41. SUI PROPRI PASSI
Nel sogno, papà è seduto accanto a me, sul fondo del letto.
Mi fissa con i suoi profondi occhi verdi, scuri come una selva ombrosa, e ha un sorriso mesto sulle labbra. Una luce tiepida gli getta bagliori argentei sul viso, intessendo fili scintillanti sui suoi capelli. Biondi e lucenti, hanno il colore delle balle di fieno, prima che il sole estivo le trasformi in paglia dorata. La sua pelle non è abbronzata come la ricordavo, ma neanche pallida: un bianco roseo di qualcuno che non è stato al sole per mesi, o anni.
Per il resto, è uguale a sette anni fa, senza rughe né ciuffi grigi. Non è invecchiato, eppure c'è qualcosa di diverso in lui, nel suo sguardo. Un tormento che sconfina nella stanchezza: sembra quasi che il tempo passato abbia prostrato il suo animo, ancora prima del suo corpo.
Sta soffrendo, lo sento. Lo percepisco dentro di me, come se il suo dolore fosse anche il mio.
Vorrei abbracciarlo per cancellare la sua sofferenza, stringerlo forte per annullare la sua solitudine, ma non ci riesco. Sono congelata, paralizzata. Una muta spettatrice che prova la sua stessa agonia, pur non potendo fare nulla per aiutarlo.
La sua voce mi giunge in sussurro, calda e dolce, simile ad un'eco che si leva dal passato. «Mi manchi, Key».
"Anche tu" rispondo. O meglio, è ciò che farei, se il silenzio non consumasse le mie parole, trasformandole in un rantolo indistinto.
Mio padre si sporge e mi scosta una ciocca blu dalla guancia, asciugandomi le lacrime con una carezza. È un gesto lieve e delicato, fatto con la tenerezza di chi sfiora un fiore raro o un cucciolo indifeso. Eppure il suo dito è così freddo da farmi rabbrividire.
Forse, il tocco di un caro defunto è questo... il fuoco dell'amore unito al gelo della morte.
"Ti voglio bene, principessa" mormora, dandomi un bacino sul naso. Lo faceva ogni volta che piangevo, per farmi stare meglio.
Per un secondo, il suo profumo di borotalco mi avvolge, famigliare come l'aroma d'incenso per un sacerdote o l'ossigeno stesso nei polmoni.
Un odore che mi riporta a New Orleans, al jazz nelle strade, alla magia nell'aria, al cavalletto nel giardino, al cielo stellato, ai disegni che facevo seduta sulle sue gambe. A casa.
La nostra casa.
Quando vedo che si sta alzando, il mio cuore esplode in gola. Gli grido di non andarsene, di non lasciarmi di nuovo. Lotto ferocemente contro la forza invisibile che mi blocca, cercando di allungare la mano per afferrarlo o di gettarmi verso di lui per poterlo seguire.
Ma è tutto vano.
La figura di mio padre inizia a tremolare e a sbiadire, a poco a poco che si allontana, fino a che svanisce nell'oscurità.
Infine, le tenebre inghiottono anche me.
Un refolo pungente mi lambisce il volto, carico di gocce gelide che mi pizzicano come zanzare. Sto tremando fino a sbattere i denti e, nel sonno, mi sono avvolta in un lembo di coperta per proteggermi dal brusco calo di temperatura.
Sollevo lentamente le palpebre, ma sono ancora così intontita e frastornata che impiego qualche secondo a svegliarmi del tutto.
Un'altra ondata di vento penetra dalla finestra e mi investe, riempiendo di puntini scuri le lenzuola. Entrambe le ante sono spalancate, le tende in poliestere color cobalto che oscillano sulla moquette bagnata.
Non ricordavo di averla aperta.
Sono riversa su un fianco, in bilico sul bordo del materasso, con le mani avvinghiate al cuscino e la foto dei miei genitori appiccicata alla faccia. Con un movimento fiacco, la stacco e guardo un istante l'immagine di mio padre, ripensando al sogno. Era così realistico che è stato come perderlo ancora una volta. Ma vederlo partire, sapendo già che non sarebbe mai tornato, è infinitamente più doloroso.
Ripongo la foto in tasca e mi rovescio sulla schiena, lo sguardo fisso sul brandello di cielo plumbeo, infestato da stralci di nubi nere che divorano la pallida luce del giorno.
Nell'aria, aleggia una nebbia densa e grigia che mi ricorda la tempesta intrappolata nei suoi occhi.
Senza volerlo, mi ritrovo a fantasticare su come sarebbe bello se fosse qui, ora. Con me. Mi chiedo cosa proverei a posare la testa sul suo petto, protetta dalle sue braccia, riscaldata dal tepore del suo corpo...
Un rumore improvviso di vetri infranti mi strappa un sussulto. Faccio uno scatto per alzarmi, ma scivolo giù dal letto e atterro sul tappeto in pelliccia artificiale, intriso di pioggia. L'impatto mi provoca una fitta alla spalla che, almeno, riesce a scacciare del tutto la sensazione di torpore.
Balzo in piedi, ignorando il fastidioso contatto con i calzini ormai fradici, e tendo le orecchie. Colgo dei passi ovattati dal piano inferiore e una voce che biascica parole incomprensibili in tono sommesso.
Di scatto, afferro il telefono dal comodino. Solo quando vedo la ragnatele di crepe sullo schermo mi ricordo che l'ho rotto un paio d'ore fa, lanciandolo in preda alla rabbia.
Prendo un respiro profondo e inizio a valutare le mie possibilità a sangue freddo.
Potrei nascondermi e attendere che, chiunque sia, decida di andarsene, sperando non venga a controllare di sopra.
Un'altra ipotesi sarebbe fuggire dalla scala antincendio, passando dalla finestra. È abbastanza vicina, ma servirebbe comunque un salto a circa dieci metri da terra.
Oppure l'ultima alternativa è scendere e affrontare l'intruso.
Ma aspettare impotente non mi è mai piaciuto, e l'idea di rischiare di maciullarmi sull'asfalto mi alletta anche meno.
Così, con il coltellino sguainato, attraverso la camera con cautela, tentando di non produrre il minimo suono. Aggrotto la fronte quando noto alcune tracce di fango sparpagliate sul pavimento. Formano una scia dalla porta ai piedi del letto, e poi c'è un'impronta quasi cancellata sul davanzale.
Non posso averle lasciate io, dato che non ho le scarpe... quindi cosa significa?
Di colpo, sento il gorgoglio del rubinetto provenire dal soggiorno e la tensione dei miei nervi si allenta un po'. Insomma, non credo che uno psicopatico omicida si metterebbe a bere dal lavandino.
Nonostante ciò, continuo a muovermi in maniera furtiva mentre sgattaiolo fuori dalla stanza. Esitante, scendo lentamente i gradini, anch'essi incrostati di macchie di terra disperse qua e là. A metà, il cigolio di uno scalino mi fa trasalire. In questo momento, invidio le naturali movenze felpate di Klaus.
Giungo nel breve corridoio e sbircio dalla soglia socchiusa, accanto alla scarpiera. Non c'è nessuno. Mi accorgo che anche lo scorrere dell'acqua si è fermato.
Non ho neanche il tempo di meditare se irrompere o meno che la porta si apre, colpendomi dritta in fronte. Mi ribalto all'indietro, sul sedere, e le mie dita mollano d'istinto il coltellino.
«Argh, maledetti demoni di Edom!» grido, arretrando a carponi.
«Keeley?» obietta una voce conosciuta.
Sollevo lo sguardo. Davanti a me, è apparsa una donna mingherlina con i capelli, tinti di un castano chiaro dai riflessi ramati, sono raccolti in una crocchia sulla sommità della nuca. Indossa dei pantaloni sportivi celesti con fascia e un pullover di lana e dei piccoli orecchini di diamanti le scintillano ai lobi.
Impugna una bambola di pezza come se fosse una spada, la bocca spalancata per lo stupore.
«Signora delle patate!» esclamo, massaggiandomi la tempia. So già che presto mi spunterà un bernoccolo. «Mi hai fatto venire un infarto!»
«Sai benissimo che mi chiamo Emily. E poi sei tu che stavi facendo la ninja, non io». Mi porge la mano e mi aiuta a rialzarmi. «Non ti eri trasferita a Sunset Hills?»
Annuisco. «Sì, ma la zia aveva già pagato l'affitto per tutto l'anno, perciò l'appartamento è ancora mio. Ero solo venuta... a vedere». Mi stringo nelle spalle e prendo a scrollarmi la polvere dai pantaloni. La compassione che leggo nei suoi occhi da cerbiatta mi irrita. «E tu, invece? Che stavi facendo?»
«Sono venuta ad innaffiare le capelvenere. Avevo portato un bicchiere d'acqua minerale, che è più consigliata per quel tipo di pianta, ma mi è caduto. Spero che non si rovinino con quella del rubinetto...» obietta con apprensione, quasi fosse una questione di vita o di morte.
Accenno al pupazzo che mi sta ancora puntando contro. «Volevi davvero uccidermi con Chucky?»
«Chi è Chucky?»
«La bambola assassina del film... lascia stare». Scrollo le spalle. «Ti sarei grata se smettessi di sventolarmela sul naso. Mi fai starnutire».
«Oh scusa» replica, abbassando la sua "arma". «Comunque, il loft è pieno di fango... sei stata tu?»
«Mi offende che tu mi creda tanto sporca».
Emily ridacchia e si scosta per permettermi di varcare la porta del corridoio. «Mi sei mancata, sai? Il palazzo è un mortorio, senza di te».
«Ovvio. Sono io».
Anche il salotto è tappezzato di orme di neve sciolta e melma terrosa, ma si sviluppano soltanto dall'ingresso al corridoio. Qualcuno deve aver cercato di pulirsi sul tappeto di juta, a giudicare dalle macchie e dai miei stivali rovesciati.
Individuo anche un bicchiere vuoto posato sul tavolino e i frammenti di quello rotto già ammucchiati sulla paletta.
«Deve essere stato Alan, allora» sbuffa contrariata. «Anche se andava di fretta, avrebbe potuto...»
Mi volto di scatto, assalita da una morsa d'orrore. «Alan è stato qui?»
Emily mi supera, scoccandomi un'occhiata stranita. «Circa un'ora fa, sì. Io non l'ho visto, ero fuori. È stato quel pettegolo del signor Peterson a dirmelo». Ripone la bambola sullo scaffale insieme alle altre. «Come mai non siete venuti insieme?»
Ignoro la domanda, riflettendo sulle sue parole. Se è successo un'ora fa, allora Alan è entrato mentre dormivo. Se le impronte sono sue, come suppongo, è stato anche nella mia stanza, perciò deve avermi notata.
Forse, se n'è andato proprio per la mia presenza, per non farsi scoprire a fare... cosa?
Recupero il coltellino e mi infilo gli stivali. «Viene spesso?» Devo sforzarmi per non far trapelare nessuna nota di diffidenza dalla mia voce.
«Ogni tanto. Soprattutto dopo che l'ho chiamato per avvertirlo che...» Si ammutolisce, guardandomi con fare incerto.
«Avvertirlo che...?» la incalzo.
Emily si avvicina al bidone con la paletta. Emette un sospiro, gettando i cocci di vetro. «Da quando ve ne siete andati, spesso mi pare ci sia del movimento qui, più che altro di notte. Eppure, quando alla mattina vengo a controllare, è tutto in ordine».
"Fin troppo in ordine" rimugino nella mia mente.
«Non volevo farti preoccupare per nulla. Così ho preferito avvisare Alan, piuttosto che te. Tanto voi due siete...», cerca la parola giusta per un attimo, «... amici. No?»
«Amicissimi» borbotto cupa.
La donna increspa le sopracciglia, cogliendo il mio sbalzo d'umore, ma saggiamente sceglie di non indagare oltre. «Per fortuna, ora che Alan viene spesso non succede più. Magari era un gatto o un topo, chissà».
Roteo gli occhi e sussurro ironica: «Un Animagus, sicuro».
«A parte questo». Emily mi rivolge un sorriso comprensivo. «Tu stai bene?»
A quella domanda, lo stomaco mi si contrae e, per una volta, non trovo la forza nemmeno di mentire. Mi limito a fare un cenno vago e mi indirizzo verso l'appendiabiti.
«Aspetta, Keeley. Magari puoi restare un po', se vuoi parlarmi della tua famiglia adottiva o...»
«E aiutarti a pulire il loft?» Imbacuccata sotto il giubbotto, la sciarpa e il cappuccio, scuoto la testa. «Grazie, ma rifiuto l'offerta e vado avanti».
Dato che mi conosce abbastanza da sapere che è pressoché impossibile farmi cambiare idea, Emily ci rinuncia. «Va bene. Ci vediamo, allora».
Apro la porta d'ingresso e mi fermo sull'uscio, spostando il peso da una gamba all'altra. Devo liberarmi di questo dubbio che mi lacera.
«Ehm» mormoro quasi timidamente, girandomi. Ogni battito è duro e tagliente, doloroso quanto una stilettata. «Eccetto Alan, non è che è passato... qualcun altro?»
«Qualcun altro?»
«Già».
Lei mi guarda come se fossi impazzita. «No, perché?»
La fugace scintilla di speranza che mi ero concessa si spegne, sostituita da una bruciante delusione. Ormai dovrei essermi abituata, invece continuo a illudermi. E fa sempre male.
«Niente». Mi mordicchio il labbro. «Era solo un sogno».
«Però c'è un ragazzo» aggiunge la donna in un soffio. «Non so se ti riferisci a lui. È biondo con una cicatrice».
La notizia mi coglie alla sprovvista. Per un istante, non so come reagire, poi un impeto di rabbia mi travolge. «Io lo ammazzo».
«Ti sta aspettando da quasi due ore, sotto la pioggia» ammicca Emily divertita. «Deve essere proprio cotto di te».
Per la seconda volta oggi, avvampo e avverto un calore intenso propagarsi sul mio viso paonazzo. Ed è tutta colpa sua, di nuovo. «No. È soltanto un idiota» sibilo a denti stretti, facendola scoppiare a ridere.
La saluto rapidamente, esco dal loft e mi precipito giù per le scale. Intanto, la mia mente sta elaborando i modi più dolorosi in cui potrei ucciderlo.
“È venuto per me” mi ripeto come un mantra. “È davvero venuto per me”.
Nonostante quello che ci siamo fatti, le parole che ci siamo detti... non mi ha lasciata sola, non mi ha abbandonata.
E lo detesto. Con tutta me stessa.
Devo detestarlo.
Perché, altrimenti, dovrei ammettere che sono felice che ci sia, qui e ora. Che ho bisogno di lui. Che lo voglio con me, più intensamente di quanto abbia mai desiderato qualcuno.
Appena lo vedo, rannicchiato e inerme, flagellato dal vento e dalla pioggia, un istinto di protezione mi stringe il cuore. Il mio primo impulso è corrergli incontro e abbracciarlo, cancellando tutte le bugie e i segreti che ci separano. Sapere che non posso è una vera tortura.
Ma, anche se mi trattengo, non posso evitare di affrettare il passo.
Klaus è fuori dal portone del palazzo, seduto con la schiena premuta al vetro. Le sue lunghe gambe sono distese, le mani intrecciate sulla pancia e lo sguardo perso nel vuoto.
È completamente fradicio e tremiti violenti gli scuotono il corpo per il freddo. I capelli sono di un biondo spento, quasi sporco, e alcune ciocche flaccide gli ricadono sugli occhi.
I vestiti grondanti lo fanno apparire ancora più magro e, uniti alle borse sotto le palpebre e la carnagione cerea, gli danno un aspetto emaciato. Ma le ombre che si inseguono sulla sua cicatrice gli restituiscono quel fascino misterioso che gli appartiene.
Prima di uscire, mi accerto di seppellire le mie emozioni dietro una curata maschera d'indifferenza. Appena apro la porta, le folate spietate della brezza mi artigliano il viso e devo afferrarmi il cappuccio per tenerlo su.
«Se volevi farmi pena, missione fallita» bofonchio, appoggiandomi al muretto. I pantaloni si appiccicano alla pietra, gelida e bagnata attraverso il tessuto.
Klaus solleva la testa e mi fissa intensamente. Nel suo silenzio, infuria una bufera di pensieri e sentimenti che non riesco ad afferrare.
Mi lascio scivolare al suo fianco, così vicina che la mia spalla sfiora la sua, sentendolo tremare. Deve essere congelato, maledizione. «Perché cavolo non sei entrato?» chiedo con un pizzico d'ansia.
Lui piega le gambe e cinge le ginocchia con le braccia nel tentativo di ripararsi dal gelo. «Ho pensato che non mi volessi».
«Non voglio neanche che ti prendi una broncopolmonite». Avrei voluto usare un tono seccato, invece è intriso di dolcezza.
Mi tolgo un guanto e chiudo la mano sulle sue dita intirizzite per trasmettergli un po' di calore. Sono così fredde e dure che sembrano fatte di ghiaccio. Klaus rimane immobile, troppo esausto anche per reagire al mio tocco. O, magari, semplicemente non lo turba.
«Come mi hai trovata?»
Le sue labbra si increspano in un sorriso tenero che scioglie ancora di più la mia corazza. «Ho seguito il bus».
Senza riflettere, gli scosto un ciuffo dal volto con delicatezza. Klaus chiude gli occhi quando, nel farlo, gli accarezzo la fronte ardente. «Hai la febbre» sussurro.
Lui si volta verso di me, ma il suo sguardo rimane basso, come se si vergognasse. «Keeley». La sua voce è flebile e roca a causa del mal di gola. «Devo dirti una cosa».
Incuriosita, lo invito a proseguire con un cenno.
Deglutisce e dardeggia gli occhi sulla strada con un'espressione colpevole. «Ti sbagli. Non è Alizée il problema. Sono io. Mi comporto così perché lei ha ragione su di me, su ciò che...»
Si interrompe, corrugando la fronte, e bisbiglia: «Keeley, fai finta di niente e non girarti».
Di riflesso, ruoto la testa di alcuni centimetri, cercando di sbirciare di sbieco il punto che ha attirato la sua attenzione. A meno che non sia interessato ai saldi nel negozio di ciabatte cinesi, all'angolo della via, non capisco a cosa si riferisca.
«Che c'è?» lo sollecito.
«Ti sei accorta che pare il giorno internazionale dei pickup?»
Una goccia di sudore freddo mi scende lungo la schiena. «È qui?»
Klaus annuisce. «L'ho già visto due o tre volte da quando siamo a Clayton. Ed è sempre lo stesso, la targa è identica».
Non mi stupisco che lo sappia: probabilmente, l'avrà imparata a memoria. «Ci sta seguendo».
«Che facciamo?» La sua mascella si contrae. «La nostra auto è parcheggiata da quella parte».
Faccio spallucce, rimetto il guanto e mi alzo, stringendo il manico del coltellino nella tasca. «Gli facciamo un autografo». In risposta alla sua espressione interrogativa, preciso: «Tradotto: vado a parlargli».
Klaus scatta in piedi a sua volta, allarmato, e mi prende per un polso. «Scordatelo! È troppo...»
«Se dici "pericoloso", ti do un altro pugno».
«Va bene. Allora ci vado io».
«Perché sei maschio e devi proteggermi?» lo rimbecco. «Questo è sessista».
«E tu sei insopportabile».
Il suono di una notifica, accompagnato da una vibrazione, riecheggia tra gli ululati scroscianti del vento. Il silenzio cala tra di noi come una cappa mentre ci scambiamo una lunga occhiata.
«I tuoi fratelli?» suggerisco.
«Ne dubito. Mi stavano massacrando di chiamate e ho silenziato i loro contatti».
Klaus molla la presa su di me, estrae il telefono e si concentra sullo schermo. Le sue labbra si muovono al ritmo delle parole mentre legge. Se possibile, diventa ancora più pallido.
Mi scanso e mi sporgo sopra la sua spalla, distratta dalle gocce che scivolano sul suo collo, insinuandosi sotto la giacca.
Il messaggio contiene solo due frasi concise e perentorie: "Tornate a casa! Nella villa siete al sicuro!"
«Questo numero sconosciuto...» dice Klaus meditabondo. «È lo stesso che mi ha mandato la tua posizione. La notte alla Taverna».
Un trillo e arriva un altro SMS, ancora più breve. Un monito chiaramente rivolto a me. "Attenta agli Hallander. Mentono".
Mandando al diavolo ogni cautela, punto lo sguardo nella stessa direzione di quello di Klaus.
Il pickup è accostato in fondo alla strada, seminascosto dalle bancarelle allestite nel vicolo che sbuca accanto al negozietto cinese. Motori accesi, vetri oscurati, muso diritto verso di noi: non sembra neanche sforzarsi di non farsi vedere.
Comincio a camminare a rapide falcate, fendendo la foschia umida che addensa l'aria. Sento Klaus che chiama il mio nome, ma non mi importa. Una macchina mi sfreccia vicino, schizzandomi sui pantaloni un'ondata di acqua e fanghiglia.
Strizzo le palpebre contro le sferzate del vento e della pioggia per mantenere il contatto visivo con il parabrezza nero del grosso veicolo.
Per qualche ragione, sono certa che anche il conducente mi stia fissando.
Poi la luce accecante dei lampeggianti rifulge nel grigio del pomeriggio. Li attiva un paio di volte, quasi a volermi comunicare qualcosa in un linguaggio in codice. Infine, il pickup si muove, inverte la rotta con una manovra del tutto illegale e sparisce nel vicolo.
Rallento fino a fermarmi, osservando il traffico che si chiude sulla sua scia.
Klaus mi affianca e, per un attimo, sono sicura che voglia stringermi di nuovo. Ha già sollevato il braccio, ma ci ripensa e lo lascia cadere mollemente.
«Torniamo a Sunset Hills» sospiro, passandomi una mano sul viso fradicio.
Lui inarca un sopracciglio, sorpreso. «Insieme?»
Attenta a non incrociare i suoi occhi, faccio un cenno d'assenso. «Sì, insieme. Ma...»
«Guidi tu» completa, sfoderando uno dei suoi sorrisetti impertinenti.
Appena saliamo sulla Corvette, inserisco le chiavi e attivo subito l'aria condizionata. Mi abbandono contro il morbido schienale e aspetto qualche minuto, godendomi il tepore che si propaga nell'auto.
Poi mi ricordo una cosa.
«Che cosa dovevi dirmi, comunque?» gli domando.
Non ricevendo risposta, gli lancio un'occhiata. Klaus è accoccolato sul sedile, la testa appoggiata al finestrino e le braccia serrate sul petto. I suoi muscoli sono un po' tesi e trema ancora, infreddolito, ma so che sta dormendo. Lo intuisco dalla sua espressione rilassata e dal respiro lento e regolare.
Nel sonno, è così sereno e indifeso da farmi tenerezza, come un cucciolo smarrito.
"Anche se so che per te questo non ha significato, non c'è niente che non ti permetterei di farmi"
Posso sentire ancora la sua voce che pronuncia quella frase. Ogni parola sembra essersi marchiata a fuoco nella mia mente.
E mi rendo conto che, se potessi tornare indietro nel tempo, lo bacerei. Perché si sbagliava, era completamente in errore... per me questo significa tutto.
«Ti ho mentito» confesso, continuando a guardarlo. «Nessuna sfida, nessun gioco, era una bugia. All'inizio non ne ero sicura, credevo fosse una stupida attrazione fisica, dato che sei... beh, sei tu». Faccio un risolino insicuro. «Ma più ti stavo vicina, più capivo. Prima sulla torre della villa, poi sull'amaca, ma è stato oggi a darmene la certezza».
Sollevo una mano, senza guanto, e la infilo tra i suoi capelli bagnati. «Sono innamorata di te, Klaus Hallander».
All'improvviso, lui emette un mugolio e faccio per ritrarmi, ma comincia subito ad agitarsi, come per protesta. Solo quando lo accarezzo di nuovo, torna tranquillo, rassicurato dalle mie dita che gli stringono con delicatezza le morbide ciocche bionde. Ho l'impressione che tutto il suo corpo sia più disteso e calmo, adesso.
«Odio ciò che provo, odio non riuscire a cancellare questi sentimenti. Lo odio perché è terrificante» sussurro con voce incrinata. «Ho amato davvero solo due persone nella mia vita, Klaus. Mio padre e mia zia... e li ho persi entrambi. È un dolore che non ti lascia mai, che diventa parte di te e ti soffoca».
A malincuore ritiro il braccio, mi sfilo il giubbotto e lo uso per coprirlo fino al mento. Klaus ci si avvolge dentro, smettendo a poco a poco di tremare. Quando gli sfioro la tempia con l'indice, per verificare la sua temperatura, dalla sua gola esce un verso di sollievo. Scotta ancora.
«Ho paura che, se abbasserò la guardia, mi lascerai come hanno fatto loro. E non so se riuscirei a sopportarlo, non di nuovo. Ho paura perché tutti coloro a cui tengo, alla fine se ne vanno. Alla fine soffrono. E tu hai già sofferto troppo e... non voglio farti del male anch'io».
Mi asciugo una lacrima solitaria sulla manica. «Avevo bisogno di dirtelo ma non volevo che mi sentissi. Adesso però mi chiedo cosa penseresti di me, se sapessi che è per questo che ti respingo. Per il nostro bene».
Klaus rimane immobile, gli occhi che si muovono sotto le palpebre abbassate, e rilascia un respiro pesante che appanna il vetro del finestrino.
Mi protendo verso di lui e gli deposito un bacio leggero sulla guancia. «Scusa» sussurro al suo orecchio.
E l'ombra di un sorriso sboccia sulle sue labbra.
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