46. STORM PT.2
«Che? Anzi no, non voglio saperlo» sospira Alaric rassegnato.
Amelia ripone il suo manga nella borsa, la mette a tracolla sulla spalla e si alza, facendo stridere le gambe di metallo. «Devo andare. Nella biblioteca hanno aggiunto una collezione di vinili e voglio vedere se c'è l'album che mi manca dei Pink Floyd».
«Vengo con te!» afferma Kal, scattando in piedi come una molla.
«No, tranquillo. Non serve». La sua voce suona quasi speranzosa. «E poi a te neanche piacciono i vinili».
Lui annuisce con molta, anzi troppa, convinzione. «Li adoro, invece! Me ne faccio regalare sempre un sacco per Natale!»
Edric rilascia uno sbuffo sommesso, scuotendo la testa. Apre la bocca, ma poi nota che Alaric lo sta ancora fissando e torna a mangiare, percorso da un brivido percettibile.
«Cosa?» Simon sgranocchia un biscotto con le gocce di cioccolata, interdetto. «Sono anni che per Natale chiedi soltanto videogame di...»
«Ho una passione per i vinili fin dalla tenera età, okay? Accettatemi per quello che sono!» esclama, fingendosi indignato.
Un sorriso divertito affiora sulle labbra di Amelia. Tuttavia, quando dà un bacio sulla guancia a Eileen e le sussurra qualcosa all'orecchio, ha un'aria piuttosto seria. Ci saluta e si allontana, seguita da un saltellante Kal.
«Ehi, Ed». Una ragazza si accosta al nostro tavolo e circonda Edric con un braccio, beccandosi un'occhiataccia torva da Alaric. «Allora, oggi pomeriggio ci vediamo da me per studiare?» gli propone, attirandolo un po' di più a sé.
Devo ammettere che è decisamente attraente. Ha un fisico snello e slanciato, infilato in una camicetta nera con le maniche in pizzo, e una chioma rossiccia raccolta in una coda di cavallo che le svolazza sulla schiena.
Arcuo un sopracciglio, divertita. «Peggio di una cozza». Ma, se mi ha sentita, non lo dà a vedere.
«Ah, ciao Rose» borbotta Edric, raddrizzandosi sulla poltrona. «Non mi ricordavo dovessimo vederci».
Alaric si schiarisce la gola in modo molto rumoroso. «Ci si può parlare anche senza toccarsi. Tanto per dire».
Per tutta risposta, la ragazza stringe la spalla a Edric con fare possessivo. Quando si china, la scollatura a V si abbassa e lascia intravedere l'incavo tra i seni; cosa che fa avvampare Simon come se avesse mangiato una manciata di peperoncini. «Tua madre mi ha assicurato che fossi libero, ma se è un problema...»
«Decisamente sì» ribatte Alaric risoluto.
Edric assottiglia le palpebre nella sua direzione, risentito, poi si rivolge a Rose e sfodera un sorriso forzato. «Scusa, ignoralo. Nessun problema».
«Sei dolcissimo». Soddisfatta, gli dà un buffetto affettuoso sul collo e lascia la mensa, ondeggiando sui tacchi vertiginosi.
Alaric fa una smorfia. «Solo io ho voglia di vomitare?»
«No, ragazzo gelloso. È un sentimento comune» annuisco.
«E chi sarebbe quella, fratellino?» Eileen arriccia il labbro in un modo che mi ricorda molto Alizée.
Accorgendosi di essere fissato da tutti i presenti, Edric spiega con studiato disinteresse: «È Rose Arch, la figlia del mio istruttore di nuoto... vi prego, non dite niente a Kal» aggiunge implorante.
Simon si spinge gli occhiali storti sul naso. «Pensavo ti piacesse Sily. Non ci sei uscito lo scorso sabato?»
Dalla gola di Alaric fuoriesce un verso rauco, pregno di sarcasmo. «Ma davvero? Con Sily?» domanda con un ghigno provocatorio, facendo sbiancare Edric. «E com'è andato il vostro appuntamento?»
«Non... non era un appuntamento» ringhia Edric, ma dalla sua voce tremante trapela tutta la sua paura. È ovvio che vuole disperatamente cambiare argomento.
«Ah no?» insiste lui accigliato.
«Ric, basta!» Corrucciata, Eileen ripone la trousse nella borsa e addita Edric con un indice accusatore. «Non voglio dirti per la centesima volta che devi smetterla di comandare a bacchetta da nostra madre, quindi mettiamo da parte questa triste parentesi».
Esala un brusco respiro e un'ombra preoccupata balena nei suoi smeraldi. «Comunque, credete che Klaus stia bene? Secondo voi, dovremmo fare qualcosa?»
Simon rotea gli occhi da dietro le lenti. «Ha la febbre, mica sta morendo».
«Non mi riferivo a quello! Parlavo del fatto che quello stronzo di suo zio è in città, gli ha mandato un bigliettino inquietante... e lui si comporta come se non gli importasse!» esclama Eileen apprensiva.
«A me ha detto che stava bene, ieri pomeriggio». Alaric prende la mela dal mio vassoio e ne strappa un morso, ridacchiando appena gli do una gomitata allo stomaco per ripicca. «Ma mi aveva anche detto che non sarebbe andato lontano con la mia Corvette, invece deve ancora restituirmela».
«Già, sappi che il serbatoio è vuoto» lo avviso.
«È Klaus!» esclama Eileen sconvolta, ignorandomi. «Ti dirà di stare bene anche dopo che l'ha preso sotto un treno!»
Faccio spallucce. «Se volete la mia non-richiesta opinione, dovreste lasciarlo in pace. Ne parlerà se, quando e con chi vorrà».
Edric scosta il vassoio e, evitando con ostinazione lo sguardo di Alaric, esordisce: «Io la penso come Keeley. A certe persone serve tempo per dire certe cose su sé stessi che preferiscono non condividere con altri».
«Dubito che lo farà». Simon si torce un lembo del maglione. «In sette anni, Klaus non ci ha mai parlato di suo zio, anzi a stento riesce a fare il suo nome. Forse, l'ha fatto con zio Matt, ma tra di noi è Liam l'unico a cui abbia detto quello...» Deglutisce, inorridito. «... quello che gli faceva».
Per un attimo, nella mia mente guizza l'immagine di un piccolo Klaus coperto di lividi che trema nella prigione della sua casa, un bambino magrolino costretto a rubare dall'uomo cattivo che, a sua volta, gli ha rubato l'infanzia.
Un brivido mi scuote il corpo, ma poi l'orrore si trasforma in disgusto e disprezzo. Se è vero che posso voler bere a mia madre senza averla conosciuta, posso odiare visceralmente il mostro che ha fatto del male a qualcuno che amo, pur non avendolo mai incontrato.
«Klaus ha bisogno di distrarsi». La voce di Eileen è incrinata, gli occhi offuscati da un velo lucido. Per la prima volta, la sua spavalderia e sfrontatezza sono scomparse: è soltanto una sorella che farebbe di tutto per proteggere suo fratello, per farlo stare bene. Un timido sorriso carico di tenerezza sboccia sul suo viso. «E forse so come farlo».
***
«Non eri obbligato ad accompagnarmi» commento, torcendomi nervosamente le dita.
Il furgone di Stefan è la cosa più orrenda che abbia mai solcato l'asfalto, a mio parere.
Un ammasso di ferro cigolante che traballa su quattro ruote con il paraurti mezzo sfondato, la radio che funziona a interferenze e la targa che minaccia di staccarsi da un momento all'altro. In passato, doveva essere rosso, ma il tempo lo ha sbiadito in un rosa pallido con le fiancate intessute di graffi, anche se le principali vittime degli anni vissuti sono i finestrini, che sembrano perennemente appannati. Però, almeno, ha il riscaldamento.
«Invece sì. Mi è stato detto che hai la tendenza a svanire nel nulla» ammicca il professore. «E poi Alizée non ti avrebbe lasciata venire. Ma le ho detto che sei con me e che ti riporterò alla villa entro un'ora».
Mi paralizzo a metà di uno sbadiglio e, impallidita, volto la testa di scatto, allarmata. «Non mi avrai tradito? Avrei dovuto immaginare che studenti e insegnanti sono nemici naturali che non possono allearsi!»
«No, le ho solo detto che ti avrei dato ripetizioni». Tamburella le dita sul cruscotto e sogghigna. «Comunque, sei un po' melodrammatica, sai?»
Il silenzio cala tra di noi, spezzato da una canzone spagnola trasmessa a intermittenza. Torno a guardare fuori, osservando passarmi davanti scrostate casette dalle facciate variopinte in ogni colore possibile, che si snodano tra boutique e negozietti di dolciumi.
Quando arriviamo in coda a un semaforo, percepisco Stefan che mi sbircia di sbieco. I raggi luminosi del giorno accendono di riverberi scintillanti le sue iridi, che sono dello stesso azzurro limpido e terso del cielo, trafitto da un sole vivido come un pugno di fuoco. Nonostante ciò, le leggere occhiaie gli conferiscono un aspetto esausto.
«Non ho capito bene cosa vuoi da Jonas, in verità». C'è una sfumatura di ammonimento nel suo tono.
Di nuovo, un acre odore di disinfettante, misto al suo solito di caffè, mi fa storcere il naso. «Puzzi di ospedale» commento, iniziando a girare la manovella del finestrino.
Accolgo con piacere il refolo di vento freddo che mi frusta le guance e scaccia un poco il torpore dovuto alla stanchezza.
Stefan si stringe nella sua logora giacca di tweed beige e i movimenti delle sue mani, sul volante e sul cambio, si fanno rigidi. La sua espressione, però, trasmette l'imperturbabile calma di sempre. «La figlia di una mia cara amica si è fatta male. Lei non può restare a badarla tutte le notti, ma non vuole neanche lasciarla sola. Così mi offro di sostituirla, di tanto in tanto».
«Ah, ecco perché sei un caffeinomane! Non è tutta colpa delle verifiche!»
«È un'altra ragione, sì» risponde con una risatina.
Dopo aver svoltato in un vicolo angusto, sul retro di un mercatino di articoli fetish, il furgone procede sferragliando peggio di un treno, sussultando a ogni buca con uno spaventoso clangore metallico.
Ci fermiamo sul ciglio della strada, in prossimità di un cancelletto arrugginito che si apre su un contorto selciato di terra battuta, invaso da un intrico di erbacce, paglia e stuoie.
«So che dal tuo punto di vista Jonas può sembrare il cattivo, ma ti assicuro che è un bravissimo ragazzo» dice Stefan, spegnendo il motore con uno scoppiettio. «Si è solo... perso».
Le sue labbra si increspano in un sorriso affettuoso, ma anche immensamente triste. Non saprei se per me, per Jonas o per lui stesso. «Tu dovresti sapere meglio di chiunque cosa significa, soffrire per la perdita di qualcuno che si ama molto».
Quelle parole mi provocano una fitta al cuore. «Ti assicuro che, nella mia lista di cattivi, c'è di peggio del Bruce Lee d'America». Tiro la maniglia e spalanco la portiera. «Comunque, non serve che mi riporti a casa. Posso tornare in autobus».
«Il prossimo passa tra un'ora e non mi piace che aspetti da sola, alla fermata. Non a Baker Street». Stefan si passa una mano sul volto, facendo tintinnare le chiavi del furgone. «E poi non hai i soldi per il biglietto, a quanto mi risulta».
«Non sarebbe la cosa più illegale che faccio, professor X».
Supero il cancelletto e mi incammino nel sentiero, attenta a non inciampare negli arbusti e nelle piante che mi si aggrovigliano alle caviglie. A un certo punto, devia a destra di colpo e, dato che la neve è ormai del tutto sciolta, lasciando pozze fangose sul terreno, rischio di scivolare in un'incolta aiuola di erbe aromatiche che riempie l'aria di effluvi pungenti. Oltre al timo e alla salvia tricolore, c'è una gran quantità di rosmarino.
Mi avvicino alla veranda coperta da un telaio, sostenuto da travicelli di legno, e comincio a tempestare di pugni il pannello di vetro satinato del portone d'ingresso. Noto che, sul davanzale, sono allineati dei vasi di basilico, dragoncello e altro rosmarino; qualcuno deve avere un'ossessione.
«C'è una donna inseminata nel grano» canticchio, continuando a bussare. «Volta la gatta si vede il sult...»
La porta si apre e, sulla soglia, compare Jonas con le braccia incrociate sul petto.
Porta una vecchia felpa scolorita dei Buffalo Bills di un verde molto simile a quello dei suoi occhi, che mi fissano in un cipiglio non molto amichevole. Le maniche sono arrotolate fin sopra ai gomiti, mettendo in evidenza i muscoli tirati. «Lo sai che hanno inventato il campanello?»
Accenno ai suoi capelli nerissimi lasciati in maniera sbarazzina. «Hanno inventato anche la spazzola, ma tu non la usi».
Prima che abbia il tempo per ribattere, gli sguscio in fretta accanto e mi intrufolo dentro come un gatto.
Mi ritrovo in un open space abbastanza confortevole, per quanto disordinato. Una serie di poltroncine sono sparpagliate davanti a un televisore acceso, una fiammella danza in una piccola stufetta nell'angolo, sugli scaffali è stipata una collezione di fumetti di Star wars e un tavolo rotondo con quattro sedie è disposto di fronte a una libreria straripante di noiosi manuali scientifici. In mezzo a una catasta di giornali di rebus ed enigmistica, sul bancone è posta una cassetta degli attrezzi piena di cacciaviti e chiavi inglesi, non lontano da un rubinetto gocciolante che produce un suono ritmico.
«Fai pure come se fossi a casa tua» sbuffa Jonas contrito, richiudendo la porta. «Che vuoi?»
«Non sei molto ospitale. Potresti almeno offrirmi...»
«Senti». Jonas inizia a battere un piede sul pavimento con impazienza, indicandomi. «A scuola, sono stato sospeso senza aver fatto niente, probabilmente per colpa della tua famigliola disfunzionale, devo riparare il lavandino, pulire la casa, preparare la cena per mio padre e poi andare al lavoro per un turno di otto ore. Quindi, scusa, ma non ho molta voglia di chiacchierare con la ragazza che piace al bastardo che ha ucciso la mia migliore amica».
«Percepisco un po' di rabbia repressa». Mi accorgo del suo sguardo omicida e annuisco. «Va bene, va bene. In ogni caso, il mio umorismo non è un granché, oggi» mi arrendo con un sospiro.
«Come sapevi che abito qui?»
Faccio spallucce. «Sono venuta con il professore. Volevo parlarti da tutta la mattina, ma ho scoperto che non eri a lezione».
Mi getto su una poltrona e distendo le gambe sul tavolino. Sopra c'è un cubo di Rubik risolto e un altro gioco matematico formato da un ripiano con tre paletti in cui, su quello al centro, sono impilati dei dischetti di grandezza decrescente.
Malgrado ciò, il mio interesse è catturato dalla scacchiera. Forse, perché i pezzi sono posizionati in maniera strana: la regina bianca è rovesciata, l'altra nera è in piedi sul fronte opposto e un re nero si erge nel centro, vicino a un alfiere dello stesso colore ed entrambi sono circondati da quattro pedine e un cavallo, tutte a loro volta sorvegliate da una cupa torre.
«Keeley...»
«Cosa sai di tua madre?» domando, giocherellando con il cavallo degli scacchi. Per qualche motivo, a parte una delle regine, è l'unico pezzo bianco.
Jonas rimane in silenzio per qualche secondo. «È una stronza, non serve sapere altro» dice sbrigativo. «Ma a te cosa frega di Céline?»
Se prima avevo dei dubbi sul fatto di essere giunta alla conclusione giusta, la nota d'incertezza nella sua voce li spazza via in un istante. Era così dannatamente ovvio... come ho potuto metterci tanto a capirlo, quando avevo tutti gli indizi che puntavano in quella direzione?
Mi sarebbe bastato unire i puntini: la leggenda dello chalet, la cicatrice, mio padre che le rinfacciava di aver abbandonato chi amava ed Elizabeth che era turbata, dopo essere stata a Clayton nella notte dell'incidente.
Tutto così dannatamente ovvio.
«Mostrami una sua foto» mormoro in tono assente.
«Cosa?» Con la coda dell'occhio, vedo Jonas che aggrotta la fronte. «Perché?»
Abbozzo un sorriso mesto nella sua direzione. «Tu assecondami. Poi prometto che me ne vado subito, croce sul cuore» replico, eseguendo il gesto con un dito.
«L'hai fatto sulla parte destra, bugiarda» bofonchia Jonas.
Senza protestare, si allontana e scompare nel corridoio a passo lento. Dopo un paio di minuti, ritorna in soggiorno e si ferma a fianco alla mia poltrona, porgendomi esitante un'immagine racchiusa in una cornice dorata, incrostata di polvere.
Non la prendo neanche, mi limito a osservarla. Ritrae una bellissima ragazza sulla ventina, vestita in un elegante tubino nero che abbraccia la snella silhouette del suo corpo chiaramente allenato. Un diadema tempestato di diamanti, che sembra riflettere la luce lunare della notte che le fa da sfondo, spicca nella sua fluente e ondulata chioma bruna che le ricade sulle spalle, trattenuta trattenuta ai lati della fronte da spille d'argento.
Il suo sorriso, così solare e spensierato, è più doloroso di una pugnalata.
«Allora? Che c'è?» mi incalza Jonas scocciato.
Quando apro la bocca, mi sembra quasi che sia qualcun altro a parlare. «Allora, io conosco Céline Dubois. Ci sono cresciuta, è stata mia zia per sette anni... ma si chiamava Moira Storm». Sollevo la testa e conficco i miei occhi ambrati nei suoi. «Ciao, cugino».
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