40. LE BUGIE FANNO MALE

Adam Greyson si rigira il mio coltellino nella mano, studiandolo con divertito interesse. «A cosa dovrebbe servirti questo?»

«A castrarti, se non me lo ridai subito».

Per niente intimorito dalla minaccia, solleva la lama sottile e si punzecchia l'indice con la punta. Un ghigno fa capolino sulla sua faccia, ma scompare appena una goccia cremisi gli spunta sul polpastrello.

Abbozzo un sorriso sornione. «Allora, è abbastanza affilato, James Bond?»

Ignorandomi, l'uomo si succhia il dito e mi porge il coltellino svizzero, insieme al telefono. Non li ho ancora riposti nella tasca che mi sta già allungando qualcos'altro. Un rettangolo di carta ruvida che somiglia molto ad un biglietto da visita.

Lo afferro. Su una facciata è stampato il simbolo di una nota marca di profumi, sull'altra sono scarabocchiati dei numeri con una grafia orrenda.

«Sono confusa. È un messaggio velato per dirmi che puzzo o cerchi di rimorchiarmi?» commento, inarcando un sopracciglio. «Perché sei un po' troppo vecchio per me, bestione».

Adam mi scocca un'occhiataccia. Con circospezione, sbircia prima la donna piazzata accanto all'ascensore, e poi Klaus, che ormai si è arreso alla morsa delle manette.

«Se mai vorrai contattare di nuovo il direttore Okri, chiamami. Sarò il vostro intermediario» sussurra in tono serio.

«Non mi servirà».

Mi si avvicina e aggiunge al mio orecchio, investendomi con l'odore di menta del suo alito: «Se vuoi la mia opinione, non dovresti fidarti di uno Waylatt. Hanno il male nel sangue».

Un brivido mi scende lungo la schiena, ma rimango in silenzio. Metto via il foglietto e mi incammino attraverso la caldissima stanza bianca. La luce abbagliante dei lampadari mi costringe a strizzare le palpebre a causa del bruciore che mi offusca la vista.

«Ehi! Il tuo ragazzo non lo rivuoi?» sghignazza Adam.

Mi volto di scatto. «È di proprietà pubblica, in realtà».

Klaus, che era afflosciato sulla sedia, si raddrizza così bruscamente da far tintinnare le manette.
Per un secondo, i nostri sguardi si incrociano, uno il riflesso dell'altro: la stessa rabbia gelata che mi pervade marchia i suoi occhi. Di solito, hanno il colore dell'argento fuso, di un grigio incandescente e brillante. Al momento, invece, sono scuri e duri come l'acciaio.

Scrollo le spalle. «Per quanto mi importa, potete anche tenervelo».

«Keeley!» grida Klaus furioso, strattonando l'anello metallico intorno al suo polso martoriato. «Keeley!»

Mi giro, recupero il giubbotto e la sciarpa da uno dei ganci al muro e punto dritta verso l'ascensore. La donna che funge da guardia britannica si scansa. Con atteggiamento marmoreo, mi guarda da sotto la frangia del suo austero caschetto castano mentre le passo davanti.

Premo il tasto del pianoterra e ammicco: «Ti consiglio di prendere le scale, biondino».

Appena Adam, ridacchiando, lo ha liberato e gli ha restituito il telefono, Klaus balza in piedi con lo zaino a tracolla e si precipita nella mia direzione, ma le porte si chiudono prima che possa entrare. Il tonfo che rimbomba nella cabina mi suggerisce che abbia sferrato un pugno per la rabbia.

Emettendo appena un sibilo, l'ascensore comincia a scendere, accompagnato da una musichetta noiosa che sarebbe adatta per un carillon.
Mi accascio sul pavimento, la schiena schiacciata alla parete lucida, e appoggio la fronte tra le ginocchia portate al petto. Esalo un sospiro profondo, che però viene spezzato da un singhiozzo.

«No!» sibilo con tono incrinato. «Non ancora!»

Rovescio la testa all'indietro e mi scosto le ciocche blu appiccicate al volto imperlato di sudore. Un altro singulto mi scuote e pesto il tallone dello stivale a terra. Sto ansimando, quasi avessi passato l'ultima ora a correre una maratona piuttosto che parlare con il direttore.

Mi sento come se fossi prigioniera in una gabbia che si rimpicciolisce sempre di più, lenta e inesorabile. Avverto un urlo disperato che mi graffia la gola, un pianto che scalpita per liberarsi... e vorrei solo lasciarmi andare.
Ho bisogno di lasciarmi andare.

Invece, tiro su con il naso e, a poco a poco, mi costringo a regolarizzare il mio respiro.
Infilo il giubbotto e avvolgo bene la sciarpa in modo da nascondere almeno metà viso, fin sopra al naso. Infine, sollevo il cappuccio e sguscio fuori dall'ascensore. Noto un signore che fa una smorfia supponente, per il mio abbigliamento ben poco raffinato, e per tutta risposta gli faccio un gestaccio.
Percorro rapidamente l'ampio atrio punteggiato di colonne ed esco dalla porta girevole.

La mattina è ormai scivolata via, frustata dagli artigli di un vento feroce che trasporta con sé lacrime grosse e gelide. Un ventaglio di nubi nere si spalanca come uno squarcio nel cielo plumbeo, l'azzurro pallido consumato da una cortina fosca che copre il sole.
La neve si è sciolta in una consistenza molliccia e sporca, che trasforma l'asfalto in una distesa di fango appiccicoso.
Il fragore delle auto, che animano le strade bagnate e schizzano i passanti di melma torbida, è soffocato dallo scroscio fitto del temporale.
Gli imponenti palazzi circostanti si stagliano nell'aria cinerea e le loro figure, bianche e lucenti, assumono un brillio lattiginoso sotto la luce fioca e scialba del giorno.

Non mi accorgo neanche del gelo che mi penetra nelle ossa, delle gocce dure che mi picchiettano sulla nuca. Con la spalla appoggiata al lampione spento, osservo il piccolo parchetto nel centro della piazza. I pupazzi di neve sono ridotti a mostri deformi che si liquefanno al suolo. I rametti che erano le loro braccia pendono inerti, spezzati.
Le altalene, i tappeti elastici e i cavalli a dondolo sono vuoti e abbandonati per il maltempo. E anche i pochi bambini rimasti hanno smesso di giocare a calcio e se ne stanno andando, richiamati dai genitori. Padri e madri che li abbracciano, che prendono i loro zainetti, che li tengono per mano.

Mi chiedo se sappiano quanto sono fortunati ad avere qualcuno che li ami. Ad avere una famiglia che si preoccupi per loro.
A non essere soli.

D'un tratto, la mia attenzione viene rapita da un veicolo seminascosto dalla fontana, sul lato ovest della piazza. È fermo, accostato in disparte davanti a un vicolo, ma i motori sono accesi. Nonostante il cofano puntato nella mia direzione, i vetri sono oscurati e non posso scorgere il conducente.
Non è la prima volta che vedo quel pickup, oggi...

«KEELEY!»

Mi volto con pigrizia e vedo Klaus che mi raggiunge di corsa, travolgendo un vecchietto a cui fa volare il suo trilby anni '50.
Sono pronta a spostarmi, pensando che stia per finirmi addosso, invece si ferma di colpo ad un metro da me. Barcolla sul marciapiede vischioso e deve sorreggersi alla panchina per non cadere. La manica sinistra si solleva, scoprendo il polso con il sangue rappreso intorno ai tagli e alle escoriazioni.

«Sei davvero lento. Iniziavo a invecchiare». La mia voce è ovattata dal tessuto della sciarpa, ma trapela comunque una nota di ostilità.

Klaus si stringe il fianco, boccheggiando, e mi fissa tetro. Sebbene abbia un aspetto stremato, malaticcio, è ancora più bello del solito.
Le occhiaie scure spiccano sulla sua carnagione chiarissima, così bianca da celare la sottile cicatrice. I capelli fradici e arruffati gli aderiscono alle guance, rosse e scavate, e la pioggia gli scorre sul volto, colando dal naso e dal mento.
Anche i vestiti sono grondanti. La giacca di cuoio gli fascia le braccia, accentuando il suo profilo magro e affusolato.

«Ho fatto trenta piani a piedi» replica seccato, tremando per il freddo.

«Ah già. Sei claustrofobico».

«Cosa ti ha detto?» La sua espressione tradisce una crescente curiosità. «Il direttore».

Distolgo lo sguardo da lui e lo poso sulla chiesa dall'altra parte della piazza. Presenta un ricco portale con rosone ad archi intersecati e una statua davanti all'entrata, in cima alla maestosa gradinata.
Sono troppo lontana per metterla a fuoco, ma ricordo cosa rappresenta: un angelo. Da qui, il suo marmo sporco sembra piuttosto opaco, quasi scuro.
Come l'Angelo nero della nostra costellazione.

Faccio spallucce, scacciando quel pensiero. «Versione breve: la donna buona è Gladys Turner. Anche se il suo vero cognome è Mitchell. Si è licenziata dall'agenzia lo stesso anno in cui tu sei stato salvato dall'uomo buono. Non credo sia una coincidenza, ma non so bene che significhi». Malgrado mi sia messa i guanti, le mani cominciano ad intirizzirsi e formicolare. «Adesso sappiamo chi è, ma non dove trovarla. Molto utile, vero?»

Klaus sbatte le palpebre più volte, guardandomi tra le lunghe ciglia bagnate. «Sei stata nel suo ufficio per un'ora. Non potete aver parlato solo di questo».

Abbozzo un sorriso sarcastico. «Infatti l'ho chiamata "versione breve". Ma il resto non ti riguarda». Rovisto nella tasca e gli lancio le chiavi della Corvette. «Tieni, vai a casa. Io tornerò in treno più tardi».

«Cosa?» obietta perplesso. «Non andrai da nessuna parte da sola».

«Invece sì. Mi sono rotta le scatole delle macchine. E anche di te».

Mi giro e riprendo a camminare, svoltando in un sentiero di pietra che si inoltra tra il gigante di granito specchiante della Walker Agency e una facciata in mattonelle di vetro blu e verde di un albergo.

Klaus mi segue, procedendo a falcate veloci dietro di me. «Sul serio?!» urla risentito. «Hai ammesso che sono il tuo giocattolo preferito, e vuoi passare tu per quella ferita?»

Evito una pozzanghera e accelero, cercando di allontanarmi il più possibile. Una lieve foschia mi appanna gli occhi, che prendono a pizzicare.

«Attento, Waylatt» ringhio furibonda. «Sono una ragazza notoriamente violenta e problematica. È meglio che non mi provochi».

Con un guizzo felino, lui mi si para davanti, senza proferire parola. Cerco di aggirarlo, ma scatta di lato e mi blocca di nuovo. È incredibilmente agile.

La gente passando ci scocca occhiate e confabula, attirata dal nostro litigio, ma non importa a nessuno dei due. Ci siamo soltanto noi, non conta altro.
Solo io e lui.

Serro le dita con tale forza che, se non ci fosse la lana in mezzo, le unghie mi si sarebbero conficcate nel palmo. «Se non mi lasci in pace, giuro che ti faccio male!»

«L'hai già fatto». Nel suo sguardo impassibile balugina un lampo di dolore, profondo e bruciante. Un dolore che gli ho inflitto io. «Ma se ti fa stare meglio, continua. Forza».

Le sue provocazioni mi fanno ribollire il sangue nelle vene. Gli do uno spintone che lo fa arretrare di un passo e ne approfitto per superarlo, ma Klaus torna a farmi da barriera con il suo corpo.
Agisco d'istinto, prima ancora di rendermene conto. Ero sicura che si sarebbe spostato, ero certa che me l'avrebbe impedito.
Invece, non prova nemmeno a difendersi, lasciando che gli sferri un pugno in piena pancia, piatta e dura sotto le nocche.

Mi paralizzo, assalita da senso d'orrore e di disgusto verso me stessa. Non dovevo. Non volevo.
Lo guardo piegarsi un poco in avanti per l'impatto e socchiudere la bocca, da cui però non esce nessun suono.
Le mie dita indugiano sul punto in cui l'ho colpito e lo accarezzo attraverso la giacca, come tentando di cancellare il mio gesto, di chiedergli scusa per ciò che ho fatto.

Klaus continua a non muoversi, le braccia rigide lungo i fianchi e le spalle tese, scosso da fremiti in tutto il corpo. Paura e desiderio si inseguono sul suo viso, rigato dalla pioggia. Avevo ragione: teme il mio tocco, ma non può fare a meno di volerlo.

«Hai già vinto, Keeley» sussurra con la voce piena di tormento. «Perché anche se so che per te questo non ha significato, non c'è niente che non ti permetterei di farmi».

Sollevo la testa, incredula. I miei occhi si riflettono nei suoi: grigio e oro che danzano in una tempesta di pagliuzze blu, accese di una luce triste.
Vorrei spiegargli che ho mentito e che non è mai stato una sfida. Vorrei dirgli che i miei sentimenti sono reali quanto i suoi. Perché non è un gioco, non lo è mai stato.
Come può non capire che non possiamo stare insieme?
Che lo respingo per il suo bene?

«Finiamola e basta». C'è una fermezza gelida nel suo tono. «Fai quello che stavi per fare sull'amaca».

Corrugo la fronte, sentendo la pioggia rimbalzare contro il cappuccio e pungermi la faccia come tanti piccoli aghi.
Prima che io possa rispondere, Klaus mi avvolge con le braccia e mi attira a sé, cancellando i pochi centimetri tra noi. Il suo calore sembra penetrarmi sotto gli strati di abiti, scaldandomi, e il suo profumo si mescola all'odore terroso nell'aria.

Adesso, siamo così vicini che il mio seno preme contro il suo petto, perfino le nostre ginocchia si scontrano. Ho le gambe stranamente molli, e non ho idea se mi stia reggendo da sola o, invece, siano le sue mani sulla mia schiena a farlo.
Le nostre bocche sono separate appena dallo spazio dei nostri respiri che ardono uno nell'altro, in una sincronia perfetta di battiti e ansimi.

All'improvviso, non c'è più nessuno nella via. Le persone che si affrettano, ricurve sotto gli ombrelli, o che fumano al riparo di una tettoia, i bar e i negozi affollati usati come rifugio dal temporale... tutto il resto del mondo sparisce, troppo insignificante.

Senza riflettere, gli circondo a mia volta la vita sottile per tenerlo stretto a me. La mia mano si infila sotto la sua giacca fradicia e incontra il tessuto della maglia che, anch'essa pregna d'acqua, gli aderisce come una seconda pelle. Gli risalgo il fianco snello, affondando i polpastrelli nella carne fino a toccare le costole leggermente sporgenti.
Il mio stomaco si contrae mentre i tremiti che agitano il suo corpo, fuso al mio, si fanno sempre più forti.

«Baciami» mormora Klaus flebile.

Le sue ciocche bionde, incollate alle tempie, brillano di riflessi dorati. Sul suo volto, lucido e bagnato per la pioggia, la maschera di freddezza si è sgretolata. Non l'ho mai visto così vulnerabile e indifeso, neanche quando Jonas lo stava picchiando a Baker Street.

La parte razionale della mia mente sa che non posso farlo, non ora, non per questa ragione. Ma ogni nervo, ogni fibra, ogni cellula del mio essere lo vuole.
Lo tiro forte verso di me e, per un secondo, le nostre labbra si sfiorano. Una goccia gelida scivola dalle sue, morbide e carnose, fino alle mie: al contatto con la lingua, sembra avere un sapore diverso, buonissimo.
Il suo sapore.

«È quello che vuoi, no?» aggiunge lui in un sibilo sprezzante. «Forza, allora. Bacia il ragazzo che non si fa toccare e vediamo come reagisco. Se non sbaglio, hai detto che è eccitante». Abbozza un sorriso tagliente. «Mi dispiace che non potrai vantarti di essere la prima, ma è meglio di niente, giusto?»

«Va' al diavolo, Klaus».

Mi districo dalla sua presa e raggiungo di corsa la fermata più vicina. Mi getto dentro il bus, sgomitando per aprirmi un varco, e mi abbandono sul sedile libero in fondo.
Lancia un'ultima fugace occhiata attraverso la vetrata alle mie spalle. Klaus è ancora fermo nello stesso punto, diventando sempre più piccolo man mano che il pullman si allontana.
Ma anche quando è solo una sagoma indistinta, continuo a percepire lo sguardo fragile nei suoi occhi grigi. E lo spettro del bacio che non c'è stato impresso su di me.

***

Mi tremano le mani mentre prendo la chiave dalla tasca. Mi servono un paio di tentativi, prima di riuscire ad inserirla nella toppa. Al terzo giro, la serratura scatta e la porta si dischiude con un cigolio.

Il soggiorno è rimasto uguale come negli ultimi sette anni.
Il pavimento di bambù rovinato, il divano di vimini coperto di cuscini ricamati, le bambole di pezza cucite a mano sugli scaffali e il tappeto di juta di fianco all'ingresso.
Nonostante il pulviscolo di polvere che vi aleggia, l'aria è intrisa del profumo di mughetto grazie alle decine di diffusori sparpagliati ovunque.

Negli angoli, i vasi di capelvenere sono ancora rigogliosi, quindi deduco che la vicina se ne sia davvero presa cura in questo periodo. Ricordo che glielo aveva chiesto Alan, dopo essere andato da lei per lo zucchero...

Eppure, nell'anticamera del mio cervello, balena la sensazione che ci sia qualcosa di strano. Ma è un pensiero astratto e remoto, simile al sottofondo fastidioso dovuto alla perdita di un rubinetto o uno strumento stonato in un orchestra.

Per vecchia abitudine, tolgo subito le scarpe e le lascio sul tappeto, pur sapendo che Moira non potrebbe sgridarmi se non lo facessi.
Mi libero di giubbotto e sciarpa, scaraventandoli sull'attaccapanni ad albero. Prendo il telecomando, accendo le luci a led con un tasto e attivo il riscaldamento con un altro, dato che è più comodo e rapido che accendere la stufa a pellet.
Essendo una naturalista convinta, infatti, mia zia ha fatto installare un impianto domotico in tutto l'appartamento: un po' costoso, ma totalmente ecosostenibile.

L'ambiente è immerso in un silenzio che mi fa ronzare le orecchie, interrotto solo dalla pioggia che tamburella contro i vetri delle finestre.
Mi guardo intorno con il cuore che sprofonda ad ogni ricordo che striscia fuori dalla mia mente. Ogni singolo oggetto, qui, ne è pieno.

Sfioro la poltrona di cartone su cui mia zia passava la serata a fare cruverba, sorseggiando disgustosi tè alle erbe. La prendevo in giro di continuo, scherzando sul fatto che fosse seduta su materiale riciclato.
Passo davanti alla tv a schermo piatto e rivedo Moira che, sul suo tappetino, segue le lezioni di fitness, facendo pesi e stretching e divorando l'istruttore con lo sguardo. Se fosse stato fisicamente presente, non dubito che avrebbe trovato posizioni molto alternative da fare con lui.
O, almeno, era ciò che le dicevo per disturbarla, stando spaparanzata sul divano, i piedi sul tavolino e un tubo di Pringles in mano.

Con una fitta al petto, osservo le calamite che lei mi regalava da attaccare al congelatore o la chiazza di vernice sulle piastrelle che Alan non è mai riuscito a ripulire, dopo che gli avevo sparato con il marcatore da paintball.
Tocco la scarpiera accanto alla porta, la stessa dietro cui mi sono nascosta per origliare la conversazione tra papà e la zia.

Ricordi, ricordi e ancora ricordi.

Sfreccio oltre il corridoio, su per le scale dalle quali mi divertivo a scendere giù di sedere lungo i gradini o a scivolare sul corrimano, sostenendomi al muro.
E, finalmente, torno nella mia camera. Provo di nuovo lo stesso presentimento, più forte e insistente: una vocina interiore che grida di notare quel particolare fuori posto.
Eppure, sono sicura che sia tutto come l'ho lasciato, più di un mese fa.

Una parete è quasi interamente occupata da alti armadi di legno con maniglie arrugginite, lasciando buchi solo agli angoli. In quello a sinistra, si trova il ventilatore a piantana per l'estate. A destra, una vecchia porta scardinata che nessuno si è mai preso la briga di buttare.
Di lato, c'è un mobiletto a specchio invaso da foto e poster, perlopiù di attori famosi o personaggi delle serie TV, e pile traballanti di scatole dei giochi per il Nintendo.
Un piccolo televisore è posto sulla scrivania bianca, che dispone di un vano sottostante in cui sono messi alla rinfusa i libri delle mie saghe preferite: Harry Potter, Shadowhunters, Hunger Games...

Crollo pesantemente sul letto e mi rannicchio su me stessa, stringendo uno dei cuscini di pizzo in grembo. Non uno a caso: quello che ho lanciato addosso a mio padre, il giorno della sua partenza.
Era venuto a salutarmi, e lo sapevo, quindi ho dato inizio ad una guerra di cuscini per temporeggiare. Ne facevamo sempre tante, nella nostra casa a New Orleans.

Ovviamente, avevo vinto io anche quella volta.

Steso sotto di me, papà era stato costretto alla resa, ridendo come un matto mentre mi implorava che smettessi di sbattergli il cuscino in faccia.
Alla fine, mi ero accoccolata al suo fianco, poggiandogli la testa sul petto e stringendolo forte con un braccio.
Avrei dato qualsiasi cosa per prolungare quel momento all'infinito, ma era stato allora che avevo capito che il tempo non si ferma. Mai. Avanza, consuma, distrugge, senza preoccuparsi di ciò che si lascia indietro.

Di colpo, tutto si abbatte su di me, una tempesta travolgente di dolore che ho trattenuto per troppo tempo.
Quando il mio pianto esplode, non provo neppure ad opporre resistenza e mi lascio andare ai singhiozzi e ai gemiti.
Non asciugo neanche le lacrime che mi rigano il volto, formando macchie scure sulla coperta.

Mi pulisco il naso con la manica prendo il telefono tra le dita sudate. Ignoro le dozzine di chiamate perse o messaggi da villa Hallander -Simon, Kal, Eileen, perfino Liam e Carol- e apro la rubrica.
Solo per rendermi conto che non c'è nessuno che io possa chiamare.

I normali adolescenti hanno i genitori, i nonni, gli zii o altri parenti con cui parlare e sfogarsi: adulti che gli danno consigli, che li rassicurano quando pensano che la vita stia crollando loro addosso.

Io no.
Sono sola. Ora più che mai.

Per un istante, il mio dito esita sul nome di Alan. So che mi ha mentito, che non è chi dice di essere, ma vorrei così tanto potermi fidare di lui. Ne ho un bisogno disperato, così intenso che quasi non riesco a respirare.
Con un urlo, scaglio il telefono contro la lampada a forma di Morte Nera sul comodino. Prendo a pugni il cuscino con tutte le mie forze fino a stancarmi le braccia.

Perché diavolo tutti mi deludono?

Quando mi ribalto sulla pancia, sento qualcosa di duro e scomodo che mi preme contro il bacino: il coltellino.
Allungo il braccio e raccolgo la foto stropicciata dei miei genitori, che sbuca dalla tasca.
Guardo mia madre e non posso fare a meno di domandarmi se le somiglio davvero. Non fisicamente, questo è certo. Ma sarebbe bello sapere che c'è qualcosa di lei anche dentro di me.
Chissà se sono la figlia che avrebbe voluto.
Chissà se, conoscendomi, sarebbe fiera di aver dato la sua vita per la mia.

Accarezzo il viso di mio padre, che mi rivolge un sorriso spensierato e mi ricambia lo sguardo con i suoi occhi verde muschio, così pieni d'amore.
Se fosse qui, si sarebbe già sdraiato vicino a me. Mi avrebbe abbracciata, dandomi bacini sul naso. E, dopo avermi cullata un po', aspettando che mi calmassi, mi avrebbe fatto il solletico fino a farmi ridere.

Posso ancora sentire la sua voce soffice che mi sussurra all'orecchio quel banale "Ti voglio bene, Key", che però contava più di qualsiasi altra cosa al mondo.
E non c'è niente che mi manchi quanto quelle parole, pronunciate da lui.

«Vorrei odiarti per tutte le bugie che mi hai detto. Per essertene andato» confesso, bagnando l'immagine di lacrime. «Ma ti voglio ancora così bene...» La mia voce si spezza con un singulto.

Porto la foto al cuore e affondo il volto tra le lenzuola, le palpebre che mi si chiudono lentamente.
Un attimo prima che Morfeo mi accolga nel suo regno, capisco cosa mi ha turbato tanto nel loft, nella mia stanza, ma ormai sono già scivolata nel sonno.

È tutto in ordine... troppo in ordine.
Più di quanto lo fosse quando me ne sono andata.

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