44. L'UOMO BUONO PT.2
Beh, niente.
Non so cosa mi aspettassi, in realtà, ma di certo non un comunissimo salotto in perfetto ordine. Un vaso di fiori finti sul tavolino basso, un divano di pelle e un tappeto a motivi geometrici sul bianco parquet in rovere. Un televisore LCD è tenuto con un supporto da muro, posto accanto alla libreria alta fino al soffitto. L'angolo cottura è elegante e ben fornito con un bancone lucido e sgabelli imbottiti.
Subito, mi accorgo che non c'è nessun oggetto personale. Niente foto o poster, nessun libro sugli scaffali, neanche un banale post-it sul frigo. Nulla.
È come se l'appartamento fosse disabitato da tempo, in attesa del suo prossimo proprietario.
«Gladys» la chiamo con fare incerto. Mi faccio coraggio e alzo un po' la voce. «Tranquilla, non siamo ladri, lo giuro... anche se su uno dei due inizio ad avere seri dubbi».
Klaus mi scocca un'occhiataccia e, con i suoi soliti movimenti felpati, si incammina in direzione del disimpegno.
Schiocco le dita per attirare la sua attenzione. O meglio, ci provo, ma non ho ancora imparato a farlo. «Se sei in pericolo, grida, mi raccomando».
«Così vieni a salvarmi?»
«No, così posso darmela a gambe».
Lui ridacchia e scompare nella camera da letto. Io, invece, passo in rassegna i cassetti del salotto e i mobili della cucina, solo per scoprire che sono vuoti, tutti. Provo a sbirciare perfino in bagno, ma la cosa più interessante che trovo è un kit standard del pronto soccorso. Sono abbastanza sicura che ci sia ovunque.
Rassegnata, metto via il coltellino e faccio per raggiungere Klaus, ma poi noto un particolare che mi era sfuggito.
Con le sopracciglia aggrottate, mi avvicino al tavolino e ne esamino attentamente uno degli angoli. È scheggiato e incrostato di una patina rossa e secca. Sembra quasi che qualcosa ci abbia sbattuto... qualcosa di pesante, e che sanguina.
“Come una persona” penso, attraversata da un brivido gelido.
«Keeley, vieni qui!» La voce di Klaus è percorsa da un fremito.
In un attimo, il terrore che possa essersi fatto male, che possa essergli successa qualsiasi cosa, si impadronisce di me. Con il cuore in gola, mi sollevo di scatto e mi precipito da lui così rapidamente che barcollo quando mi arresto sulla soglia della porta.
La camera da letto è abbandonata al pari del resto della casa: una scrivania totalmente sgombra, una poltrona reclinabile, un tapis roulant, pareti spoglie e armadi con ante scorrevoli semiaperte a svelare l'assenza di vestiti.
Klaus sta scendendo dal soppalco con il letto. Tra le ciocche dorate ha alcuni granelli di polvere che prima non c'erano. «Tutto okay?» mi domanda perplesso, cogliendo la mia espressione preoccupata.
Lo squadro dalla testa ai piedi. Solo quando mi sono accertata che è incolume, annuisco con cauta lentezza. In un secondo momento, rilascio il fiato che non mi ero resa conto di trattenere.
«In giro, non c'è niente. Ma ho trovato questo, nascosto sotto il materasso» dice Klaus, mostrandomi una piccola scatola nera.
Ci metto un paio di secondi a capire che è un telefono usa e getta, grosso e spesso, con i tasti e un quadrato appannato che funge da schermo.
Arcuo un sopracciglio. «Sembra un cimelio della preistoria».
«Non riesci proprio a essere seria, vero?»
«Solo l'ottavo giorno della settimana».
Klaus mi ignora. «Ho controllato il registro delle chiamate perse. Ne ha ricevute parecchie da un numero in particolare, a partire dal primo novembre, il giorno che vi siete viste al Lucky House».
«Tiro a indovinare. È lo stesso che ci ha mandato il messaggio oggi pomeriggio per invitarci gentilmente a tornare alla villa». Al suo cenno d'assenso, emetto un sospiro. «Un altro buco nell'acqua, fantastico. Ormai potremmo andare in Europa in bicicletta e...»
«Keeley!» mi interrompe Klaus con impazienza. «Questo è il telefono di Gladys, la donna buona. E qualcuno la sta cercando, lo stesso che dice di volerci tenere al sicuro».
«L'uomo buono». Mi do una pacca sulla fronte. «Hai ragione! È il telefono di Gladys!»
«È quello che ho appena...»
«Ma certo! È geniale!» affermo, in preda all'euforia. «Non saprà che sono io!»
Uno sguardo confuso affiora sul suo viso. «Che?»
In fretta e furia, gli restituisco il suo telefono e gli strappo di mano quello usa e getta. Dopodiché, mi volto e corro in soggiorno. Anche se non sento i suoi passi, non devo controllare per sapere che Klaus mi sta venendo dietro. Mi getto sul divano, apro la rubrica e clicco sull'unico contatto presente.
Klaus si accosta al bancone, guardandomi come se fossi pazza. «Ci ho già provato un sacco di volte oggi. Non mi ha mai risposto».
«A te no» replico ammiccando, facendo partire la chiamata. «Ma a Gladys risponderà».
«Tu non sei... Ah!»
Il silenzio cala tra di noi, intervallato dagli squilli del telefono che lo rendono ancora più teso.
Uno.
E se non fosse l'uomo buono? Se stessi per parlare con uno dei cattivi? Anche se non sono certa di avere ben chiaro chi siano, i cattivi...
Due.
E se invece fosse l'uomo buono? Cosa dovrei dirgli? Già immagino la nostra conversazione.
“Ciao! Sono la ragazza che hai seguito come uno stalker dal tuo pick-up, molto piacere. Con me c'è il ragazzo che hai salvato da bambino, te lo passo che vuole ringraziarti. Ah, per inciso, fai schifo a pedinare la gente”.
Sì, mi sembra ottimo.
Tre.
E se l'uomo buono fosse davvero mio padre? Come potrei parlargli, dopo sette anni che se n'è andato?
No.
Non posso.
Non sono pronta.
«Magari dorme». Ogni parola è un vetro acuminato che mi graffia la gola improvvisamente arida.
Appollaiato sullo sgabello, Klaus non sembra udirmi, come se si fosse imbambolato ad ascoltare gli squilli che si susseguono. Ha uno sguardo perso, vulnerabile, quasi spaventato, che mi ricorda quello di un bambino che ha smarrito i genitori e li cerca tra la folla.
Forse è lo stesso sguardo che aveva quando l'uomo buono lo ha liberato dalle grinfie del mostro che l'ha cresciuto.
«Pronto?»
Una voce metallica. Nient'altro che una fredda voce metallica. Eppure traspare della stanchezza che mi fa intuire che devo averlo svegliato sul serio.
Apro la bocca e, di colpo, mi accorgo che il mio cervello si è svuotato. Lo sterminato repertorio di battute pungenti si è esaurito, anche la mia capacità di elaborare pensieri sensati è evaporata.
Io, Keeley Storm, per la prima volta sono impotente.
«Chi sei?» insiste la voce con diffidenza. «So che non sei Gladys».
Cerco di frugare nel mio dizionario mentale, ma tutti i termini che ho appreso negli anni sono svaniti. È una sensazione bizzarra, quella di aver scordato la propria lingua in un unico attimo.
«Per l'ultima volta, chi sei?» È ovvio che comincia a innervosirsi.
Sarebbe stata la conversazione più breve della storia, ne sono sicura. Ma poi sento delle dita calde avvolgere le mie, posate sul ginocchio. Avverto i calli ruvidi dei polpastrelli, il bacio freddo dell'anello e i suoi occhi grigi su di me. La sua presenza mi investe come un'ondata e mi infonde nuova forza.
Nonostante ciò, la sola frase che riesco a tirar fuori è di una stupidità sorprendente, perfino per i miei standard. «Mi stavo facendo la stessa domanda... prendiamo un tè insieme e ne discutiamo?»
«Un tè?» Seguono alcuni secondi di nulla, nemmeno un rumore di sottofondo. «Preferisco la cioccolata calda, in verità».
La sua risposta mi restituisce un po' della mia disinvoltura, sebbene ancora impacciata. «Anch'io. Se vuoi, conosco un posto dove ne fanno una buonissima».
Una risata robotica mi rimbomba nell'orecchio, facendomi contorcere lo stomaco. «Vorrei, ma la mia agenda è piena».
Klaus si sporge verso di me e mormora: «Che stai facendo?»
Gli mimo con le labbra un “non lo so” e torno a rivolgermi all'uomo al telefono.
Inspiro profondamente, spronandomi a riprendere le redini della situazione. «Ad Halloween, hai mandato Gladys da me. Oggi, mi hai tallonata per tutta Clayton. Credo che tu sappia bene chi sono».
Stringo la mano di Klaus, così forte che la pietra d'onice del suo anello mi si conficca nella pelle. Anche se devo fargli male, lui non si lamenta, mi lascia fare, anzi ricambia la mia stretta. «Ti sei impegnato molto per convincermi che fossi morto... papà».
Silenzio.
Un silenzio assoluto, assordante, il più straziante della mia vita. Poi un colpo secco, probabilmente di un pugno o un calcio. E infine ritorna il silenzio, opprimente quanto il primo.
Fin da piccola, riuscivo a percepire i sentimenti di mio padre. Le sue emozioni si riflettevano nelle mie, il suo dolore mi penetrava nella carne affilato quanto una lama.
Siamo stati lontani per tanto tempo, ma questo non è cambiato. Neanche la distanza può recidere il legame che ci unisce.
La guerra che sta infuriando dentro di lui è anche la mia. L'impulso di fuggire da ciò che ci sta facendo soffrire, l'istinto di abbandonare chi amiamo per paura di ferirlo. E, insieme, il desiderio di tornare a essere quello che eravamo.
Padre e figlia. Da soli, in un mondo che non ci ha mai compreso.
«Non riattaccare» sussurro, reprimendo un gemito. «So che fa male, lo fa anche a me, ma non riattaccare. Ti prego».
Il suo respiro diventa affannato fino a tramutarsi in ansimi pesanti, spezzati, e posso immaginare il battito del suo cuore che rincorre il mio.
Mi alzo e, con gambe tremanti, mi avvicino alla finestra, mi affretto a sollevare la serranda e scosto la tenda. Ed eccolo subito, argenteo e ululante in un oceano stellato, il muso rivolto a una falce di luna sbiadita tra le nubi.
Mi lascio sfuggire un singhiozzo. «Sto guardando il Lupo Bianco».
Un movimento appena percettibile dall'altra parte della linea. Un lieve clangore di ferro. E altri fragili respiri pieni di disperazione.
“Parlami” lo supplico tra me, le lacrime brucianti agli occhi. “Parlami e...”.
«Anch'io, principessa».
Per un secondo, tutto si blocca, si congela.
Negli anni, ho fantasticato spesso su come sarebbe stata la nostra riunione. Nella maggior parte degli scenari, gli correvo incontro e, accolta nella casa del suo abbraccio, ogni cosa perdeva significato. Il rancore per essersene andato si scioglieva nella gioia che fosse tornato. Sognavo di dirgli che gli volevo bene, di piangere sulla sua spalla e di costringerlo a giurare che non mi avrebbe mai più lasciata.
Dovrei essere felice che sia vivo, furiosa per le sue bugie o ansiosa di conoscere la verità, invece non provo niente. Non sono neanche sicura che sia reale. Tutto ciò che mi esce è: «Klaus ti vuole».
«Key...»
Pronuncia il mio nome -quel nomignolo speciale riservato a lui, a lui soltanto- come una preghiera. Come quando mi chiedeva pietà nelle nostre battaglie con i cuscini, ma con la differenza che questa volta non è un gioco.
A quel punto, la mia rabbia esplode. «NO!» grido a squarciagola. «NON VOGLIO PARLARTI! NON VOGLIO!»
Mi giro e, con le ultime briciole di energia che mi rimangono, scaglio il telefono sul divano, quasi addosso a Klaus. Crollo a terra e mi raggomitolo con le ginocchia al petto, la schiena schiacciata al termo. Mi infilo le mani nei capelli, lottando per riempire i polmoni d'ossigeno. Respirare non è mai stato tanto difficile.
Dovrei sentirmi meglio, non peggio. Ora so che mio padre non mi ha abbandonata perché era stanco delle mie stranezze o voleva liberarsi della figlia di troppo. Ha aiutato un bambino, lo ha salvato da una vita di violenze e abusi.
Ha salvato Klaus. Il mio Klaus.
Eppure è tutto così assurdo, così sbagliato...
Rovescio il capo all'indietro e, togliendomi le ciocche incollate alla faccia bagnata, vedo Klaus che posa il telefono sul tavolino. All'inizio penso che abbia chiuso la chiamata, ma poi comincia a parlare e deduco che ha messo il vivavoce.
«Ti... ti ricordi di me?» sibila in tono flebile.
Mio padre esita un istante. «Non dovevi cercarmi, piccolino. Se non ti ho detto il mio nome è perché non volevo che mi trovassi».
Il volto di Klaus diventa ancora più pallido. È seduto in una postura rigida, tesa, con i tremiti che gli scuotono il corpo. «Volevo... tu mi hai dato una seconda occasione e io non ho... non ti ho...» Si ammutolisce.
“Ringraziato”. È questa la parola giusta. È questo il motivo per cui aveva bisogno di ritrovarlo.
Ora, però, mi sorge il dubbio che possa esserci altro. Qualcosa di più profondo, più viscerale.
«Sì, ti ho dato una seconda occasione. Quindi smetti di sprecarla». La voce di mio padre è intrisa di una dolcezza così famigliare da far parte di me, come quel suo profumo di borotalco o il suo sorriso. Però è ancora metallica, e ancora non ne ricordo il suono. «Dovete smettere di indagare su questa storia, è pericoloso. Restate alla villa, sotto la protezione di Alizée. Essere degli Hallander è ciò che vi tiene al sicuro, tutti e due».
«Ho troppe domande e solo tu puoi darmi le risposte». Klaus china la testa, fissando il parquet con occhi lucidi. «Ti prego, io devo conoscerti. Ti prego».
«Mi conoscerai, un giorno. Non ora e neanche domani, ma succederà» replica l'uomo buono. «E sappi che non mi devi niente. Non sei in debito con me e non lo sarai mai. Il mio non è stato un gesto eroico, Klaus. Vorrei dirti che ti ho salvato solo perché era giusto farlo, ma non è così: avevo delle... ragioni. L'ho fatto per qualcuno, molto più che per te».
Fa una breve pausa, come per permettere a Klaus di metabolizzare le sue parole. «Ma se proprio vuoi fare qualcosa per me, allora... veglia su mia figlia. Proteggila, anche se questo significasse doverle stare lontano. Proteggila perché lei è tutta la mia vita. È il mio cuore, la mia anima. È il mio tutto».
Le nostre iridi si incatenano: le sue, argentate come la luna, e le mie, dorate come il sole. Lui, la notte. Io, il giorno. Due anime opposte ma unite nel passato, pedine dello stesso destino che gioca una partita a scacchi iniziata molto tempo fa. E il destino non perde mai: manovra i fili con la destrezza di un marionettista, sacrifica i pezzi di cui può fare a meno, anticipa le mosse dell'avversario.
Alla fine, però, il suo scacco matto è inevitabile.
«Lo prometto» dice Klaus con fermezza, continuando a fissarmi. «La proteggerò, sempre e comunque».
«Dille che tutto ciò che ho fatto e che faccio è per questo. Per proteggerla. Perché posso sopportare che lei mi odi, ma non potrei mai perdonarmi se le facessero del male. Diglielo, per favore». Mio padre esala un sospiro. Sembra esausto, stremato. «Non chiamate di nuovo, non risponderò».
«No, aspetta!» Klaus si getta verso il tavolino, in ginocchio sul pavimento, e afferra il telefono, quasi potesse trattenere mio padre e impedirgli di riattaccare. «Hai detto che ti mandava qualcuno! Quel giorno, hai detto che ti mandava una persona che teneva a me! Ho pensato che non fosse vero, che nessuno mi volesse abbastanza bene da farlo, ma non è così, giusto?» balbetta con frenesia. «Chi era? Di chi parlavi?»
È questo, allora.
Questo è il tormento che si porta dentro da sette anni.
«Fidati, stai meglio senza saperlo».
«Ti prego!» Klaus ha un'espressione implorante sul viso. «Non riesco ad andare avanti, mi servono risposte! Per favore, farò qualsiasi cosa, ma ne ho...»
«Tuo padre. Mi ha mandato tuo padre».
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