45. FRATELLI
P.O.V. KLAUS
È una mattina afosa, battuta dai raggi roventi che si insinuano tra le foglie e mi picchiano sulla testa, facendo ardere i miei capelli biondi. Per fortuna, il caldo è mitigato da una fresca brezza estiva che, portando con sé l'odore salmastro del fiume, mi accarezza il volto sudato.
Con un cielo terso, di un azzurro sgombro di nuvole, e l'aria impreziosita dai cinguettii degli uccelli e dai versi di gatti litigiosi, credevo che finalmente sarei potuto stare in pace, in compagnia dell'eroe dell'Odissea di cui mia madre era appassionata.
Invece, come sempre, i figli di Alizée urlano.
Con un sospiro, infilo l'indice tra le pagine giallastre per tenere il segno e dardeggio gli occhi verso il portone principale. Sotto la luce di un sole cocente, i battenti di bronzo a forma di serpente brillano di riflessi ramati. Non riesco ad abituarmi a tutta questa confusione: come possono essere così dannatamente rumorosi?
E, fra poco, sarà anche peggio, con un neonato che...
Il primo a uscire è il bambino più piccolo che tutti chiamano Kal. Ha una palla in mano e continua a strillare parole senza senso come "babboni" o roba del genere. Eileen, l'unica femmina, compare subito dietro di lui, urlandogli qualcosa di rimando, seguita dal gemello occhialuto che sembra essere la sua ombra. L'ultimo è Edric, che cammina con la solita calma, le mani nelle tasche dei pantaloncini e un'espressione annoiata sul viso.
Le fronde rigogliose della quercia dovrebbero essere sufficienti a farmi da scudo. In ogni caso, mi rannicchio meglio sul ramo fino ad appiattire la schiena contro la corteccia ruvida per nascondermi meglio.
Posso solo sperare che non mi vedano.
Rimango ad osservarli dall'alto, il libro posato sulle ginocchia, mentre si dividono a coppie nell'area giochi e, a turno, cercano di fare canestro. Dopo ogni tiro, finiscono per gridarsi insulti o prese in giro, tuttavia ho l'impressione che si stiano divertendo.
Non ho ancora capito bene il loro rapporto. Anche se litigano per qualsiasi stupidaggine, sembrano essere inseparabili. Durante il giorno, infatti, stanno sempre insieme, che sia per rubare dolci dalle cucine, guardare la TV o combinare qualche casino. Trovarne uno da solo è quasi impossibile.
Quando sono presente anch'io, inoltre, si affrettano a serrare i ranghi, ricordandomi dei lupi che si preparano ad attaccare il nemico che minaccia il loro branco. Un branco di cui non potrò mai fare parte, unito dal legame di quella parola che non mi comprenderà mai: fratelli.
«Ehm, scusate. Il bambino strano ci sta guardando» obietta Simon, puntando un dito nella mia direzione.
Con un sussulto, chino subito la testa e apro il libro di scatto, ma posso avvertire i loro sguardi premermi addosso. Sebbene cerchi di rimanere impassibile, non posso fare a meno di stringere nervosamente la copertina consunta. Fingo di leggere, scorrendo distrattamente le righe d'inchiostro sbiadito, mentre prego in silenzio che si limitino ad ignorarmi. In fondo, non ho fatto nulla di male, non li ho disturbati, quindi non hanno motivo di prendersela con me... credo.
«Secondo voi è umano?» Riconosco la vocetta acuta di Kal. «Si arrampica meglio di una scimmia».
«Che domanda stupida». Il timbro piatto e indifferente mi suggerisce che si tratta di Edric.
«Tu sei stupido».
«E tu metti i trucchi delle femmine».
«Non è vero!» Intravedo Kal, facile da distinguere per la sua tuta da Spider-Man, che assume un'espressione imbronciata. «Sei cattivo!»
«Credete che dovremmo... non so, dirgli qualcosa?» interviene la sorella in tono indeciso.
A quelle parole, un tremito mi percorre la schiena e lo stomaco mi si contrae per la paura.
"No, per favore. Non vi darò fastidio, non farò niente, lo prometto" ripeto tra me, assalito da un senso di disperazione.
«Io non lo voglio con noi». Edric si scosta una ciocca corvina dalla fronte imperlata di sudore. «La mamma dice di stargli lontano».
La risata improvvisa di Kal mi fa trasalire, malgrado sia pregna di derisorio sarcasmo. «Ah ah! Ed fa tutto quello che dice la mamma! Questo non è da veri maschi!»
«Neanch'io lo voglio». Simon si tira su gli occhiali storti sul naso. «È tutto pelle e ossa, fa paura. E poi la sua cicatrice è inquietante».
Inquietante? Sono inquietante?
Mi porto una mano sulla faccia e sfioro la sottile linea che mi solca la pelle, spezzandomi il sopracciglio destro.
Con un brivido gelido, sento di nuovo l'uomo cattivo che mi mormora all'orecchio, investendomi con il suo alito puzzolente di birra e fumo: "Sei proprio un bel bambino, sai? A parte per questa orrenda cicatrice".
Forse, è davvero brutta...
«Per me è fighissima! Sembra Harry Potter!» strilla Kal emozionato. Poi si volta verso di me: «Ehi, come te la sei fatta?»
Lo ignoro e, senza smettere di seguirli con la coda dell'occhio, inizio a stropicciare il bordo della pagina in preda all'ansia.
Allora Kal si china e mi lancia un sasso, ma è troppo lontano e atterra sull'erba alle radici della quercia. Sollevo il capo di scatto, appena in tempo per vederlo prenderne un altro da terra.
D'istinto, tento di farmi il più piccolo possibile. Circondo le gambe con le braccia e affondo il viso tra le ginocchia, il libro premuto contro la pancia. Avverto il cavallino di legno conficcarmisi nel fianco attraverso il tessuto della tasca.
Un attimo dopo, la piccola pietra mi colpisce alla spalla, provocandomi una fitta acuta. Provare di nuovo questo tipo di dolore -dolore fisico, tangibile- mi dà un senso di familiarità che accolgo quasi con sollievo.
«Smettila, Kal! Così gli puoi far male!» sbotta Eileen, indignata.
«Non è colpa mia se non risponde!»
Distrattamente, Edric fa un paio di rimbalzi con il pallone e lo lascia andare con un movimento fluido. La precisione con cui riesce a centrare il canestro è tale che nemmeno sfiora il cerchio metallico. Guarda Kal e sfodera un ghigno compiaciuto, ottenendo in cambio una linguaccia.
«Ciao».
Colto alla sprovvista, spicco un saltello e devo aggrapparmi a un grosso ramo per non scivolare. Sono a circa tre metri d'altezza, quindi se cadessi rischierei di rompermi qualcosa. E preferiresco evitarlo, dato che mi sono appena liberato dei lividi che mi aveva fatto l'uomo cattivo... quel pomeriggio.
È stato strano vederli svanire a poco a poco dal mio corpo, come se con essi stessero scomparendo i rimasugli della mia vecchia vita, insieme al ricordo di quel luogo che chiamavo casa.
Avrebbe dovuto rendermi felice, forse, invece il pensiero che adesso non appartengo più a niente, a nessuno, è terrificante.
Ferma sotto di me, Eileen si protegge gli occhi dagli artigli dorati che lacerano l'ombra della quercia. La sua chioma ramata brucia alla luce del giorno come una cascata di ricci infuocati. «Mi dispiace per i miei fratelli. Sono dei gran fifoni». Mi dedica un sorriso allegro. «Cosa leggi?»
La fisso intensamente, senza trovare il coraggio di proferire parola. Anche se ha soltanto dieci anni, è piuttosto alta e, con un grazioso vestito color rosa cipria a motivi floreali, è anche molto carina. Fin da subito, mi è sembrata la versione in miniatura di Alizée, leader indiscussa del branco grazie al suo carattere spavaldo e autoritario. Solo che è meno spaventosa della madre, e non ha un pancione enorme.
«Se vuoi, noi abbiamo una biblioteca gigantesca» insiste, questa volta tradendo un pizzico di imbarazzo. «Se, ehm, ti piace leggere».
Sbatto le palpebre, rafforzando la presa sul vecchissimo volume che stringo al petto. Questo e la mia statuetta sono le uniche cose che ho preso, prima che l'uomo buono mi portasse via.
Una parte di me vorrebbe spiegarle che è speciale, perché era della mamma, ma la paura mi inaridisce la gola, impedendomi di produrre qualsiasi suono.
Eileen scosta la mano dalla fronte e increspa la sopracciglia, confusa. «Perché sei sempre così spaventato?»
Per un secondo, i nostri occhi si incrociano e rimango disorientato quando mi accorgo che i suoi enormi smeraldi sembrano animati da una sincera preoccupazione. C'è qualcosa di comprensivo, di dolce nella sua espressione che mi infonde fiducia. Dischiudo appena le labbra, esito ancora ed infine apro la bocca...
«Forza, Leen! Vieni!» la richiama il suo gemello, seduto sul cavallo a dondolo.
Edric lancia di nuovo la palla nel canestro. «Stai perdendo tempo, sorella, quello non parla. L'altro giorno gli ho fatto lo sgambetto e non ha detto niente. Se l'è filata e basta».
«Se la fa sotto appena lo tocchi» rincara Kal divertito, facendo ridacchiare Simon.
Eileen mi scocca un'occhiata dubbiosa, poi scrolla le spalle e ritorna a passo spedito verso i fratelli. «Io ci ho provato almeno» borbotta.
Chino il capo ed esalo un respiro rassegnato. È meglio così. Non ho mai giocato con altri bambini, so che non mi vogliono e so che non ne sono capace. L'uomo cattivo mi ripeteva sempre che dovevo fare il bravo e obbedire, perché mi puniva solo quando mi comportavo male. Quindi, se sto da solo e in disparte, magari smetteranno di tormentarmi e farmi i dispetti.
«Non resterà a guardarci tutto il tempo, vero?» La voce di Simon attira la mia attenzione.
«No». Edric si rivolge a me. «Qui ci stiamo noi, vattene! Oppure ti lanciamo altri sassi!»
È ovvio che non mi vogliano. Sono solo un intruso, nient'altro.
Io non sono la loro famiglia, come loro non sono la mia. E questo non cambierà mai.
Decido di non mettere alla prova la sua minaccia. Usando le solcature del tronco come appigli, scendo dalla quercia e balzo sull'erba con il libro incastrato sotto l'ascella.
Tra gli schiamazzi di Kal e gli altri, mi incammino verso l'ingresso principale. Appena giungo nell'atrio, alcune delle cameriere di passaggio o intente a pulire il soggiorno prendono a confabulare, indicandomi. Anche badandoci poco, non posso che cogliere dei frammenti della loro conversazione.
«Sì sì, è il figlio di Michael Waylatt! Gli somiglia anche, ti dico».
«Ma è vero che lo zio è morto?»
«Macché, non lo vuole manco il diavolo! Gli hanno portato via il nipote perché abusava di lui, lo sanno tutti!»
«Io ho sentito che non aveva più un centesimo e la signora Alizée se n'è fatta carico».
«Per favore! Non vedi che scricciolo è, quella povera creatura? Non...»
Il brusio si spegne di colpo appena la governante appare da dietro l'angolo del corridoio. Bassa e rotondetta, fin dal mio arrivo Carol non fa che rifilarmi leccornie e chiedermi se sto bene. È l'unica che mi piace almeno un po' in questo posto orribile.
«Ehi, tesoro» mi dice con un sorriso premuroso, chinandosi davanti a me. Sembra lottare contro l'impulso di darmi una carezza. «Ti serve qualcosa? Vuoi fare merenda? Non mangi mai niente».
"Voglio andare via" implora una vocina nella mia mente. "Ti prego, portami via".
Invece, mi limito a scuotere la testa. Non capirebbe. Nessuno capisce, neanche l'uomo buono che mi ha salvato. Altrimenti mi avrebbe tenuto con sé.
Carol si mordicchia il labbro, dubbiosa, e si raddrizza. «Va bene ma, se hai bisogno, vieni da me». Attende il mio cenno d'assenso, mi consegna un cioccolatino incartato e poi si allontana con riluttanza.
Mi avvicino a una grande specchiera antica a cornice d'oro, sotto un arazzo di velluto, e il mio riflesso mi restituisce lo sguardo.
Delle braccia sottili spuntano dalla maglietta troppo grande, che ricade floscia sul mio corpo così scheletrico da mettere in evidenza la spina dorsale e contarvi le costole. Sulle gambe magre, simili a fuscelli, spiccano le ginocchia nodose e sporgenti.
Pur avendo quasi undici anni, nel complesso non ne dimostro neanche otto.
Odio tutto di quel riflesso.
I secondi passano e l'immagine del mio volto scavato continua a fissarmi con occhi spenti, vacui. Gli aloni grigiastri sono sempre più marcati sulla pelle pallida, dovuti alla mancanza di sonno. Da quel giorno non riesco a dormire, e neanche voglio farlo, forse perché ho il terrore che lui possa tornare nei miei incubi. Di sicuro, è molto arrabbiato con me e non voglio che mi faccia male di nuovo.
Con l'indice, seguo i contorni netti della cicatrice. Se solo potessi coprirla, potrei essere meno... inquietante. Ma non mi accetterebbero, comunque.
Io sono diverso, e loro lo sanno. Sono sbagliato, debole. Cattivo.
E nessuno vuole stare con un bambino cattivo.
«Io e te non ci siamo ancora presentati».
Sobbalzo e il libro cade sul pavimento con un tonfo, facendo saltare un pezzo della fragile copertina.
Un ragazzino si staglia sulla soglia del salotto. Deve avere circa la mia età, o dodici anni al massimo, eppure c'è una strana serietà nel suo sguardo che lo fa apparire più adulto. A trarmi in inganno è anche la sua statura slanciata e un fisico grosso tre volte me, ma soprattutto il suo bizzarro abbigliamento da vecchio. Indossa una leggera camicia di lino a maniche corte, un papillon al collo e pantaloni scuri con le bretelle.
«Ero in viaggio con papà. Sono appena arrivato» mi spiega, raggiungendomi a passo sicuro.
Intimorito, comincio ad arretrare ma mi ritrovo con la schiena premuta alla parete, accanto alla specchiera. Sentendomi in trappola, abbasso lo sguardo a terra e serro le dita attorno al mio cavallino nella tasca, tremando leggermente.
Si ferma a poca distanza da me. «Io sono William, William Hallander. Però tutti mi chiamano Liam». Mi tende un braccio. «È un vero piacere conoscerti».
Aggrotto le sopracciglia e rimango imbambolato a guardare la sua mano, sospesa a mezz'aria tra di noi.
William abbozza un mezzo sorriso. «Di solito, questa è la parte in cui tu la stringi».
Dopo quasi un minuto, rendendosi conto che non ho intenzione di prenderla, la lascia ricadere lungo il fianco. «Non importa. Vuoi venire a giocare con noi?» mi propone. E poi aggiunge, come per spingermi ad accettare: «Forza, in sei è più facile fare le squadre!»
Ripenso ai figli di Alizée in giardino che ridono e strillano, divertendosi tutti insieme, e vengo assalito da un moto d'invidia. Se solo mi volessero... tuttavia anche solo l'ipotesi di unirmi a loro mi suscita un fremito d'orrore. Mi affretto a fare di no con il capo.
L'espressione pacata di William si incrina. Se non fosse assurdo, potrei credere che sia deluso. «Beh, se cambi idea, vieni pure». Fa una breve pausa, forse in attesa di una mia risposta. Infine, scrolla le spalle e ammicca: «Sei di poche parole, eh? Meglio! Mio fratello Kaleb non sta mai zitto».
Una lieve risatina mi sale dalla gola e, tentando di soffocarla, ne scaturisce un suono rauco che mi fa sentire ridicolo. William se ne accorge e le sue labbra si increspano in un piccolo sorriso. Non canzonatorio, anzi lo definirei... delicato.
All'improvviso, riduce la distanza tra di noi. La morsa della paura ritorna; mi rannicchio ancora di più contro il muro e, con gli occhi chiusi, sollevo un braccio per proteggermi. Ma non arriva nessun colpo.
Esitante, sbircio di sottecchi e scopro che William mi sta porgendo il mio libro. «Odissea, bella lettura». Ha ancora lo stesso sorriso educato di prima. «"Anche i dolori sono, dopo lungo tempo, una gioia, per chi ricorda tutto ciò che ha passato e sopportato"».
So che è una citazione, ma le sue parole -o meglio, quelle di Omero- e il modo in cui le pronuncia mi colpisce nel profondo, come se avessero un significato più intimo. Quasi fossero rivolte a me.
Vorrei chiedergli quanto tempo serve a chi, invece, vuole dimenticare.
Cautamente, prendo il libro e lo stringo forte al petto, i suoi occhi conficcati nei miei. Hanno un colore strano, noto: un azzurro impolverato di verde, limpido e sereno. E, in qualche modo, sembrano dirmi che sono al sicuro con lui. È una sensazione curiosa, estranea... ma piacevole.
«Ti fiderai di me, Klaus Waylatt» sussurra William con fermezza. «Prima o poi. E io sono molto paziente».
Si volta, intreccia le dita dietro la schiena e si indirizza con andatura tranquilla verso il portone. Si ferma sull'uscio e mi scocca uno sguardo affettuoso. «Benvenuto a casa, fratello».
Mi sveglio con un dolore martellante alla testa. Appena deglutisco, un bruciore intenso esplode nella mia gola. Brividi di freddo mi scuotono il corpo che, madido di sudore, è avviluppato nell'intrico di coperte e lenzuola. Devo essermi agitato molto in quel poco tempo che ho dormito; non saprei se per gli incubi o per la febbre.
Come sempre, il mio primo pensiero va a Keeley, accompagnato da una stretta al cuore.
Il ricordo di lei, accasciata sul pavimento, che piangeva e si tirava i capelli, ansimando alla disperata ricerca d'aria. Sembrava che il dolore la stesse soffocando.
Quando siamo tornati a casa, era distrutta, ma non dalla stanchezza. Si è rifugiata nella sua camera, senza rivolgermi neanche un saluto, e ha chiuso a chiave la porta.
Sono stato tentato di intrufolarmi e passare la notte seduto accanto al suo letto a contemplarla, sperando che la mia presenza bastasse a darle tregua almeno nel sonno.
Ma poi mi sono reso conto che, probabilmente, sono l'ultimo che vuole vicino adesso. Ha tutte le ragioni per odiarmi, considerato che è cresciuta senza suo padre per colpa mia.
Allora avevo persino meditato di trascinare a forza un Simon mezzo addormentato per consolarla -per quanto ogni mio organo si contorcesse a quell'ipotesi. Alla fine, invece, sono rimasto sdraiato sul muretto del terrazzo per un paio d'ore, fissando la sua finestra in attesa di vederla spuntare da un momento all'altro.
Ovviamente, non è successo.
Apro le palpebre e mi passo una mano sul viso fradicio, accecato dal sole che invade la stanza con un mantello dorato. Sono ancora esausto e le parole del padre di Keeley, dell'uomo buono, già hanno ripreso a tormentarmi.
Michael è morto, mi ripeto. Ancora, e ancora. Eppure non posso fare a meno di rispondermi che, in teoria, avrebbe dovuto esserlo anche Maxwell Storm.
«Buongiorno, fratellino».
Emetto un sospiro pesante. Ho una nausea terribile e lo stomaco in subbuglio. «Tu non sei il mio risveglio ideale» borbotto con la voce impastata e roca.
Appoggiato al palo del baldacchino in una postura elegante, Liam mi osserva in silenzio con le braccia incrociate sul petto. Oggi, sfoggia un completo double face: grigio chiaro all'esterno, lascia balenare all'interno un bianco opaco. Cravatta drittissima in tinta, fazzoletto rosso nel taschino e capelli di un castano lucido in perfetto ordine. Insomma, un vecchietto di diciannove anni.
«Immagino di no». Il suo solito sorriso educato affiora. «Ma temo che il tuo risveglio ideale sia andato a scuola. Luogo che, tra parentesi, tu eviti come la peste».
«Non rompere». Mi volto dall'altra parte e, ribaltato sulla pancia, abbraccio il cuscino. «Alizée mi ha dato il permesso di non andarci. Sto male».
«Stavi abbastanza bene ieri notte, per la tua scappatella con Keeley» ribatte con sottile sarcasmo.
«Sono troppo debole per una delle tue paternali, fratello. Torna più tardi».
Per tutta risposta, Liam fa il giro del letto e si accomoda sul bordo, seguito da una pungente fragranza di mora e ribes. Riconosco subito il The Moon, uno dei suoi profumi preferiti.
Inaspettatamente, mi posa il dorso della mano fredda sulla fronte per controllare la temperatura, neanche fossi un bambino.
Rimango immobile per un attimo, colto alla sprovvista, poi la scaccio via con un gesto brusco. «Smettila, mammina» farfuglio seccato.
«Hai fatto un incubo?»
Esito per un attimo. La verità è che ne ho fatti diversi, perlopiù legati a Vincent o a Elizabeth come mi succede di continuo da questa estate. Ma, se si riferisce all'ultimo sogno, quello non lo era. Non troppo brutto, almeno.
«Sì, terrificante». Mi districo dalle lenzuola e mi tiro su, puntellando i gomiti alla testiera. «Tu portavi delle bretelle orribili».
Un lampo di rabbia guizza nello sguardo di Liam, posato sui segni tondi di vecchie bruciature che mi marchiano il torace. «Klaus, dobbiamo discutere di una... questione di famiglia» esordisce con fermezza. «Ma ciò che ti dirò dovrà rimanere tra noi. È meglio che i nostri fratelli e nostra sorella non lo sappiano, ancora. Non voglio farli preoccupare».
Inarco un sopracciglio. «Ti sei alzato con una vena complottistica, stamattina?» replico scherzoso.
«Ci vediamo nella sala delle colazioni. Preferibilmente, porta il lato serio di te».
Abbozzo un sorrisetto. «Nessun problema. Le ragazze mi adorano proprio per il mio savoir-faire».
«Che eresia!»
Liam rotea gli occhi, si solleva e attraversa la camera a rapide falcate. «Ah, fratellino» aggiunge, afferrando la maniglia. «Ti sarei grato se mantenessi il segreto anche con la tua partner nel crimine. Anzi, soprattutto con lei».
Mi acciglio, ignorando le frecciatine non molto velate alle mie uscite con Keeley. «Basta fare l'enigmista. Che sta succedendo?»
«Non è niente di certo, ma i nostri genitori sono convinti che...» Fa una breve pausa, assumendo un'aria pensierosa. Poi, con grande nonchalance, termina la frase. «Beh, che qualcuno voglia uccidere gli Hallander, più o meno».
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top