44. L'UOMO BUONO PT.1

Se dovessi riassumere la mia storia con una parola, sceglierei: autobus.

La notte è animata dai rombi delle auto che sfrecciano sull'asfalto a tutta velocità, padrone di strade pressoché deserte. Ombre cupe affogano nel fulgore dei lampioni e le stelle brillano nel cielo come piccoli diamanti gettati su uno sfondo d'inchiostro. Ogni tanto, sui marciapiedi fanno capolino gruppi di ragazzi ubriachi appena usciti dalle discoteche, coppiette che passeggiano lungo le rive del fiume o gli ultimi clienti che abbandonano bar e tavole calde ancora aperte.

Per fortuna, essendo l'una passata, sull'autobus siamo gli unici passeggeri. Io e Klaus.

Appena ho finito di riferirgli ciò che mi aveva raccontato Simon, avrebbe voluto precipitarsi a Dear Street a bordo della Corvette di Alaric, parcheggiata nel garage della villa.
Ma c'erano due problemi.

Primo, tutti si sarebbero accorti della nostra partenza ed Eileen ci avrebbe uccisi ancora prima di raggiungere la macchina. Da quando ha saputo dell'arrivo di Vincent in città, è diventata iperprotettiva nei confronti di Klaus.
Secondo... beh, il serbatoio era quasi vuoto.

Ci siamo messi d'accordo di attendere che gli altri andassero a dormire, per poi sgattaiolare fuori dalla porta sul retro, quando anche Carol e gran parte del personale non fosse più stato in circolazione.
Malgrado queste precauzioni, ho la sensazione che Alizée riuscirà magicamente a venire a sapere della nostra ennesima uscita illecita. Mi sono già rassegnata al fatto che moriremo dolorosamente.

«Quindi» esordisce Klaus, spezzando il silenzio. «Tra uno sbaciucchiamento e l'altro, il mio fratellino si è rivelato utile».

Stacco la fronte dal finestrino e gli scocco un'occhiataccia. «Potevamo anche venire domani mattina, sai?» obietto stizzita. «Ma no. Facciamolo di notte, altrimenti non è abbastanza inquietante».

Il bus svolta bruscamente a sinistra e Klaus si aggrappa a una delle maniglie che pendono dal tettuccio. Nonostante i posti liberi, è rimasto in piedi e continua a fare avanti e indietro, come se fosse incapace di stare fermo. «Ho aspettato sette anni. È abbastanza».

«Appunto. Direi che avresti potuto aspettare ancora un po'».

Klaus inclina la testa di lato con fare torvo, ma è chiaro che si trattiene a stento dal ridere. Deve trovare le proprie tendenze suicide molto divertenti. «Ti sembra il momento per citare Harry Potter?»

Emetto un fischio, facendo ciondolare le gambe dal sedile. «Che film?»

«Il quinto, ma non è questo il punto!» Scrolla le spalle, corrucciato. «Il punto è che non eri costretta a venire con me».

«Certo» borbotto sarcastica. «Ti lascio gironzolare da solo con Satana che ti cerca».

«Satana?»

Sfodero un ghigno compiaciuto. «È meglio di "uomo cattivo", lo so».

Klaus rotea gli occhi, esasperato. «Con te e il tuo stuzzicadenti a proteggermi, mi sento invincibile».

Riprende a camminare su e giù per la corsia centrale, le mani infilate nelle tasche della giacca di jeans. Dalla manica sinistra spunta la garza intorno al polso, macchiata da una striscia di sangue.

Approfitto della sua distrazione per fissarlo intensamente, confrontando il suo volto con quello del disegno fatto qualche ora fa.
Gli effetti della febbre sul suo aspetto sono ancora evidenti: le guance arrossate sulla pelle lattea, il biondo spento dei capelli arruffati, le occhiaie scure che fanno risaltare la cicatrice. Perfino la sua andatura è diversa, non agile e felina come al solito, ma goffa e incerta.
Eppure la mia attenzione è catturata dai piccoli dettagli che lo rendono perfetto. La curvatura della mascella, la punta arrotondata del naso, le labbra carnose -e morbide- con quello inferiore appena sporgente, le sopracciglia chiarissime...

Sì, non c'è paragone. È molto più bello che nel mio ritratto.

«Oggi, ti piace proprio guardarmi, eh?» sogghigna Klaus beffardo.

Non mi ero neanche accorta che si fosse girato. «Ma figurati!» Scaccio l'idea con un gesto secco.

"Ti guarderei in eterno, non solo oggi". Grazie al cielo, però, questo rimane tra i miei pensieri.

«Tralasciando le tue manie di protagonismo». Mi schiarisco la gola, pregando di non arrossire, ma il sorrisetto che si sta aprendo sulla sua faccia non mi lascia molta speranza a riguardo. «Dove hai preso la statuetta?»

La domanda sembra coglierlo alla sprovvista. «Che?»

«Il cavallino di legno! Quello che hai dato al piccoletto!» spiego in tono sbrigativo.

«Ma che cos'hai contro i nomi?»

«Rispondimi!»

Klaus appoggia la schiena al validatore di biglietti. «Prima dimmi perché lo vuoi sapere». Incrocia le braccia al petto. Alla luce rosata del bus, l'anello al suo dito si accende di bagliori cupi. «È il tuo turno di essere sincera con me».

Mi lascio sfuggire uno sbuffo frustrato. Non ho il coraggio di chiedere se è una velata allusione a Simon o meno. «Mio padre intagliava statuette simili a quella, okay? Per me e...» Esito, poi aggiungo in un sibilo: «E per mia madre».

Di colpo, qualcosa cambia nella sua espressione; si addolcisce. «Non può averla fatta...»

«Riconoscerei i suoi lavori ovunque. Quella era sua» ribatto, scattando in piedi.

Klaus sbatte le palpebre. A parte un velo di perplessità, non lascia trapelare nessuna emozione. «Era di mia zia, la moglie di Vincent». C'è una nota di fragile affetto nella sua voce.

Ricordo che me ne aveva parlato, durante la nostra colazione nella stazione di servizio, a Clayton. Quella donna deve avergli voluto bene, se la chiamava addirittura mamma. Forse, anche per questo non riesce a fare altrettanto con Alizée.
Quel posto speciale è già occupato nel suo cuore, da qualcuno che probabilmente lo merita molto di più.

«E... com'era?»

Con un movimento quasi meccanico, Klaus si sfiora la cicatrice, guardando oltre me. «Siamo arrivati» commenta bruscamente, accennando al finestrino.

La fermata è la stessa dell'ultima volta che sono stata a Dear Street, adiacente a un negozietto cinese. Andando dritto, si arriva al vicolo in cui si trova il loft di Alan.
Invece, noi svoltiamo a destra di una gelateria ancora illuminata, in un viale alberato che profuma di gardenia. Il vivido chiarore dei lampioni getta un pallore etereo alla neve che copre il marciapiede. È rimasto soltanto uno strato sottile, alto appena fino alle caviglie, ma così ghiacciato da essere quasi scivoloso.

Stringendo il mio fedele coltellino nella tasca, prendo a ispezionare i dintorni con circospezione mentre procedo al fianco di Klaus. La quiete dei parchetti vuoti, accompagnata dal fruscio delle fronde mosse dai lievi refoli di vento, mi riempie d'inquetudine. Ma, se tendo le orecchie, posso cogliere il suono scrosciante del fiume: lento, ritmico e pacifico, come una ninnananna.

Il cigolio di una vecchia insegna mi provoca un tremito. «Sono sicura di aver visto una scena simile in un horror» farfuglio, scoccando un'occhiata alle nostre spalle. «E negli horror -allerta spoiler- non finisce mai bene per il personaggio simpatico».

All'improvviso, il latrato di un cane da una villetta lacera il silenzio. Con un sussulto, mi aggrappo d'istinto alla manica di Klaus e lo tiro verso di me.
Quando incrocio il suo sguardo, ha un sopracciglio inarcato e una fossetta all'angolo della bocca, increspata in un mezzo sorriso.

Avvampo e lo lascio con tale irruenza da spingerlo. «Sono inciampata».

«Ma certo». Klaus scuote la testa, ridacchiando. «Stammi vicina, piccola fifona».

E chi si muove.

Il cinema di cui aveva parlato Simon si scopre essere un vecchio edificio tappezzato di murales in vernice spray e locandine sbiadite, ormai quasi illeggibili. Accanto, uno spiazzo adibito a parcheggio si apre all'ingresso di un grosso palazzo in solida pietra grigia, scavata da finestre a bifora. Ha un'aria antica, ma non troppo trascurata; combinazione piuttosto insolita a Sunset Hills.

Superiamo i bidoni della spazzatura già ricolmi, evitando i sacchi neri che si ammassano a terra, e Klaus spalanca il cancello socchiuso con un calcio. A giudicare dallo stridio che emette, devono essere anni che non viene oliato.

«Speriamo di essere nel posto giusto» borbotta, ruotando la testa da una parte all'altra. Adesso, anche la sua agitazione è palpabile.

«Forza, biondino. Ammetti che avevo ragione e saremmo dovuto venire di mattina».

«Neanche sotto tortura».

Con un balzo, Klaus salta i tre gradini che conducono al portone. Sfila il mazzo di chiavi di Eileen, che ha una copia datale da Rafael, e comincia a cercare quella giusta. Non voglio sapere come lo ha rubato a sua sorella, ma devo dire che il portachiavi di swarovski a forma di “H”, tempestata di diamanti, è un tocco di classe.
Intanto che lui prova a infilarne una dopo l'altra nel tentativo di aprire, scorro in fretta l'elenco di nomi allineati accanto ai campanelli del citofono.

Quando arrivo all'interno 5B, ho un tuffo al cuore. «Eccola! Gladys Mitchell» leggo con la voce acuita dall'emozione.

Fino a questo momento, avevo sperato che Simon avesse ragione, ma una parte di me non aveva voluto illudersi. Era troppa la paura di rimanere ferita dalla delusione per l'ennesima volta. Ora, invece, inizio a credere che la soluzione a tutti i misteri di questa storia sia davvero alla nostra portata.

«Non capisco una cosa». Mi gratto il mento, dubbiosa. «Gladys mi ha detto che delle persone le danno la caccia. Anche il direttore della Walker Agency mi ha avvisata che altri la stanno cercando. Allora, perché usa il suo vero nome, e non quello falso che ha dato a me? È stupido!»

Klaus apre il portone e mi guarda. Nel buio, i suoi occhi hanno un colore lattiginoso con riflessi azzurri, come pietre di luna incastonate sul suo volto. «Non credo che si stia nascondendo. O, almeno, prima dubito che lo facesse, altrimenti non sarebbe venuta a vivere a Dear Street».

L'interno 5B è collocato al primo piano, ad angolo di uno spazioso corridoio ornato da quadri appesi alle pareti gialle canarino e statue di marmo dentro a nicchie tinteggiate di bianco. Da uno degli appartamenti in fondo proviene il brusio di una televisione accesa e, da un altro, un crepitio costante simile a quello della ruota di un criceto.
Per il resto, il silenzio è assoluto. 

Le tenebre, dense e fitte, ci assediano, tanto che sembrano corteggiare il fascio di luce che scaturisce dalla torcia del telefono. Possiamo usare soltanto quello di Klaus, purtroppo, dato che ho rotto il mio. Le sagome delle sculture si stagliano distorte sul pavimento, tremolando in maniera minacciosa.

Senza una ragione precisa, ho già sguainato il coltellino, pronta a far scattare fuori la sottile lama. Non è il modo migliore per presentarsi, rifletto mentre Klaus bussa forte alla porta, ma non mi importa. E poi non devo aver fatto a Gladys una buona impressione neanche quando ci siamo conosciute. Insomma, ho tirato via i pasticcini che mi aveva comprato e le ho strillato in faccia che era una bugiarda. Non aveva le premesse di una promettente amicizia.

«Potremmo avere un problema». La voce di Klaus, sebbene ridotta a un sibilo, mi fa trasalire.

«Che sta dormendo? È notte fonda e lei non è il tipo da pigiama party, cosa ti aspettavi?» commento sarcastica.

Per tutta risposta, lui indica un punto preciso della porta. Ne seguo la traiettoria e corrugo la fronte con sguardo interrogativo, continuando a non capire.

«Wow, una normalissima maniglia! Che figata!» mormoro, fingendomi colpita.

«No, ficcanaso». Non riesco a distinguere il suo viso con nitidezza, ma percepisco la sua ironia. «È stata sostituita di recente. Sono tutte maniglie in nylon a rosetta tonda, ma le altre sono vecchie: anni Cinquanta, forse o poco più avanti. Questa, invece, ha una serratura moderna». Si china e la studia con meticolosa concentrazione. «Sì, a cilindro europeo. È più difficile da forzare, ma posso tentare».

«Hai una strana passione per le maniglie, per caso?»

Klaus mi passa il telefono, facendomi cenno di tenerlo puntato sulla toppa, e si inginocchia. «Mio zio perdeva spesso il lavoro, chissà perché. E se un adulto viene beccato a intrufolarsi nelle case o rubare nei negozi passa parecchi guai, invece un bambino ha più probabilità di passarla liscia» spiega atono, rovistandosi nelle tasche.

Lo ascolto a malapena, restando in piedi con la spalla contro il muro. So che non dovrei pensarci, soprattutto non qui e non adesso, che è stupido. Tuttavia vederlo in quella posizione, la sua testa all'altezza del mio ventre e il fisico flessuoso ricurvo davanti a me, mi fa scalpitare lo stomaco per l'eccitazione. È così vicino che potrei toccargli i capelli scompigliati semplicemente allungando la mano. Ogni cellula del mio corpo non desidera che provare di nuovo quella sensazione.

«Potresti smettere di fissarmi come se fossi un hamburger e farmi luce con la torcia, per favore?»

Scrollo le spalle, sbuffando: «Non è colpa mia se sono umana, biondino».

Sollevo di nuovo il telefono, che per la distrazione avevo abbassato verso il basso, e noto che Klaus ha preso una sorta di strano "cacciavite". Un cilindretto sporge dal manico e un bullone è fissato sull'estremità opposta all'asta metallica, che rigira con insistenza nella toppa.

«E quello cosa sarebbe? Un attrezzo della nobile professione da ladro?»

«Si chiama grimaldello bulgaro» esordisce in tono assorto, cliccando ripetutamente il cilindro. «E questa è la frizione che dovrebbe...» Un “click” riecheggia nell'aria, secco e lugubre. «Ecco, un giro è fatto».

«Quanto è illegale ciò che stai facendo, da uno a dieci?» domando sottovoce.

Lui solleva il capo e sorride. «Io gli darei un bel nove». E riprende ad armeggiare con la serratura.

Dopo almeno cinque minuti, si sente un altro scatto e la porta si socchiude. Uno spiffero gelido filtra dalla fessura verticale. Klaus estrae il grimaldello e, prima che lo riponga in tasca, mi accorgo che sulla punta c'è un perno dalla forma bizzarra, dentellato come una chiave.

Ci scambiamo un'occhiata per un attimo, infine afferro la maniglia e la spingo in avanti. Non ho il tempo di muovere un passo che Klaus mi scansa con delicatezza. C'è qualcosa di protettivo nel modo in cui mi trascina dietro di sé, quasi a volermi fare da scudo.

«Di solito, non vanno prima le signore?» gli sussurro all'orecchio.

«Se volevi un gentiluomo, dovevi portare Liam con te».

Klaus entra nel soggiorno, preceduto dalla propria ombra proiettata sul parquet dal cono luminoso della torcia. Lo seguo a mia volta, il telefono in una mano e il coltellino nell'altra, addentrandomi nell'oscurità. Nello stesso istante in cui richiudo la porta alle mie spalle, un bagliore accecante si propaga nella stanza e scopro...

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