48. CUGINETTO

Con uno sbuffo, raddrizzo il cuscino adagiato contro il muro e mi ci butto di nuovo sopra, stringendo il Nintendo tra le mani. Sul piccolo schermo rettangolare, un mostriciattolo verde e bianco sta sgommando sulla pista dopo essere stato sorpassato da un ometto baffuto in salopette blu –in altre parole: Yoshi e Mario.

«Non può essere!» Con la coda dell'occhio, vedo Jonas che fa avanti e indietro per la stanza, accompagnato da lievi spirali di nuvolette bianche. È la terza sigaretta che fuma in dieci minuti. «È assurdo! Mia madre non è... Impossibile! Ti sbagli!»

Faccio uno sbadiglio esausto e distendo le gambe in mezzo al cumulo di pupazzi che si ammassa sul fondo del letto. «Quanto durerà questa tua fase di negazione, cuginetto?» obietto in tono annoiato, continuando a giocare. «Faresti venire il mal di mare a un pesce».

Jonas si ferma e si volta verso di me, furioso. «Come diavolo fai a prenderla così?»

Faccio spallucce. «Ormai, posso anche scoprire che mio padre ha avuto una tormentata, e disgustosa, storia d'amore con Alizée o che la gatta degli Hallander è una spia russa mandata dalla Bratva. Tanto mentirmi è diventato peggio di una challenge su Tik Tok».

«I calcoli non tornano, Keeley!»

«Ah sì? Non sono brava in matematica». Digrigno i denti, colpendo con foga il materasso. «Argh, maledetto Bowser! Non mi meraviglio che tu abbia le corna, brutto imbro... EHI!»

Dopo avermi strappato il Nintendo, Jonas lo richiude e lo ripone sulla scrivania, invasa da libri evidenziati in vari colori e fogli pieni di appunti scritti in una pessima grafia. Infine, torna a guardarmi in un atteggiamento di sfida.

«Cugini da cinque secondi e già mi fai i dispetti?» replico, scuotendo la testa. «Iniziamo male».

Jonas assottiglia le palpebre con un'espressione truce. «Noi non siamo cugini».

«L'albero genealogico dice il contrario».

In seguito alla mia rivelazione, mi ha letteralmente trascinata via dal soggiorno per un gomito e sbattuto la porta dietro di noi. Con due letti singoli separati da un comodino, scaffali ricolmi di trofei di baseball e scatole di puzzle e un grosso armadio su cui è appeso un poster di Albert Einstein che fa la linguaccia, la sua camera non è spaziosa neanche la metà della mia, alla villa. Tuttavia, questo non gli ha impedito di cominciare a macinare passi in tutte le direzioni, farneticando tra sé e sé.

Non avendo altre foto di sua madre, non ha potuto che mostrarmi la stessa più volte, come se si aspettasse per magia un esito diverso. Ma non c'è nessun dubbio che la Céline Dubois ritratta in quell'immagine è identica alla zia Moira a cui lanciavo i corn flakes nei capelli, la mattina. O almeno, una sua versione ventenne... e senza cicatrice.

«Hai detto che la sorella di tuo padre è scappata di casa da ragazzina, giusto?» Jonas afferra la sedia girevole, vecchia e spellata, e ci si getta sopra, facendo stridere le rotelle sulle piastrelle porcellanate. Aspetta che io faccia un vago cenno per proseguire, tenendo il mento sulle punte delle dita intrecciate. «Non torna. Céline ha lasciato Sunset Hills a ventidue anni, più o meno, e comunque veniva da una famiglia ricca, non una di Baker Street come gli Storm».

«Però hanno un passato simile. Entrambe avevano problemi con i genitori, entrambe sono scomparse in circostanze sospette». Prendo una rivista da una mensola, tolgo la matita rosicchiata incastrata tra le pagine e la sfoglio distrattamente. Ci sono esercizi di logica di ogni tipo: sudoku, cruciverba, anagrammi, indovinelli matematici e così via. «Mia zia aveva una cicatrice sulla gola. Stando alla leggenda, Céline Dubois è stata...»

«Sgozzata dal fantasma di Michael Waylatt, nel suo chalet». La voce di Jonas è venata di seccata ironia. «Eppure, negli ultimi diciassette anni, ha mandato un sacco di lettere e cartoline dalla Germania a sua madre. Cos'è, un miracolo?»

«In Paradiso hanno un buon servizio postale, magari». Mi tiro a sedere a gambe incrociate, picchiettando l'estremità mangiucchiata della matita sul ginocchio. «Orizzontale, quattro lettere. Definizione "culetto, glutei". Scusa, sono l'unica a cui viene in mente la parola...»

«È una stronzata».

«No, troppo lunga». Quando dardeggio gli occhi su di lui, noto che mi sta fissando con uno sguardo omicida. «Ah, parlavi della leggenda. Non saprei». Aggrotto la fronte, puntando di nuovo la mia attenzione al quiz. «Insomma, la parte del fantasma fa molto Ghostbusters, ma credo che qualcuno abbia davvero cercato di ucciderla. Per vendicarsi di aver testimoniato al processo, forse. Ed è stata costretta a scappare, fingendo di andarsene a Berlino con la scusa di liberarsi del figlio che non voleva».

«Fantastico» replica Jonas in tono amaro. «Quindi, mi ha smollato qui per crearsi una bella storiella di copertura».

Sento montare nel petto un impeto di fastidio. «O per proteggerti».

«E questo dovrebbe giustificarla?»

Per un attimo, rifletto su mio padre, sulla mia situazione tremendamente simile a quella di Jonas. Tutti e due siamo stati abbandonati da chi, invece, avrebbe dovuto starci vicino e prendersi cura di noi: non volevano che ci venisse fatto del male, ma alla fine sono stati loro i primi a ferirci.

«Probabilmente no» sbuffo, tentando di nascondere la mia tristezza. «"Louis, pittore francese". Ma non era un cantante degli One Direction? No, aspetta, forse era quello che faceva borse...»

Jonas si scompiglia i capelli corvini con un gesto esasperato. «Si riferisce a Louis Valvat, genio».

«Sì, ci sta» annuisco, scrivendo nei riquadri. Mi mordicchio il labbro, esitando per qualche secondo, infine indico la foto dalla cornice dorata riposta sul comodino. «Elizabeth ti aveva chiesto di Céline, vero? Avevi mostrato quella anche a lei».

Sul volto di Jonas cala l'ombra di una muta tristezza, un dolore cieco e disperato che brucia di riflessi dorati le sue iridi verdi, da gatto ma profonde quanto quelle di un serpente.

«Non proprio. In verità, non ho mai avuto niente di mia madre, prima d'ora. La famiglia Dubois non voleva avere nulla a che fare con me e ha cancellato ogni traccia di Céline, si vergognavano» spiega con amarezza. «Il suo matrimonio con un uomo del quartiere più povero della città era stato un insulto per loro reputazione, una macchia che volevano cancellare».

Fa una pausa per fare un tiro dalla sigaretta, già consumata a metà, e rilascia il fumo dalle narici. Nemmeno l'aroma di rosmarino, sprigionato dai vasi sul davanzale, ormai è sufficiente a sovrastare la puzza acre del tabacco.

Inaspettatamente, un sorriso mesto spunta sulle sue labbra. «Liz ha trovato per caso questa foto, rovistando negli annuari scolastici della Black High School, e me l'ha data».

Emetto un mugolio d'assenso e scribacchio un'altra risposta sul cruciverba, ma il mio cervello si sta spremendo le meningi, raccogliendo e processando le informazioni raccolte in queste settimane.

Nella notte del mio incidente, Elizabeth dormiva in un albergo a Clayton, dopo che Klaus era stato arrestato per essersi introdotto nella sede dell'agenzia. La mattina seguente, era turbata da qualcosa, e da allora ha iniziato a indagare su Céline. Céline... cioè Moira.

Mia zia che è stata uccisa in una strada deserta, così deserta che non ci sarebbe stato alcun testimone a confermare la mia versione dei fatti. E tutti hanno cercato di persuadermi che lo avessi immaginato, che l'uomo con la pistola era solo un'allucinazione dovuta al trauma...

Di colpo, metto da parte la rivista e balzo in piedi, calpestando gli scarponi che avevo lasciato accanto al letto. Il pavimento è freddo attraverso i calzini e refoli di vento penetrano dalla finestra socchiusa, depositando carezze gelide sulle mie guance.

Jonas si alza dalla sedia, osservandomi con la sigaretta fumante tra le dita. «Che hai, adesso?»

«Non c'era nessuno» affermo, più rivolta a me stessa che a lui. «Quando mia zia, anzi tua madre è morta, non c'era nessuno in giro».

«Non capisco» ribatte accigliato. «E allora?»

«Io sono viva!» Mi indico, spiccando un saltello impaziente. «Sono qui, no?»

«Di solito, la gente non si lamenta di questo».

Un brivido mi scende lungo la spina dorsale. Quando parlo, le parole mi raschiano la gola come lame, quasi si rifiutino di uscire. «E se fosse stata Elizabeth a chiamare l'ambulanza che mi ha salvata?»

La domanda rimane sospesa tra di noi, risuonando in un'eco inquietante nel silenzio cupo calato nella stanza, appena scalfito dai sibili della brezza autunnale. In lontananza, sento il frastuono del traffico che giunge dalla strada e il chiasso tipico dei mercatini; gli unici segnali che il tempo non si è fermato.

Ma è il trillo improvviso del campanello a riscuoterci, facendoci sussultare all'unisono.

D'istinto, la mia mano scatta al coltellino nella tasca. «Aspetti visite?» chiedo diffidente.

Aspirando un'ultima boccata, Jonas spegne il mozzicone nel posacenere sulla scrivania e scuote la testa, corrucciato. A differenza mia, però, non sembra preoccupato, al massimo sorpreso o infastidito per l'interruzione.

Non ha ancora allungato il braccio verso la maniglia che mi sono già precipitata ad afferrare una delle mazze nell'angolo, accanto all'armadio.
Colgo il suo sguardo perplesso e chiarisco, sulla difensiva: «Guarda che la mazza da baseball è un'ottima arma per la protezione personale! Lo insegnano a Teen Wolf».

«Quella è una mazza da cricket, non si somigliano neanche». Dall'ingresso viene il suono del campanello, più lungo del primo ma non insistente. «E poi pensavo avessi il tuo stuzzicadenti».

«Infatti, questa è per te» dico, ficcandogliela in mano. «E vado prima io, cuginetto macho».

Jonas lancia la mazza sul letto e mi segue lungo il corridoio che conduce all'open space. Il rubinetto della cucina continua a perdere, ogni goccia che produce un ticchettio magnetico. «Vuoi smetterla di chiamarmi in quel modo?»

«Cuginetto o macho?»

All'ingresso, al di là del vetro satinato, è visibile una sagoma imponente, alta almeno due metri e piuttosto robusta. Scoccandomi un'occhiataccia, Jonas mi spinge dietro di sé con fare rude e controlla dallo spioncino. Le sue spalle larghe hanno un fremito e avverto i muscoli della sua schiena che si tendono come corde di violino. Poi si ritrae e apre con un movimento rigido.

In quello stesso momento, sfodero il coltellino, tenendomi pronta a frappormi fra lui e chiunque dovesse apparire sulla soglia, qualora cercasse di aggredirlo.

«Ah». Il nuovo arrivato rimane interdetto per un istante, passando in rassegna me e Jonas con i suoi occhi glauchi. «Buongiorno, Keeley».

«Spilungone!» esclamo stupita. «Mi hai rintracciata con la tecnologia della CIA, per caso?»

«In verità, non cercavo te». Liam guarda ancora prima uno poi l'altra, un'ombra che gli guizza sul viso. Accenna alla lama sottile che spunta dalla mia mano. «Sembrate un po' agitati».

«Che cosa vuoi, Hallander?» Jonas sputa l'ultima parola come se fosse velenosa.

«Non mi inviti neanche a entrare? Non è molto cortese da parte tua».

Per tutta risposta, lui stringe i pugni lungo i fianchi, contraendo la mascella. Per un momento, sono certa che stia per attaccarlo, ha già fatto un piccolo passo in avanti, ma alla fine si scansa per farlo passare.

Probabilmente, si è reso conto che, per quanto allenato e scolpito sia il suo fisico, Liam lo supera di una spanna ed è anche più piazzato. Dubito che il risultato di uno scontro finirebbe come quello con Klaus.

Riposto il mio coltellino, mi arrampico sul bancone vicino al lavandino e comincio a giocherellare con i cacciaviti sparpagliati intorno alla cassetta degli attrezzi. «Va bene. Facciamo finta che tutto questo non sia imbarazzante».

«Sarò breve». Liam si avvicina a una poltroncina di un orrendo verde vomito, facendo scorrere le dita sul ruvido schienale di lino. Si direbbe che stia facendo una chiacchierata con un vecchio amico che non vede da tempo, piuttosto che con un ragazzo che lo disprezza. «So che hai il brutto vizio di sfogare la tua rabbia su mio fratello. Ti sarei grato se la smettessi».

Mi paralizzo con il braccio proteso verso il lavabo. Era ovvio che prima o poi l'avrebbe scoperto, ma mi domando se sappia che gli ho mentito per aiutare Klaus a nascondere la rissa che ha avuto luogo a Baker Street, quella domenica.

Jonas scoppia in una risata acida. «Quel bastardo è così vigliacco che deve mandare il fratellone a proteggerlo?»

«Bada al linguaggio, Rocky Balboa» commento stizzita, incapace di trattenermi.

«Non si difende neanche da solo, perché dovresti farlo tu al suo posto? Potrei fargli qualsiasi cosa, quello che mi pare, e non muoverebbe un dito contro di me» prosegue lui, fissando Liam con una smorfia provocatoria. «Forse perché sa che merita di soffrire... o magari gli piace essere picchiato. In fondo, è abituato, no?»

«Comprendo la tua sofferenza, Jonas. Quindi, farò finta di non aver sentito». La stoica impassibilità di Liam si incrina appena, ma c'è qualcosa di quasi sinistro nella calma della sua voce o nel suo atteggiamento tranquillo. «Ma il dolore non giustifica la violenza, nemmeno se mio fratello fosse colpevole –e non lo è».

Si china sul tavolino e prende due pezzi neri dalla scacchiera: il re e l'alfiere. Li rigira nel palmo e la sua bocca si increspa in un mezzo sorriso abbastanza minaccioso. «Se tu dovessi sfiorarlo di nuovo, se dovesse tornare a casa anche con un graffio...»

«Che cosa?» Aggirando la poltrona, Jonas gli si mette di fronte e gonfia il petto, forse per cercare di compensare il divario di centimetri e di stazza tra loro. Con scarso successo. «Vuoi minacciarmi, William?»

La tensione è così palpabile da trasformare l'atmosfera in una cortina elettrica che aleggia nell'aria. «Magari ci sono anche i popcorn» borbotto, rovistando nel mobile sopra al forno.

«Come ho detto, io ripudio la violenza» riprende Liam, sistemandosi uno dei gemelli di diamante sul polsino. «Ma ti ricordo che frequenti la Black High School grazie a una borsa di studio, finanziata da mia madre. Se mi è bastato un incontro con il preside Hale per farti sospendere per un paio di giorni, quanto pensi che mi sarebbe difficile togliertela?»

Jonas aggrotta la fronte, il mento alzato, senza smettere di guardarlo in cagnesco. Tuttavia, è chiaro che è rimasto spiazzato.

«Un diploma a un istituto tanto prestigioso ti aprirebbe le porte di molti college. Visti i tuoi voti impeccabili, mi dispiacerebbe rovinare il tuo brillante futuro... ma credimi, se torcerai un solo capello a Klaus, non avrò problemi a farlo». Emette un lungo sospiro, quasi annoiato. «E no, non è una minaccia. Piuttosto un amichevole avvertimento».

«Sarai anche bravo a nasconderlo, ma in fondo sei un bastardo come tutti gli Hallander» ringhia Jonas corrucciato.

«Lo so. È un difetto di famiglia, temo».

D'un tratto, entrambi si girano nella mia direzione, attirati dallo scrocchiare di una patatina.

Faccio ciondolare i piedi a pochi centimetri dal pavimento, seduta sul bancone con un pacchetto di Cheetos in grembo e la mano davanti alla bocca aperta, soffiando con la lingua di fuori. «Sahete quanto picano?» biascico, sentendo la gola in fiamme.

L'espressione di Liam si ammorbidisce mentre deposita i pezzi degli scacchi sul tavolino e mi sorride. «Ho un impegno più tardi, ma se vuoi posso riaccompagnarti a casa. Non è un problema».

Mi blocco, intenta a leccarmi l'indice con un smorfia d'agonia. «No. Scrocco un passaggio al professore».

Divertito, lui annuisce e attraversa il soggiorno con assoluta nonchalance. Si ferma sulla soglia, le mani incrociate dietro la schiena, puntando su Jonas uno sguardo tetro che mi fa accapponare la pelle.

«Ah, comunque, so che hai ballato con mia sorella, ad Halloween» precisa freddamente. «Non so cosa sperassi di ottenere, ma stai lontano da lei. Perché se le dovesse succedere qualcosa, sarai il primo che verrò a cercare». Fa una breve pausa e conclude: «E, nel caso ti sorgesse il dubbio, sì. Questa è una minaccia».

Il ragazzo rimane imbambolato a guardare il portone dietro cui Liam è scomparso, senza riuscire nemmeno a sbattere le palpebre. Dopo qualche secondo, si lascia cadere sulla poltrona e tira indietro un ciuffo dei suoi capelli nerissimi che gli ricadeva sulla faccia.

Scivolo giù dal bancone, mangiucchiando un'altra patatina. Ormai ho le guance sudate e gli occhi lucidi per colpa del piccante, ma sono talmente buone che ne vale la pena. «Tu sai che se farai del male al biondino, o anche a Eileen, dovrai avere più paura di me che di Mister Prada, vero?»

Jonas rimette il re e l'alfiere sulla scacchiera, nello stesso punto di prima, e aggiunge un altro pezzo completamente diverso, accanto alla torre: un disco della dama. Rosso... strano, visto che ne aveva anche neri.

«Gli Hallander non sono i buoni, Keeley».

Per un attimo, la sua voce fioca –addirittura triste– mi lascia interdetta. «Ora devo andare, ma ne riparleremo, anche di Elizabeth». A quel nome, lo vedo trasalire. «Prima, però, tu dovresti seriamente fare quattro chiacchiere con tuo padre su Moira, o Céline, chiamala come vuoi. Ci ha fatto un figlio, quindi doveva conoscerla bene».

Non ricevendo nessuna risposta, lo raggiungo e gli lancio il pacchetto di Cheetos sulle gambe. «E ricorda di leccarti le dita, cuginetto».

Un attimo prima di uscire, lo sento mormorare in tono quasi impercettibile: «Ti giuro che non farei mai nulla a lei».

***

«Incredibile! Mi aspetto un comportamento del genere da una mocciosa con manie egocentriche, ma tu dovresti essere un adulto, ca... maledizione

Inarco un sopracciglio, tenendo un braccio ripiegato sul tavolo e il mento affondato nella parte interna del gomito. «Non era quella la parola che...»

«Taci!»

Per una volta, decido di ammutolirmi. Sebbene questa sia stata la mia uscita segreta meno scandalosa –era quasi autorizzata, e non c'era l'aggravante “Klaus– ha mandato Alizée fuori di sé per la rabbia.

Al nostro arrivo, ci ha assaliti direttamente in soggiorno, senza neanche prendersi il disturbo di scacciare Kal che, spaparanzato sul divano, sta ancora giocando alla PS4. Anche se finge di non origliare, dal ghigno che stenta a reprimere è facile intuire che lotta contro l'impulso di sbellicarsi dalle risate.

A essere onesta, la scena ha un che di comico anche per me. Insomma, essere rimproverata insieme a un professore da Crudelia De Mon, con la colonna sonora di Dragon Ball Xenoverse come sottofondo, non è il massimo della serietà.

«Mi dispiace». In piedi vicino alla mia sedia, Stefan la guarda con l'aria di un cane bastonato. «So che non dovevo mentirti, non succederà mai più».

Alizée sfodera uno dei suoi sguardi gelidi. «Di questo puoi starne certo. Sei licenziato».

Con un sussulto, tiro su la testa di scatto. «No! Ehi, time out!» esclamo con urgenza, sollevando una mano. «È colpa mia, non sua!»

«No, ma dai! Mamma!» geme Kal, mettendo in pausa il videogame. «A me piacciono le lezioni con Stef! È il prof. più figo che abbia mai avuto!»

«Puoi continuare a lavorare al liceo, ma troverò un altro insegnante privato per i miei figli». Alizée prosegue come se non avessimo aperto bocca, i suoi piccoli occhi verdi che non si smuovono da quelli dell'uomo, azzurri e limpidi. Niente sembra in grado di turbarlo. «Non sono sentimentale quanto credi, Stefan».

«Eppure porti ancora la sua collana» replica lui, imperturbabile. «Se non è sentimentalismo questo...»

Tra i due si è creata una sorta di intesa che mi provoca una sensazione che ho già sperimentato in passato, nessuno a parte loro possa capire il vero significato di quelle parole. Corrugo la fronte e intercetto lo sguardo di Kal, che scopro essere confuso quanto me.

Sapevo che Alizée l'aveva assunto in seguito alla morte di Elizabeth, un modo per scagionare Klaus agli occhi dell'opinione pubblica: se perfino il padre della vittima credeva nell'innocenza degli Hallander, anche tutti gli altri sarebbero stati spinti a fare altrettanto. Adesso, tuttavia, ho il presentimento che ci sia qualcosa di più profondo.

Di riflesso, la donna accarezza il ciondolo dell'aquila che le pende tra i seni, facendo capolino dalla scollatura del lungo vestito cremisi. L'immancabile stole di pelliccia, oggi bianca a strisce nera, anziché maculata, le avvolge il collo.

«La porto solo per un motivo» sibila con voce incrinata. «Ricordare».

Quando mi accorgo che si sta indirizzando verso il salone con il mosaico, indubbiamente diretta al suo studio, mi alzo con un salto e la seguo di corsa.

«Aspetta, devo parlarti di...» "Mia madre" penso, ma cambio subito idea. «... una cosa importante!»

«No, devo lavorare».

Mi basta guardarla per capire che non è più soltanto infuriata, ma c'è anche qualcos'altro che mi è molto familiare. Lo stesso dolore che ho visto in Jonas, meno di mezz'ora fa, nel parlare di Elizabeth. E lo stesso che provo io ogni volta che penso a mia zia, o ai miei genitori.

Un sentimento che ti scava nell'anima una piccola, lacerante buca dove prima c'era la persona che amavi, e non importa quante altre emozioni ci butterai dentro, come l'odio per chi accusi di avertela strappata, la felicità per averla riavuta o il rancore per le bugie che ti ha raccontato.
Quel punto rimarrà eternamente vuoto.

«E poi, mentre eri a spasso per Baker Street, ho chiamato il tuo responsabile all'agenzia» obietta Alizée, fissandomi torva. «Parlerai con lui».

Un brivido inorridito mi scuote, ma non faccio in tempo a riprendermi che si è già allontanata e ho perso tutta la voglia di discutere con lei.

Dopotutto, a quale scopo dovrei farlo?

Di sicuro, non si metterà a raccontarmi aneddoti della vita di mia madre e, con ogni probabilità, non mi dirà la verità su ciò che è accaduto al matrimonio, ammesso che la conosca. E, in realtà, non la voglio nemmeno sapere. Non oggi. Sono troppo stanca per...

«Keeley» mi chiama Kal sbuffando, appena torno in salotto. Mi porge un controller da sopra lo schienale del divano. «Aiutami a sconfiggere il dio della distruzione, ti prego!»

Lo ignoro e sfreccio nell'atrio. «Professore» grido, spalancando il portone di quercia per raggiungerlo.

Lo trovo fermo sotto il portico, non lontano dalla sedia a dondolo su cui ho baciato Simon, la sera che ho accettato di uscire con lui. «Da uno a dieci, quanto sei incavolato...» Il resto della frase mi muore in gola, appena mi rendo conto che non è da solo.

Con un'espressione perplessa, Alan sta stringendo la mano a Stefan, o meglio si limita a sopportare che quest'ultimo gliela stritoli con un po' troppo entusiasmo.

Non è cambiato dall'ultima volta che ci siamo incontrati: camicia di flanella, jeans sorretti da una cintura e capelli castani spolverati di bianco sulle tempie. Nell'istante in cui dardeggia lo sguardo su di me, gli angoli della bocca gli si incurvano un poco verso l'alto.

«Ehm, allora» balbetta Stefan. Per qualche ragione, è diventato paonazzo e ha un sorriso inebetito dipinto sul volto. «Tu sei... cioè, lavori per la Walker Agency, no?»

Così dice.

Noto che i suoi occhi sgranati non si staccano mai dal petto di Alan. Non capisco perché, dato che non c'è niente lì, eccetto il tessuto a quadri e, sotto di esso, i muscoli che guizzano sul suo torace. Ma dubito che possano interessargli.

«Già, da qualche anno» risponde Alan, studiandolo con fare dubbioso. «Scusami, è possibile che io e te ci siamo già incontrati?»

Stefan continua ad agitare il braccio dell'altro, come se non ricordasse che non ha ancora mollato la presa. «Sì, beh, Sunset Hills è una piccola città» replica, dopo un attimo di esitazione. «Vieni spesso alla villa?»

«Non molto». Alan si schiarisce la gola, imbarazzato. «Potrei riavere la mia mano, per favore?»

«Oh, scusa». Il professore ridacchia, facendosi quasi violaceo, e si affretta a lasciarlo. «Ora vado. Chissà, magari ci rivediamo. In giro. Per un caffè. Se vuoi». Percepisco una nota speranzosa nel suo tono che mi coglie di sorpresa.

«Certo, forse» replica lui, sempre più interdetto. «Comunque, è stato un piacere conoscerti».

Il sorriso di Stefan si allarga. Non credo di averlo mai visto così... non saprei, leggero. «Il piacere è tutto mio».

Mi saluta con un cenno e si incammina verso il furgone tutto ammaccato, che stona terribilmente alla destra della Maserati, e in generale nello sfarzo del giardino.

Rimasti da soli, Alan mi scocca un'occhiata interrogativa che sta a significare "Cos'è appena successo?", e io scrollo le spalle. «Ha una dipendenza da caffeina. Sarà per quello».

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