49. ZIO MATT

P.O.V. KLAUS

Stringendo forte il mio cavallino di legno, mi arrampico sulla balaustra del terrazzo, con le gambe distese davanti a me e la testa posata sul pilastro di pietra nell'angolo. Il venticello estivo, mitigato dalle temperature notturne, mi getta soffi d'aria fresca che si insinuano sotto il pigiama appiccicato alla pelle e sul viso sudato, dandomi un po' di sollievo.

Il panorama di Sunset Hills, immersa nella quiete e nelle stelle, mi infonde uno strano senso di calma, ma rimane comunque qualcosa di estraneo, di alieno. Anche se non mi manca Newham, il borgo londinese in cui sono cresciuto, ho nostalgia del fascino di Greenwich, o della campagna inglese.

Ricordo le case color miele disseminate tra dolci colline, i castelli e le chiese che odoravano di storia, il maestoso Cutty Sark che, come un dio dormiente, rievocava i tempi in cui era il vascello più veloce al mondo. E ricordo le passeggiate con la mamma a Blackfriars, lungo la riva nord del Tamigi, i picnic che facevamo di nascosto al Greenwich Park o la nave pirata con cui giocavano gli altri bambini, nel Diana Memorial Playground.

Una volta, mentre lo zio mi portava in giro per uno di quelli che definiva "i suoi lavoretti", mi ero fermato a guardarli incantato, fantasticando su come sarebbe stato unirmi a loro.
Mi aveva riportato alla realtà uno strattone al polso e la sua voce che mi sussurrava: «Lo sai che non ti vogliono, sei troppo cattivo per stare con loro. Ora muovi il culo o facciamo i conti a casa».

Un brivido mi scuote il corpicino tutto ossa, seguito da un brontolio allo stomaco. Ho fame. Da quando sono arrivato alla villa, due settimane fa, non riesco a mangiare quasi niente, a parte i cioccolatini o le caramelle che Carol continua a darmi. Sono affamato, eppure mi viene la nausea al pensiero del cibo, come se avesse perso per me ogni attrattiva.

Durante il giorno, avverto un sonno terribile addosso, ma il terrore di sprofondare negli incubi spesso mi tiene sveglio fino all'alba e, anche se mi addormento, non faccio che agitarmi. Il momento peggiore, però, è quando apro gli occhi, in preda al panico, certo di ritrovarmi raggomitolato nella piccola cabina armadio, mentre sento di nuovo l'eco dei passi sulle scale.
Ma, questa volta, non ho dubbi che siano dell'uomo cattivo.

Rassegnato, scendo dal muretto e lascio il balcone. La vista del letto pronto ad accogliermi, con le coperte tirate in fondo, ha lo stesso impatto che avrebbe l'abbraccio di una camicia di forza. Con la statuetta intagliata ancora in mano, attraverso la camera ed esco in punta di piedi.

Per un attimo, guardando la porta di fronte alla mia, mi chiedo quanto si arrabbierebbe William se mi intrufolassi nella sua stanza e mi mettessi sulla sedia della sua scrivania, o anche sul tappeto, non importa... non voglio stare da solo. Probabilmente, mi meriterei un pugno già solo per averlo disturbato, o mi prenderebbe in giro con i suoi fratelli.

Scuoto la testa per scacciare quell'idea stupida e mi incammino lungo il corridoio. Il buio e il silenzio sono assoluti, eccetto per il fruscio delle mie ciabatte sul pavimento, e le ombre che danzano tra i dipinti creano un'atmosfera gotica che mi riempie d'inquietudine.

Comincio a vagare senza una meta precisa, spinto da una sorta di apatica curiosità. La voglia di esplorare questo posto, così grande e antico, è l'unico sentimento che mi faccia capire che sono ancora vivo, non un semplice cuore che batte per inerzia. A catturare la mia attenzione sono soprattutto le foto di famiglia, che ritraggono i figli di Alizée sempre insieme, ogni tanto imbronciati, ma comunque sprizzanti un'energia, un brio che io non ho mai avuto.

Mi fermo davanti a una in particolare, esposta sulla credenza in un piccolo atrio, vicino alla biblioteca: tutti e cinque i bambini stanno giocando alla lotta con Ian in giardino, ormai fradici a causa delle pistole ad acqua con cui si spruzzano a vicenda. Sembrano divertirsi tantissimo, insieme al loro papà...

Un rumore improvviso mi strappa un sussulto. È una melodia bellissima, leggera e delicata, che accarezza l'aria in un sibilo malinconico, romantica come la serenata di un innamorato sotto il balcone dell'amante. Si interrompe per un secondo, e poi riprende a un ritmo più rapido, più vivace, quasi saltellante, che mi stringe il petto.

Non ho mai sentito qualcosa di così magnifico.

Senza neanche accorgermene, la sto già seguendo, tendendo le orecchie per capire la direzione da cui proviene. Imbocco un corridoio che si snoda dopo la sala cinema, arricchito di sculture con targhette dorate che luccicano nel buio e immagini scolpite di minacciosi gargoyle.

Man mano che procedo verso il fondo, il suono mi avvolge con maggiore intensità, le note che affondano nella mia anima, cullandomi con il loro calore e portando via tutte le cose brutte. L'uomo cattivo che mi fa del male, i suoi occhi neri che mi tormentano negli incubi, il tocco delle sue mani impresso sulla mia pelle... persino la paura è scomparsa, per la prima volta da tanto tempo.

Se questa musica avesse delle parole, mi starebbe dicendo: "Sei al sicuro con me".

Pur sapendo che è irrazionale, il mio primo pensiero va all'uomo buono, l'unico a cui importasse abbastanza di me da liberarmi dal mostro. Forse, è tornato a riprendermi e mi prenderà con sé come gli avevo implorato di fare, prima che mi lasciasse dalla donna gentile che mi ha portato in America.

Con il cuore che mi tamburella in gola, il cavallino serrato nel palmo, sbircio dalla porta socchiusa e un odore pungente mi penetra nelle narici, più acre di quanto mi ricordassi fosse quello del tabacco.

All'interno, la camera è dominata dal disordine, con vestiti sparpagliati ovunque sul parquet, carte per trucchi di magia disseminate sul letto sfatto, tavole da surf ammassate malamente contro l'armadio, bottiglie e fiaschette di liquori esposte -chissà perché- in un acquario vuoto e posaceneri invasi di mozziconi sulla scrivania.
Trattengo il fiato quando scopro che avevo ragione: c'è davvero un uomo.

Ma non è lui.

La sua figura si staglia solitaria nella pozza di luce argentea, di fronte alla finestra. È seduto su uno sgabello di profilo, con le dita sottili che volteggiano lievi sui tasti del pianoforte, come gocce d'acqua che scivolano su una liscia superficie di vetro. Ha gli occhi chiusi e una strana sigaretta accesa che gli sporge all'angolo della bocca.

Il chiarore della luna crea un groviglio di fili scintillanti tra i folti capelli castani che gli ricadono liberi sulle spalle, gettando dei riflessi biondi che risplendono attraverso la cortina di fumo che aleggia nella stanza. Una canotta nera gli aderisce al fisico sottile, mettendo in evidenza i muscoli ben definiti e le spalle larghe.

Ciò che è più impressionante, però, è il tatuaggio che gli si arrotola a spirale lungo il braccio sinistro, partendo dall'omero e terminando in un grande disegno sul dorso della mano, ma sono troppo lontano per distinguerne i contorni con precisione.

Nonostante il fremito che mi cola in sudore gelido sulla schiena, non riesco ad andarmene, richiamato da quella melodia strascicata, a tratti danzante, piena di tenere promesse, allo stesso modo in cui una falena è attratta dalla luce.

Avanzo con lentezza, abbastanza magro da sgusciare dalla fessura della porta senza neanche sfiorarla, con lo sguardo rivolto all'uomo. È giovane, sicuramente meno di trent'anni, eppure il suo aspetto è segnato da un'aria stanca, nostalgica... triste. C'è qualcosa in lui che mi fa desiderare di non lasciarlo solo.

L'ombra di un sorriso spunta sul suo volto. «Mi sento un po' spiato». La musica si interrompe di colpo, e anche il suo effetto calmante.

Sobbalzo e cerco di arretrare, ma sbatto il tallone contro la porta, che si richiude dietro di me con un tonfo. Mi paralizzo, aggrappandomi con tutte le mie forze al cavallino che mi ha dato la mamma, anni fa.
Secondo lei, era magico perché aveva il potere di proteggermi, ma si sbagliava: è speciale per il semplice fatto che era suo.

L'uomo si alza dallo sgabello di scatto. «No, ehi...» Imprecando piano, si toglie dalle labbra quella che non è una vera sigaretta e la butta nel suo drink. Il calice, posato accanto al leggio, è pieno a metà di un liquido azzurro in cui sono immersi dei cubetti di ghiaccio.

Dopodiché, si volta di nuovo e torna a parlarmi. «Non scappare, piccolo. Non ti faccio nulla» mi rassicura, avvicinandosi a poco a poco. Il suo tono tradisce una punta d'ansia. «Sei il mio nuovo nipotino, immagino».

Chino la testa, schiacciandomi il più possibile contro la porta, ma percepisco il suo sguardo che sembra esaminarmi. Malgrado i leggeri tremiti che mi scuotono, non resisto alla tentazione di scoccargli un'occhiata di sbieco e vengo colto alla sprovvista dall'espressione contrita che leggo sulla sua faccia, come se fosse dispiaciuto o pentito per qualcosa.

Non posso evitare di pensare che non ha niente di pericoloso, anzi ho la bizzarra impressione che sia più intimorito lui da me che il contrario, sebbene questo sia assurdo.

Camminando verso di me, l'uomo è così preso a guardarmi che finisce per inciampare su un paio di infradito. «Caz... volo» borbotta, calciandole lontano.

A quella scena, devo trattenermi per non mettermi a ridere.

«Scusa, dimenticavo che mi è vietato dire parolacce davanti ai bambini» aggiunge imbarazzato, rivolto a me.

Giunto a un metro di distanza circa, si ferma e si china per porsi alla mia altezza. «Ciao. Io mi chiamo Matthew Hallander, ma per te sarò zio Matt» ammicca. Il suo alito puzza di qualcosa che non mi sembra solamente fumo.

Rimango immobile a fissare il pavimento, giocherellando con una scheggia che spunta dalla mia statuetta intagliata.

«Non riesci a dormire, eh?» commenta con un sospiro. «Già, neanch'io».

Deglutisco e trovo il coraggio di sollevare gli occhi fino a incrociare i suoi, restandone incantato. Sono di un blu molto intenso, più scuri rispetto a quelli color ghiaccio di Ian, e luminosi e profondi quanto degli zaffiri. Peccato che siano arrossati, come se avesse pianto, altrimenti sarebbero bellissimi.

«Allora? Mi dici il tuo, di nome?» mi incalza, facendo un sorriso premuroso.

Esito per un secondo, poi faccio di no con il capo. Mi aspettavo che questo lo infastidisse, invece ridacchia divertito. «Bravo! Non si parla con gli sconosciuti!»

Aggrotto la fronte, confuso dalla sua reazione, ma subito vengo catturato di nuovo dal piano.

L'uomo nota che sto osservando lo strumento, ammaliato, e si rimette in piedi con un movimento misurato, forse per non spaventarmi. «Ti piaceva quello che suonavo?»

Appena annuisco, un lampo di sorpresa gli guizza sul viso, come se non avesse sperato in una mia risposta.

«Mozart... ottimi gusti». Matt si gira, attraversa la camera e si accovaccia a terra di fronte al piano, lasciando libero lo sgabello.

Mi affretto ad afferrare la maniglia, pronto a sgattaiolare fuori e tornare nel mio letto, ma qualcosa me lo impedisce. Il silenzio viene infranto dallo stesso brano di prima, ma eseguito a un ritmo più allegro e un timbro più forte. Sono abbastanza certo che potrebbe svegliare i figli di Alizée.

Con estrema cautela, comincio a muovere piccoli passi nella sua direzione, affascinato dalla scioltezza con cui le sue dita accarezzano i tasti, dalla perfetta sincronia delle sue mani, dal modo buffo in cui preme i pedali con le ginocchia. Un connubio di equilibrio, note e accordi che sembra quasi un incantesimo.

«Mi hanno detto che non parli con nessuno» mormora Matt, sbirciandomi con la coda dell'occhio.

Senza abbassare la guardia, mi siedo sul bordo dello sgabello, controllando ogni suo gesto, e un sorrisetto affiora sulle sue labbra.

«Non posso dire che so cosa stai provando o che capisco quello che hai passato, però conosco la sensazione di essere... sbagliato. Fuori posto». Il suo respiro si fa pesante, accelerato.

Per un attimo, i bagliori delle stelle si inseguono sul suo volto in un baluginio argentato, sfavillando nelle sue iridi blu. «C'è stato un periodo in cui mi sentivo molto solo e ce l'avevo con tutto il mondo, come te. Morivo dentro e nessuno sembrava accorgersene, nemmeno mio fratello. Ho imparato che soffrire in silenzio ti porta a commettere errori terribili, di quelli che ti rimangono addosso e diventano come un'enorme ragnatela, più ti dibatti per liberarti e più quella ti imprigiona... fino a che ti arrendi, perché ti rendi conto che non ne uscirai mai. Che quella ragnatela ormai è così stretta che non puoi tagliarla senza perdere un pezzo di te».

Increspo le sopracciglia. Non ho idea di cosa significhino le sue parole, però la voce incrinata e lo sguardo distante fanno apparire il suo sorriso terribilmente triste.

Scorro sullo sgabello, riducendo un poco la distanza tra di noi, e miei occhi si posano sul suo tatuaggio. Il muso sibilante di un serpente gli marchia il dorso della mano, con la lingua biforcuta che si allunga sul pollice. Incuriosito, ne seguo il corpo sinuoso, rivestito di scaglie, che si arrampica ad ampi cerchi lungo l'avambraccio.

La punta della coda coincide con la base della spalla, ma io mi soffermo sui segni che ha nella parte interna del gomito, libera dall'inchiostro. Proprio sotto il bicipite, in corrispondenza delle vene, gonfie e visibili malgrado la sua carnagione abbronzata, ci sono dei piccoli fori simili a tante punture. Alcuni sono anche sull'ascella, che spunta dalla canotta senza maniche, e due o tre persino sul collo.

Quando Matt si accorge che cosa sto guardando, ruota il braccio nel tentativo di nascondere quelle cicatrici, e comprendo che si vergogna delle sue quanto io delle mie.

«Sai». Ritira le mani dalla tastiera. «La musica ha un potere incredibile. È come una lingua universale: puoi dire mille cose senza il bisogno di parlare, e con la certezza che ti sentirà soltanto chi davvero vuole ascoltarti».

Dopo essere rimasto indeciso per almeno un minuto, decido di azzardarmi a toccare uno dei tasti bianchi. Visto che Matt non ne appare infastidito, provo a premerlo leggermente e quasi spicco un saltello per il suono lieve e acuto che si libra nell'aria.

Lui profonde in una risatina, ma poi fa una smorfia dolorante e sposta il peso da una gamba all'altra, restando inginocchiato. Deve essere una posizione davvero scomoda, in effetti.

«Potrei insegnarti a suonare. Se vuoi, certo. Non...» Si ammutolisce. Sebbene finga di concentrarsi sui residui scuri e fini della "sigaretta" che galleggiano nel suo cocktail, noto che mi sta lanciando occhiate furtive. «Ti piacerebbe, piccolo Mozart?»

Squadrandolo con diffidenza, scivolo di nuovo sull'estremità opposta dello sgabello, lasciandogli abbastanza spazio per sedersi senza starmi troppo vicino. Matt si solleva con delicatezza e prende posto al mio fianco, fissandomi in viso come per accertarsi di avere il mio permesso.

«Klaus» bisbiglio, facendo correre le mie ditina sui tasti. «Mi chiamo Klaus».

Matt spalanca bocca, sbattendo più volte le palpebre per lo stupore. Infine, mi fa un sorriso dolce e dice: «Beh, sono molto felice di conoscerti... Klaus».

***

Impiego qualche secondo a riscuotermi, immobile con una mano ancora appoggiata all'armadio e il telefono a pochi centimetri dall'orecchio.

Non parlavo con lui dal mio compleanno, circa quattro mesi fa, nonostante io gli abbia intasato più volte la segreteria e lo abbia tartassato di messaggi, a cui non ha mai risposto. Per un po', sono stato convinto che volesse evitarmi per qualcosa che avevo fatto o detto, ma probabilmente era solo troppo impegnato con la sua nuova fidanzata.

«Ehi, Mozart. Ci sei ancora?»

«Sì, certo». Mi schiarisco la gola, abbassando il braccio dall'anta. «Ti ha detto Liam di chiamarmi?»

«Me lo ha suggerito». La sua voce è quasi sovrastata dal brusio incessante di sottofondo. Deve essere in un luogo pubblico. «So che stai passando un brutto periodo...»

«Ti assicuro che mio fratello è una drama queen» bofonchio seccato. «Io sto bene. Se mi hai contattato per questo, puoi anche tornare a prendere il sole a North Shore».

Quando ripenso a quello che è appena successo, a Vincent che continua ad apparirmi ovunque come un incubo a occhi aperti, avverto la bugia bruciarmi nel petto. Ma mi ripeto che non c'è niente di male a mentire, se serve a non farlo preoccupare.

«In verità, qui è sera. Devo preparare la cena» precisa Matt.

«Giusto, il fuso orario». Mi lascio sprofondare sul letto, fissando il soffitto bianco in contrasto con le pareti color crema. «Aspetta, ma tu non sai cucinare!»

«Ehi, solo perché sono ricco e viziato non significa che non sono nemmeno capace di fare una cena romantica per la mia dolce metà».

"Dolce metà". Devo ammettere che non credevo che lo avrei mai sentito pronunciare parole del genere, e di sicuro non in un tono così affettuoso. «D'accordo, ho capito. Andremo a un funerale, invece che un matrimonio, allora».

«Grazie, piccolo Mozart. Avevo proprio bisogno di un incoraggiamento» replica Matt, facendomi sorridere. «Allora, mi racconti che cos'hai o dovrò fingere di non aver capito che quella che stai bene è solo una balla?»

Il mio sguardo si posa sul pianoforte a coda all'angolo della stanza, di un nero talmente lucido da potercisi specchiare. Quello che suonava Matt, invece, era bianco come la neve, ma ormai deve essere impolverato e scordato, dato che Alizée lo ha fatto mettere sulla torre. Non quella ad ovest su cui ho portato Keeley, vicino alla palestra, ma l'altra in cui neanche al personale è permesso entrare, non lontana dall'accesso alle cantine.

Del resto, tutta quell'area è sempre stata off limits per me e i miei fratelli; ragione che ci ha spinti più volte a cercare di intrufolarci di nascosto, con l'unico risultato di finire in castigo -studio forzato e astinenza da qualsiasi apparecchio tecnologico- per settimane.

«Posso...» esordisco esitante. «Posso farti una domanda?»

Percepisco il suo ghigno ironico, dall'altra parte della linea. «La battuta "me ne hai appena fatta una" è passata di moda, vero?»

«Già, insieme ai jeans a vita alta». Scrollo le spalle. «Ma tanto c'è già Liam che si veste come uno yuppie griffato degli anni Ottanta. Almeno tu sei vecchio per davvero».

«Un vecchio niente male, però. Le donne in coda con me al banco del pesce mi stanno guardando con la bava alla bocca».

Scuoto la testa, scoppiando in una risata spontanea. Poi, tornato serio, mi ribalto sulla pancia e passo il telefono dalla mano sinistra alla destra, con i gomiti puntellati sul materasso.

«Se, ipoteticamente, mio... Michael fosse vivo. E io volessi...» Un lacerante senso di colpa mi spegne la voce.

Comincio a rigirare l'anello che porto intorno all'indice, accarezzando il leone che è scolpito sulla pietra d'onice e la "H" in rilievo. Il simbolo e l'iniziale degli Hallander, un cognome che non avrei nessun diritto di portare. «Se volessi conoscerlo, sarei... una brutta persona?»

La pausa che segue è quasi assordante. Non per il frastuono di voci, di gente in movimento o dei bip che segnano il cambio di numero al banco, ma per il silenzio di Matt. Il cuore mi tamburella sempre più forte nel petto e mi picchietto le nocche sulla tempia, rimproverandomi di non essere stato zitto.

Quando parla, lo fa con flemmatica lentezza. «Tuo padre è morto, Klaus».

«Lo so, ma...»

«No» risponde alla fine, e vengo travolto da un moto di sollievo. Il suo tono è comprensivo, non deluso o irritato come mi aspettavo. «Sono dell'idea che non siano le persone a essere buone o cattive, ma le loro azioni. Anche se quello che ha fatto tuo padre è orrendo, non significa che da lui sia uscito solo del male. E non c'è niente di sbagliato in un figlio che vuole incontrare il proprio genitore, quali che siano le circostanze».

Esalo un respiro profondo, lottando per tirare fuori quel dubbio che mi corrode da dentro come acido. «E se fosse la prova che gli somiglio?»

«Non è così» esclama Matt bruscamente. «Klaus, tu sei un ragazzo magnifico, che ha avuto la sfortuna di vivere delle cose che nessuno meriterebbe di subire. E, se davvero in te c'è qualcosa di tuo padre, hai preso soltanto il meglio».

«Allora perché Alizée mi odia?» Mi scompiglio i capelli biondi, stringendone con forza una ciocca tra le dita. «Ho provato a comportarmi bene, ma qualsiasi cosa io faccia per lei è sempre sbagliata! Mi dà la colpa anche quando non faccio niente! L'altro giorno, a cena, stava discutendo con Ian per il tuo matrimonio e mi ha urlato contro senza motivo!»

Matt esita un istante. «Tua madre è una donna arrabbiata e ferita che, purtroppo, ha riversato su di te tutto l'odio e il dolore che invece spettavano a tuo padre. Ma non devi dimenticare che non hai le sue colpe e che non importa il modo in cui sei nato. Perché non è il sangue a definire chi siamo, Klaus».

Fa una breve pausa e poi aggiunge, con una punta scherzosa: «Altrimenti dovrei essere noioso come il mio fratellone. A questo proposito, si comporta bene con te? Non vorrei doverlo prendere a calci, quando torno».

Abbozzo un mezzo sorriso. «Tranquillo, con Ian è... okay». È una stupidaggine da dire, ma non è facile descrivere il rapporto con un uomo che si comporta come se fossi un fantasma ambulante.

Prima che possa insistere sull'argomento, chiedo speranzoso: «Tornerai presto a Sunset Hills?»

«Entro il fine settimana» borbotta, senza grande entusiasmo. «In verità, non ho molta fretta di tornare ai drammi familiari».

So che detesta questa città fin da giovane, infatti le sue visite sono sempre state alquanto brevi e sporadiche, di solito durante l'estate; basti pensare che dall'ultima volta sono trascorsi ben due anni.

All'improvviso, sento una voce gridare qualcosa di indistinto dall'esterno.

Nonostante la distanza, la riconosco subito e balzo giù dal letto in maniera automatica, ogni cellula del mio corpo che freme dal bisogno di rispondere al suo richiamo. È come se fossi una calamita, e lei il mio eterno polo di attrazione.

«Secondo te, il salmone è adatto per un appuntamento galante?» Matt fa un mugolio dubbioso. «Forse era meglio la carne?»

«Ehm sì, cioè no» replico distratto, uscendo sul terrazzo. Un soffio di vento freddo mi frusta le guance. «Il salmone è perfetto, ma la cucina non è proprio il tuo forte. Dovresti puntare su ricette semplici».

«Non posso solo... cuocerlo?»

Mi siedo a cavalcioni sul muretto e mi sporgo verso il basso. Tre piani più sotto, in giardino, Stefan sta salendo sul suo vecchissimo furgone cigolante, che Elizabeth gli aveva vietato di vendere. Lo avevano portato da New York e sognava di farlo riparare per poterlo guidare anche lei, in un futuro che però non le era stato concesso.

Keeley sta parlando con il suo responsabile alla Walker Agency, Alan, ma entrambi sono seminascosti dal portico coperto e non riesco a vederla con chiarezza.

«Zio» mormoro, tenendo il telefono incollato all'orecchio. «Come hai capito che ti piaceva?»

«Il salmone? Aveva un bel colore e...»

Roteo gli occhi. «Lei».

«Ah... Beh, sono al supermercato da mezz'ora e ho appena conteso una bottiglia di champagne con una vecchietta, quando avrei potuto prenotare in un ristorante a cinque stelle. E tutto perché voglio essere io a fare qualcosa di carino che la renda felice» spiega Matt con un tono sognante di cui non lo credevo capace. «Farei qualsiasi cosa solo per farla sorridere. Devi guardare nelle piccole cose, Klaus».

Una serie di ricordi si accendono come sprazzi davanti al mio sguardo. Io e Keeley sull'autobus, diretti all'incontro con Gladys, e la soddisfazione che ho provato quando il cuore ha preso a tuonarle nel petto, dopo che le avevo detto quanto fosse bello il suono della sua risata.
Lei stesa sotto di me, sulla torre, con le guance rosse per il freddo e la neve nei capelli blu, l'emozione di sapere che si era fidata tanto da calare le sue difese, totalmente rilassata tra le mie mani.

Oppure noi due sull'amaca, il dito di Keeley che mi sfiorava la cicatrice e il suo braccio appoggiato sul mio petto: una parte di me mi diceva di fermarla, perché il contatto fisico significa dolore, ma l'altra desiderava a tal punto il suo tocco che le avrei anche permesso di farmi del male, se avesse voluto. Eppure, ero certo che non me ne avrebbe fatto, e così è stato.

«Sì, conosco la sensazione». Mi accorgo di essermi lasciato sfuggire quel pensiero e preciso: «O meglio, la immagino. Credo».

Non è difficile intuire che, in questo momento, Matt sta sogghignando in un modo molto simile a Kal. «Perciò c'è di mezzo anche una ragazza, eh?»

Mentre arrossisco, ringrazio mentalmente che non possa vedermi. «No, figurati».

Adesso, Keeley e Alan si sono spostati su una panchina, fuori dal recinto dell'area giochi, e stanno discutendo. Sebbene sembri più una chiacchierata animata piuttosto che un litigio, capisco che è turbata dalla sua postura rigida, quasi sulla difensiva.
Sono sicuro che si sta mordicchiando il labbro e che la mano che tiene in tasca giocherella con il suo coltellino svizzero.

«Va bene, forse sì» mi arrendo, facendo spallucce. «Ma non importa. Sta con... un altro». Ed è migliore di me.

«Ahia, ci sono passato!» C'è una sfumatura di amarezza nel suo tono, sepolta dal sarcasmo. «Noi Hallander ci innamoriamo sempre della persona sbagliata».

Un raggio di sole mi fa strizzare la palpebre, spuntando da dietro il turbinio di nuvole bianche che disegnano forme mutevoli su una distesa azzurra. «Ti lascio alla tua cena. Andrai alla grande».

«Ah, Mozart! Non mi sono scordato che devi farmi sentire la sonata numero diciotto».

Aggrotto la fronte. «Hai ascoltato il mio messaggio?»

«Li ho ascoltati tutti» replica Matt con dolcezza. «Klaus, so che sono stato poco presente e mi dispiace tanto, ma d'ora in poi ci sarò. Per qualunque cosa, sappi che non sei solo». A giudicare dalla sua voce ferma, sembra quasi una promessa. «E ho una sorpresa per te».

«Che sorpresa?»

«Non si chiamerebbe così, se te lo dicessi». Dall'altra parte, riecheggia il rumore di una portiera sbattuta e il chiacchiericcio si spegne. «Ti voglio bene, piccolo Mozart. Più di quanto credi».

Quelle parole, così semplici e comuni, mi suscitano una stretta piacevole allo stomaco: ti voglio bene. Esclusi i miei fratelli, che non hanno nemmeno bisogno di pronunciarle per dimostrarmi il loro affetto, nessuno me le direbbe mai nella mia famiglia. Alizée non me ne vuole e per Ian esisto a malapena.

«Anch'io, zio».

«Ah! Per quella ragazza» riprende Matt. «Vuoi il consiglio di uno che ha sempre fatto casini con la propria vita sentimentale?»

Inarco un sopracciglio, divertito. «Spara».

«Dovresti dirle quello che provi e lasciare che sia lei a decidere. Che ti ricambi o meno, ha diritto di saperlo: è più giusto nei confronti di tutti e tre, compreso il suo attuale ragazzo. So che le stai lontano per non farla soffrire, ma è un controsenso... se ti ama, soffre comunque».

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