mentre rigira l'anello del leone, chinando la testa in atteggiamento colpevole.

Devo attingere a tutta la mia forza di volontà per costringermi a restare immobile, malgrado il desiderio di toccarlo stia lacerando ogni fibra del mio essere. Finalmente, ho capito qual è la differenza, il dettaglio che non mi convinceva nel mio ritratto.

Io voglio lui, non una sua copia sbiadita in bianco e nero. Voglio sentirlo vivo, vero. Più di un'immagine cristallizzata nel tempo: un'anima tormentata piena di sfumature, vibrante di dolore e di tenerezza.

«Ora, però, ci sei te» continua Klaus a fil di voce. «E il solo pensiero che tu possa odiarmi mi distrugge, mi brucia fin nelle ossa. Tuo padre se n'è andato a causa mia e non mi aspetto il tuo perdono, neanche lo merito. Ed è da egoisti pretenderlo, lo so, ma mi serve, Keeley. Ne ho bisogno perché non sopporto di perderti, perché mi uccide sapere di averti delusa. Perché io ti... io...»

Il mio cuore esplode nella cassa toracica, il rumore dei battiti forti e veloci che rimbomba nel silenzio. Sono a malapena consapevole dei miei movimenti, quando balzo in piedi e barcollo sulle gambe molli come gelatina.

Klaus mi imita subito e si affretta a sorreggermi. Le sue mani sui miei fianchi sortiscono l'effetto di una scossa: improvvisa, bruciante, magnifica. Scambiando il mio sussulto per un rifiuto, lui mi lascia subito e tenta di ritrarsi, ma non glielo permetto. Aggancio un dito al passante della sua cintura e lo attiro a me con veemenza, facendo scontrare i nostri corpi. Percepisco il suo, snello e flessuoso come quello di un felino, che si irrigidisce contro il mio, ma non oppone resistenza.

Attraverso le lacrime che mi pizzicano le palpebre, lo fisso in volto, perfetto anche nei più minimi particolari. La pelle chiara brilla di riverberi lattiginosi e gli occhi, persi nei miei, sono un connubio di argento e nero, di calore e di ghiaccio, di amore e di paura.

«Ecco, questo è il motivo» mormora, passandomi la punta dell'indice su una guancia. Il mio stomaco si contrae di piacere al suo tocco, freddo per il gelo e ruvido per i calli, eppure così dolce, con quell'attenzione di chi sta maneggiando un tesoro tanto inestimabile quanto delicato. «Il modo in cui mi guardi, anche adesso, è la cosa più bella della mia vita. Questo è quello che voglio proteggere. Nonostante ciò che sai del mio passato, di come sono nato, di Elizabeth, credi ancora in me. Hai fiducia in me». Un sorriso gli increspa le labbra, scavando due piccole fossette agli angoli. «Tu mi fai sentire buono, Keeley».

Ripenso ai miei dubbi di oggi pomeriggio e il rimorso mi assale. Come ho potuto dubitarne, anche solo per un momento?

Vorrei spiegargli che non riuscirei mai a odiarlo, poiché rinunciare a lui significherebbe strappare via un pezzo di me, e tantomeno posso essere arrabbiata, se salvarlo è ciò che ha portato mio padre lontano da me. Sarebbe impossibile, considerato che darei di tutto cosa per cancellare ciò che ha subito, per proteggerlo da chiunque gli abbia fatto del male. Ma ho la gola talmente secca che fatico a parlare.

«Non so quando o come, ma sono diventato tuo senza neanche accorgermene. Sono tuo. E farò qualsiasi cosa tu voglia, qualsiasi, basta che ti renda felice. La farò, devi solo dirmelo». Klaus fa scivolare il dito lungo il mio viso e mi asciuga una lacrima, abbozzando uno dei suoi sorrisetti. «Che tu mi voglia o meno, io ti appartengo. Piccola ficcanaso».

La pausa che segue è una promessa categorica: è il mio turno.

Ero convinta che, se Klaus mi avesse confessato i suoi sentimenti, le miriadi di motivi e di problemi che ci impedivano di stare insieme mi si sarebbero riversate in un colpo solo nel cervello. Siamo due di quelle sostanze chimiche che non vanno mescolate, altrimenti finiremo per esplodere l'uno con l'altro e devastare quel poco che ancora possediamo. Perché siamo troppo simili, troppo diversi, troppo feriti, troppo pericolosi... Troppo e basta.

Invece no.

Non ho uno spirito romantico, e non mi è mai piaciuta l'idea di riporre la mia felicità nelle mani di un'altra persona, accettando che una parte tanto importante di me dipenda da qualcuno che non sono io. Ma è difficile scegliere di non farlo, quando ti senti soffocare da una vita che cade a pezzi e lui è l'unico in grado di donarti l'ossigeno per tenerli uniti.

«Qualsiasi cosa?» ripeto in un sibilo.

Klaus annuisce. La sua espressione sembra dirmi "Tutto ciò che vuoi. Sono qui per te". «Qualsiasi cosa».

«Bene». Sfodero un piccolo ghigno. «Dobbiamo fare una cosa stupida».

Quando lo prendo per mano, avverto i tendini e i nervi del suo corpo che si tirano in maniera meccanica. Con mia grande soddisfazione, Klaus si lascia guidare attraverso il giardino, affidandosi a me. Cammina agile sulle foglie secche, producendo appena un fruscio, al contrario del crepitio lugubre che accompagna i miei, di passi. Se non avessi altre priorità, il mio orgoglio ne risentirebbe.

«Non vorrai...?» chiede incredulo, intuendo dove lo sto portando.

«Oh sì».

La piscina è illuminata da faretti subacquei, disposti a intervalli regolari attorno al perimetro, e torce da giardino con sensori, piazzate tra gli ombrelloni che coprono lettini di rattan e sdraio sepolte da cuscini imbottiti. Il riflesso della luna si staglia sua superficie, limpido e tremolante.

Ricordo la conversazione che ho avuto con Edric, proprio qui, e quanto mi fossi riconosciuta nella guerra interiore contro le sue emozioni. "Non voglio provare nulla per lui. Non posso" aveva detto.
A quanto pare, potere e volere non sono verbi che reggono in amore...

Klaus ridacchia. «Confesso che non era ciò che avevo immaginato, ma va bene».

Intreccio le dita alle sue con più forza e lo trascino con calma in direzione della piscina. Giunti sul bordo, incrocio il suo sguardo per un secondo, infine lo lascio e mi butto con un salto, dopo aver tolto gli stivaletti.

L'inaspettato tepore dell'acqua mi mozza il fiato, sciogliendo il freddo che mi aveva intorpidito le ossa. Mi immergo completamente e riaffioro poco più avanti, scostando i capelli fradici che ondeggiano a ventaglio intorno a me, così lucidi e scuri da apparire neri. Gocce calde mi rigano il viso, colando dal mento e dal naso. La felpa mi pesa sulle spalle quanto un cappotto e i jeans si avvinghiano alle mie gambe come alghe marine.

Mulinando le braccia, mi volto e gli faccio un sorriso di sfida. «Non avrai paura, vero, fiorellino

Non se lo fa ripetere. Sfilate le scarpe, si siede sull'orlo e si lascia scivolare dentro la piscina. Nuota verso di me, i capelli arruffati che risplendono come una corona dorata.

In un attimo, la camicia bianca è diventata quasi trasparente e gli fascia alla perfezione il fisico asciutto, mettendo in risalto il suo torace ben definito, la vita sottile e le braccia lunghe e affusolate. Posso indovinare persino le linee delicate dei suoi addominali o le cicatrici piccole e tonde sul torace. Di nuovo, mi ritrovo a pensare a quanto sia stupendo.

Klaus mi raggiunge e si ferma a pochi centimetri da me. «E ora?»

Gli circondo i fianchi stretti con un gesto cauto e tutti i suoi muscoli si tendono, facendolo tremare. Le mie iridi si incatenano alle sue, due pozze di mercurio liquido che ardono di incertezza e timore, cercando di rassicurarlo. "Fidati di me", gli comunico con lo sguardo. "Non voglio farti del male, e non te ne farò. Fidati".

«Una volta, mi hai detto che avresti voluto vedere il mondo come lo vedo io» sussurro, accarezzandolo alla base della schiena. «In questo momento, vorrei davvero che potessi farlo. Così riusciresti finalmente a vedere il ragazzo straordinario che sei. Il ragazzo che non mi ha mai lasciata da sola, neanche se io stessa spesso ho fatto di tutto, pur di mandarti via. Sei sempre rimasto con me. Nella mia casa a Baker Street e in quella a Clayton, malgrado ti avessi gridato di andare al diavolo. Quando ho incontrato Gladys al Lucky House e quando ho parlato con mio padre, dopo sette anni passati ad attenderlo. Tu c'eri, e questo mi ha salvata. Perché non avrei potuto farcela, anzi non posso farcela senza di te. Mi hai salvata, Klaus Hallander».

Klaus sbatte le palpebre, guardandomi quasi incantato. Sembra che gli sia difficile anche solo credere che sia sincera.
Secondo la visione distorta che ha maturato di sé, lui è un mostro, in quanto frutto di uno stupro: nella sua favola, si era definito da solo "il seme del male". È cattivo, quindi merita di essere odiato e punito, anche fisicamente. Come se il fatto che è nato da una violenza lo rendesse degno di ricevere soltanto quella.

«E, forse, hai ragione. Magari non dovresti esistere, ma sono dannatamente felice che sia successo. Perché anche da una cosa orribile può nascerne una meravigliosa... e tu sei meraviglioso, Klaus. Lo sei, e vorrei che riuscissi ad amare te stesso quanto ti amo io. Non sono la persona che ti rende buono, ma soltanto quella che ti mostra che lo sei già».

Fissandomi con uno sguardo intenso, Klaus recita in un'altra lingua: «"Se tu segui tua stella, non puoi fallire a glorioso porto"» Avendo ascoltato numerose canzoni, riconosco la musicalità dell'italiano. «È un verso di Dante, nella Divina Commedia» mi spiega, in risposta alla mia espressione interrogativa. «Non è il significato esatto, ma credo voglia dire che, per mantenere la retta via, non dobbiamo fare altro che seguire la nostra stella. Una luce che ci guidi nel nostro destino, senza farci perdere la strada».

«Io non...»

Per la prima volta, è Klaus a zittirmi.

Con un gesto soffice, il dorso della sua mano mi percorre il collo, tracciando una scia di calore lungo la mia gola, e mi prende il mento tra il pollice e l'indice, con la stessa premura che si dedicherebbe a un gioiello.

I suoi occhi mi stanno chiedendo il permesso mentre rallenta ancora di più i propri movimenti, dandomi tutto il tempo di sottrarmi. L'eccitazione si accende nel profondo del mio ventre e lo tiro con forza verso di me fino a far aderire i nostri corpi, sentendo il battito del suo cuore che mi tuona nel petto.

La sua bocca si unisce alla mia con lentezza, esercitando una pressione tenue che mi scatena brividi ovunque. Per un attimo, rimango paralizzata, in bilico tra ricambiare e fuggire, ma poi il suo sapore mi inebria, una combinazione di dolcezza e paura che mi offusca i sensi e la mente. L'adrenalina comincia a fischiarmi nelle orecchie e il sangue si tramuta in un liquido di fuoco che mi scorre nelle vene.

Avverto i nostri respiri che si fondono, in una sincronia ardente che incendia l'aria tra di noi, e il pizzicore sulla pelle della sua barba leggera, a stento visibile sul suo incarnato chiarissimo. Affondo le dita tra i suoi capelli setosi, riversando una cascata d'acqua sulle ciocche bionde che gli si appiccicano alla fronte e spingendo le sue labbra a premere decise contro le mie. Sono squisitamente morbide e un po' impacciate, ma il modo in cui si muovono mi provoca un vortice di sensazioni indescrivibili.

La brama di approfondire il bacio si trasforma in una necessità viscerale e accolgo con smanioso piacere l'affondo della sua lingua, ricambiando con un assalto della mia che gli fa gorgogliare un gemito in gola. Quando le sue braccia mi avvolgono in una stretta delicata, un lieve scroscio mi ricorda che siamo ancora in piscina, ma archivio subito quel pensiero frivolo.

In questo momento, il mondo intero potrebbe crollare, per quanto mi importa: ci siamo solo noi, io e Klaus, sotto un cielo nascosto dalle nubi come se custodisse centinaia di segreti.

Lui mi attira ancora più vicino, come se volesse annullarsi dentro di me, e i suoi fianchi esili prendono a oscillare contro i miei in una sorta di danza di passione. D'istinto, inarco la schiena con un rantolo rauco e mi aggrappo a lui, infilando una mano sotto il tessuto molle della camicia. Klaus si irrigidisce, ma a poco a poco si arrende docile a me, cullato dalle mie carezze affettuose sulla pancia piatta.

Inavvertitamente, comincio a stringere i suoi capelli bagnati ma, appena li tiro con un po' troppa foga, la maniera in cui si immobilizza, diventando di pietra, mi suggerisce che c'è qualcosa che lo turba in ciò che ho fatto. Allento la presa e lui torna rilassato, permettendomi di far scivolare le dita lungo la nuca e di cingerlo sotto le ascelle, con i polpastrelli conficcati negli spazi tra le sue costole in rilievo.

«Sei tu la mia stella, Keeley» mi bisbiglia Klaus contro le labbra. «La mia stella polare».

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