39. BUONI E CATTIVI
«Vuoi stare fermo, Indiana Jones?» sbotto infastidita, dopo l'ennesimo stridio metallico. «Mi fai venire voglia di strapparmi i timpani».
Klaus mi ignora e continua a strattonare la manetta che lo lega alla sedia. Sono dieci minuti che tenta, invano, di liberarsi e ha ottenuto solo di scorticarsi la pelle, divenuta violacea intorno al polso.
Nonostante il caldo opprimente che impregna l'aria, porta la giacca chiusa fino alla gola ed è pallido come un cadavere.
Ci troviamo in una grande stanza bianca con un pavimento lastricato di piastrelle, così lucido e pulito che ogni granello di polvere risalta sulla sua superficie linda.
L'arredamento consiste in lunghi ripiani di legno, su cui sono esposte riviste e opuscoli, o espositori di vetro con libri voluminosi su cui torreggia la scritta "best seller".
Due file di sedie basse dai braccioli di ferro, le gambe inchiodate a terra, corrono parallele lungo le pareti laterali.
Con un distributore automatico pieno di leccornie, infilato in un angolo accanto ad una macchinetta del caffè, e un piccolo schermo che pende dal soffitto, potrebbe essere quasi accogliente.
Ma l'assenza di finestre, la luce accecante e spettrale dei lampadari a gocce e l'aria condizionata sparata al massimo rende l'ambiente chiuso e soffocante.
Getto un'occhiata torva alla porta di mogano dietro la quale Adam Greyson è sparito, dopo aver ritirato ad entrambi il telefono.
Ciò che mi turba, però, è che ha preso anche il mio coltellino svizzero. Non voglio perderlo, non posso... è l'ultimo, forse unico, legame che mi resta con papà. La sola prova tangibile e certa, oltre i miei ricordi, che conservo di lui.
Dato che mi hanno lasciata totalmente libera, non avrei esitato a fiondarmi dentro l'ufficio del direttore. Non soltanto per riprendermi ciò che mi appartiene, ma anche per pretendere delle spiegazioni.
Malgrado le mie domande assillanti, infatti, durante tutta la salita fino all'ultimo piano dell'edificio, l'unica risposta che ho ricevuto dall'uomo, capo della sicurezza, è stato un silenzio tombale.
Anche quando gli ho schiacciato un piede con lo stivale, non ha proferito parola. Si è limitato a stringermi la spalla, tirandomi davanti a sé per farmi stare ferma.
Tuttavia, ad impedirmi di compiere quell'irruzione, è la donna che ci sorveglia, piantata vicino all'ascensore. Il suo atteggiamento impassibile mi ricorda una guardia reale britannica, che prende vita nel momento in cui mi avvicino troppo alla zona proibita.
Con uno slancio potrei farcela, senza dubbio, ma non ne vale la pena: sono piuttosto sicura di aver sentito la serratura scattare dall'interno.
Torno a sfogliare la rivista, posata sulle mie gambe, limitandomi a scorrere le immagini. Poi un titolo attira la mia attenzione.
«"Come gestire i capricci dei bambini"» leggo, sollevando la testa verso Klaus. «Magari funziona anche con te».
Di nuovo, finge di non sentirmi, troppo preso dalla sua lotta contro le manette.
«C'è scritto che non devo assecondarti e che devo trattarti come una persona adulta».
Klaus fa uno scatto violento e l'anello d'acciaio gli scava nella carne, lacerandogli il dorso della mano. Si lascia sfuggire un verso sofferente mentre una goccia cremisi gli scivola sotto la manica.
«Aspiri a diventare il nuovo Capitan Uncino, per caso?» Notando che non intende desistere, gli afferro il braccio sinistro e lo blocco. «Sei mancino. Potrebbe servirti in futuro, questo».
Per un secondo, i suoi occhi si incastrano nei miei e posso leggere il tormento che offusca il grigio delle sue iridi. Un dolore più profondo di quello fisico.
«Non toccarmi» sibila, distogliendo lo sguardo.
Malgrado la voce permeata di rabbia, ho la sensazione che sia più una richiesta disperata, che un ordine perentorio.
Ritraggo il braccio, ma non smetto di fissare il profilo del suo viso. Mi chiedo se riuscirei a catturare il suo fascino in un dipinto: la curva della mascella, la punta arrotondata del naso, i lineamenti morbidi e precisi, la ciocca bionda che gli ricade sulla fronte...
Klaus si volta verso di me, perplesso. «Perché mi stai guardando?»
Mi riscuoto dai miei pensieri e, di colpo, avverto un insolito calore propagarsi sulle guance. Un moto di profonda frustrazione mi assale: Keeley Storm non arrossisce.
Scrollo le spalle con forzata indifferenza. Devo cambiare argomento. «Cosa ti ha detto Alizée, ieri, nel suo studio?»
La sua espressione si indurisce, la curiosità spazzata via da un'ombra cupa. «Ti sembra il momento adatto per questa discussione?»
«Beh, non puoi muoverti». Accenno alle manette. «Quindi sì, è il momento perfetto».
«Non sono affari tuoi» taglia corto, sferzante.
Gonfio il petto, indignata. «Lo sono, invece. Se ti ha parlato di me, voglio...»
«Non abbiamo parlato di te». Klaus rilascia uno sbuffo venato di acido sarcasmo. «Può stupirti, ma non sei al centro dell'universo».
Ogni parola è un pugnale che mi affonda nel cuore, ma mi impongo di restare impassibile. Anzi, decido di concentrarmi su un sentimento diverso, qualcosa che faccia meno male.
La rabbia.
«Ah! Allora stai solo sperimentando nuovi aspetti della tua personalità». Gli mostro un pollice all'insù. «Sappi che quello di bastardo ti riesce benissimo».
La sua bocca si increspa in un sorriso agghiacciante, che non ha niente di gioioso. «Giusto. Preferisci i ragazzi timidi e impacciati, vero?»
Un altro colpo che mi trapassa, ma questa volta non riesco a trattenere lo sgomento. «Tu... tu lo sai?» sussurro scioccata.
«Sono curioso». Si getta contro lo schienale, osservandomi con un cipiglio ostile. Un misto d'ironia, amarezza e tristezza guerreggia sul suo volto. «È un gioco anche con Simon, oppure sei davvero interessata a lui?»
Mi ammutolisco, dilaniata dal senso di colpa come un ramo spezzato dal vento. Un sapore acre mi riempie la bocca e impiego qualche secondo a capire che mi sono morsa il labbro con troppa forza.
È possibile che sia tanto arrabbiato solo per questo?
E come diavolo l'ha scoperto Alizée?
Lui arcua un sopracciglio con fare divertito. Ma nel suo sguardo è impressa una delusione che sconfina nell'angoscia. «Nessuna battuta pronta?»
È la goccia che fa traboccare il vaso, consumando i pochi residui di calma che mi erano rimasti.
Con un gesto improvviso, mi alzo in piedi e serro i pugni lungo i fianchi, il corpo percorso da fremiti furibondi. La rivista cade ai miei piedi, sul pavimento.
«Ho baciato Simon perché lo volevo, okay?» grido con un tono pregno di cattiveria. «Probabilmente, usciremo anche insieme».
D'un tratto, mi accorgo che voglio ferirlo. Ho bisogno di fargli provare lo stesso veleno che mi scorre nelle vene da tanto tempo. Così tanto che è diventato parte di me, fuso al mio sangue.
«E hai ragione: tu sei una sfida interessante, sfregiato. Nient'altro». Mi chino e gli sfioro la cicatrice, notando i muscoli del suo collo tendersi nervosamente. È così caldo che sembra scottarmi. «Mi piace l'effetto che ti fa, quando ti tocco. So che hai paura, ma so anche che lo vuoi. È eccitante».
Con una maschera di risentimento sulla faccia, Klaus scaccia via la mia mano e mormora freddamente: «Se sei sola, Keeley, forse è perché te lo meriti».
Arretro di un paio di passi, barcollando. Mi sento come se mi avesse appena scagliato addosso una freccia più affilata di quanto credessi possibile.
Una risata rauca ci coglie tutti e due alla sprovvista, facendoci girare in direzione della porta. Adesso, è spalancata e una figura possente si staglia sull'uscio, studiandoci con le braccia incrociate sul petto.
«Scusate, ma i drammi adolescenziali sono troppo esilaranti» ridacchia Adam Greyson.
Scocca un'occhiata complice alla donna della sicurezza, di fronte all'ascensore, che ha assistito al nostro litigio. Lei ribatte con un cenno vago, senza scomporsi.
«Se davvero l'agenzia è mia, tu sarai il primo che farò licenziare» borbotto irritata.
Di sbieco, scorgo Klaus fare una smorfia confusa. Non può sapere a cosa mi riferisco, dato che non gli ho raccontato cos'è successo. Mi sono limitata a dire che il tesserino non era valido e non ho potuto accedere agli archivi.
Non sono riuscita a spiegare che Alan mi ha mentito sul suo lavoro... probabilmente, anche sulla sua identità. In effetti, tutto di lui potrebbe essere una bugia.
E la consapevolezza di aver vissuto quattro mesi con uno sconosciuto è terrificante.
«Prego, Storm». L'uomo si scosta dalla porta, indicando un punto alle proprie spalle. «Il direttore vuole parlarti».
Klaus tenta di sollevarsi così bruscamente che le manette gli si conficcano ancora più a fondo nel polso. Un rivolo di sangue zampilla da un taglio profondo, ma non sembra neanche percepire il dolore.
«No!» Con l'altra mano, mi afferra per il gomito e mi tira dietro di sé. «Da sola, no! O vengo anch'io, o niente!»
Per un attimo, ho quasi l'impressione che sia preoccupato per me, ma sarebbe ridicolo e scarto subito l'ipotesi.
Adam fa spallucce. «Allora niente».
Con un movimento secco, mi divincolo alla presa di Klaus. «Non ho bisogno della tua protezione!» esclamo stizzita, portandomi fuori dalla sua portata.
«Non ci provare neanche, Keeley». C'è una sfumatura, nella sua voce, che fatico a riconoscere, tanto è inaspettata. Non mi sta minacciando... mi sta pregando.
Ma scelgo di non accorgermene. «Non darmi ordini».
La sua risposta è tagliente, ma lo sguardo che mi rivolge ha qualcosa d'implorante. «Brutto quando lo fanno a te, eh?»
Lo supero con una spallata, passo di fronte ad Adam e mi incammino oltre la soglia, nel breve corridoio popolato di ombre. Quando sento la porta richiudersi dietro di me, lo stomaco mi si contrae per l'agitazione.
Mentalmente maledico il mio orgoglio e proseguo, scortata dall'eco dei miei stivali che picchiettano sul marmo.
D'istinto, le mie dita esplorano la tasca e avverto il bacio freddo del metallo sui polpastrelli, ma è soltanto quella chiave.
Se almeno avessi il mio coltellino...
Sul fondo un mantello di luce si stende su tre lunghi gradini. Li scendo e mi ritrovo in una stanza ampia e luminosa.
La parete esterna è occupata interamente da una vetrata che si affaccia sul cielo plumbeo, denso di nubi gorgoglianti che divorano il sole.
I vivaci arazzi variopinti a motivi geometrici, le statuette di animali esotici sugli scaffali e il banano al centro suggeriscono uno stile africano. Tuttavia i vasi di porcellana dipinti di blu e bianco, posti sui pilastri, conferiscono all'ufficio un tocco orientale.
«Keeley Storm, benvenuta!»
Prima di rendermene conto, sto già stringendo una mano grande il doppio della mia che minaccia di strapparmi l'arto dalla spalla.
Frastornata, osservo l'uomo a cui appartiene. È sulla sessantina, con la carnagione scura come ebano e ciuffi di capelli canuti che gli spuntano sulla nuca e intorno alle orecchie. Indossa un elegante completo nero, con la pancia gonfia e sporgente sotto la camicia. Il fisico robusto è accentuato dalla bassa statura, alla quale poco compensano i grossi tacchetti delle sue stringate.
«Io sono il direttore Salim Okri» si presenta, sfoderando un sorriso affabile. «È un vero piacere conoscerti!»
«Rivorrei il mio braccio. Tutto intero, se possibile».
L'uomo fa una risatina. «Adam mi aveva detto che sei una tipetta simpatica» commenta con scoppiettante entusiasmo.
Finalmente, scioglie la morsa e mi sferra due energiche pacche sulla schiena che mi fanno piegare in avanti.
Infine, si volta e torna sulla sedia di rattan, dietro la scrivania in legno di noce. Accanto al computer, è posizionata una caraffa di cristallo piena di liquido rosso con cubetti di ghiaccio. Sul lato opposto, disposti alla rinfusa, si ammassano disordinate pile di documenti e registri rilegati in pelle.
«Somigli molto a tua nonna, sai? A parte per i capelli, certo» esordisce Salim, sventolando l'indice a mezz'aria. «O anche a tua madre, sì sì».
Roteo gli occhi. «Wow, non me l'aveva mai detto nessuno».
Indica la sedia dallo schienale in canna naturale, dirimpetto alla scrivania. «Non vuoi accomodarti?» chiede speranzoso.
Scuoto la testa, squadrandolo con diffidenza. «Chi sei? Come sai queste cose della mia famiglia? Perché volevi parlarmi? E...»
Solleva una mano per fermarmi e il sorriso sul suo volto paffuto e rotondo si allarga. «È meglio che tu faccia una domanda per volta».
«L'Omino Michelin al tuo servizio ha detto che la Walker Agency è mia. È vero?»
«Sì... e no».
Mi lascio sfuggire un verso simile ad un grugnito. «Ora è tutto più chiaro, grazie».
«Legalmente, l'agenzia appartiene ad un ricco magnate che si fa chiamare Chris Ivory. Ma è solo uno pseudonimo» mi spiega in tono cordiale. «Essa però spetterebbe a te, in quanto nipote della sua fondatrice».
«Cosa?»
Salim apre il cassetto e ne estrae un paio di pregiati calici in bronzo, con pietre in resina, di chiara fattura cinese. «Perché pensi che si chiami "Walker" Agency?»
«Non saprei... a qualcuno piaceva camminare?»
A giudicare dalla sua espressione, deve essere certo che io stia scherzando. Ma poi coglie il mio sguardo smarrito. «Davvero non sai che il cognome di tua nonna, da nubile, era Walker?»
Ovviamente, mio padre mi aveva parlato di mia nonna, ma si era sempre riferito a lei come "Keeley Miller". Lo stesso nome di famiglia di mia madre.
Non mi ero mai soffermata a pensare a quello che aveva prima di sposarsi.
Sbatto le palpebre, incredula, e osservo l'uomo riempire i calici della bevanda fresca nella caraffa. Aggiunge dei fiori presi da un vasetto, per aromatizzarla, e me ne porge uno.
«È bissap» dice, in risposta alla mia occhiata interrogativa. «Tipica del Senegal, ma si beve molto anche in Africa nelle occasioni speciali. Analcolico, tranquilla».
«Non era certo un problema, quello».
Mi avvicino e prendo la coppa, annusandola. Una forte fragranza d'ibisco mi invade le narici, unita all'aroma di qualche frutto tropicale. «Come conoscevi mia nonna?»
Gli occhi di Salim si accendono come le luci di un albero di Natale. «Era mia grande amica fin dall'infanzia e fu lei a darmi questo lavoro. Le devo molto». Man mano che parla, la sua voce si fa acuta, grondante di gentilezza. «Ho incontrato spesso anche tua madre, quando era piccola. Elaine, se non sbaglio... una bimba adorabilmente testarda».
Una fitta mi attraversa il cuore e le mie ginocchia rischiano di cedere. Sono costretta a sedermi, stando attenta a non rovesciare il calice.
Non è giusto.
Non è giusto che lui abbia potuto conoscerla, e io no.
«Ho visto anche suo fratello, ogni tanto» prosegue Salim allegramente, bevendo un sorso di bissap. «Ma era così timido, quel ragazzino, che...»
Assottiglio le palpebre, corrucciata. «Peccato che mia madre fosse figlia unica».
La nota d'accusa nel mio tono non intacca il fervore dell'uomo, che riprende con lo stesso calore affettuoso. «Biologicamente, certo. Ma Peter era suo fratello adottivo».
«Peter?» ripeto imbambolata.
«Sono quasi certo che si chiamasse così» obietta dubbioso. «A sette o otto anni, era rimasto orfano, dopo il crollo del centro commerciale a Baker Street. Non so se ne hai sentito parlare».
Annuisco, tornando a ieri pomeriggio, alla mia conversazione con Kal al Lucky House.
Aveva accennato ad un bambino che aveva perso i genitori in quell'incidente...
«Sarebbe andato in orfanotrofio, ma Keeley, cioè tua nonna decise di prenderlo con sé. Fu allora che ebbe l'idea di fondare un'agenzia che avesse come unico scopo quello di salvare i giovani meno fortunati e dare loro una nuova famiglia».
Lo ascolto a malapena, con la mente annebbiata che lotta per metabolizzare un concetto tanto semplice: ho uno zio.
"Uno zio a cui non importa niente di me" penso con amarezza. "Uno zio di cui mio padre non mi ha mai parlato".
«Dovette spendere gran parte del suo patrimonio, ma alla fine il suo sogno divenne realtà. E nacque la Walker Agency». Salim intreccia le dita sulla scrivania con aria compiaciuta. Il suo calice è già vuoto. «Alla sua morte, l'agenzia passò a tuo nonno fino a che Elaine raggiunse la maggiore età e ne prese le redini. Poi, purtroppo, è venuta a mancare. Sapevamo che aveva una figlia, ma tuo padre era scomparso, portandoti con sé».
Prendo un assaggio dal mio bicchiere. Il sapore acidulo della maracujà è sovrastato dall'essenza dell'ibisco e c'è un retrogusto d'ananas. Il liquido ghiacciato mi colpisce i denti, ma mi aiuta a risvegliarmi dall'inerzia causata dallo stupore.
«Cos'è successo a mio... insomma, al fratellastro di mia madre?» domando sconcertata. «Fammi indovinare: è morto».
«Per quanto ne so, no. Peter lasciò Sunset Hills per studiare in un college all'estero. O, almeno, era quella la scusa: si diceva che lo avesse fatto per colpa di una brutta relazione con un ragazzo violento».
Inarco un sopracciglio. «Un ragazzo?»
«Era omosessuale, sì».
«L'avevo capito. Intendevo: che ragazzo?» preciso.
Salim scuote il capo e noto che porta un piccolo crocifisso intorno al collo, seminascosto dalla camicia. «Comunque, Peter tornò in città per il matrimonio dei tuoi genitori. Fece da testimone a tuo padre, il che era abbastanza ironico, visto che non andavano molto d'accordo».
«Perché no?»
Mi fa un cenno con la mano, che interpreto come un altro "non lo so". «In seguito a quella disgrazia, Peter se ne andò, questa volta definitivamente. Non ho idea di che fine abbia fatto». Il suo volto si rattrista e mi lancia un'occhiata desolata. «Mi dispiace. Io non ero presente alle nozze e non so come sia andata, ma è terribile. Davvero terribile».
Un groppo mi si forma in gola e devo schiarirla per recuperare la voce. Mi auguro solo che non suoni troppo incrinata. «Già». Stringo forte la foto nella mia tasca, immaginando che sia la mano di mio padre. Calda, morbida e sicura. «Ci saranno delle foto, no? Di Peter. Al matrimonio ne avranno fatte».
«Possibile. Ma dovresti chiederlo ad Alizée».
Aggrotto le sopracciglia. «Lei c'era?»
«Ma certo! Lei, suo marito e il piccolo William!» risponde, come se fosse la cosa più ovvia del mondo. «Alizée era la damigella d'onore, come Elaine lo era stata per lei. Erano migliori amiche da sempre, dopotutto».
Per un minuto, rimango a bocca spalancata. Poi esplodo. «Alizée e mia madre? Amiche? Migliori amiche?»
Salim fa un cenno d'assenso, interdetto per il mio stupore quasi palpabile.
Non mi ha adottata per Elizabeth... ma per mia madre.
Perché le voleva bene.
«Ma Alizée» balbetto in difficoltà, «conosceva anche... anche mio padre... giusto?»
Un sorriso bonario affiora di nuovo sulle sue labbra. «Era inevitabile. Alizée aveva una forte legame con Michael Waylatt, che era...»
«Amico di mio padre» completo.
«Amico è riduttivo, direi». Salim emette un sospiro beffardo. «Tuo padre aveva seri problemi con i genitori. E, fin da piccolo, fu la famiglia Waylatt a prendersi cura di lui, tanto che aveva addirittura una stanza tutta sua a casa loro».
Fa una breve pausa per prendere un astuccio in pelle di bufalo dalla tasca interna della giacca. «Michael lo seguiva praticamente ovunque e finiva di continuo trascinato nei suoi... pasticci, ecco. Molti lo definivano l'ombra di Maxwell Storm».
Secondo Gladys, era stato Michael, ad un certo punto, a portare mio padre su una cattiva strada. Ma, stando a ciò che ha detto Salim, dovevano conoscersi da tutta la vita. E, in ogni caso, sembra più probabile il contrario.
Di colpo, mi ricordo la vera ragione per cui sono venuta a Clayton.
«Se non hai altri dubbi, vorrei chiederti io qualcosa». L'uomo apre l'astuccio e ne tira fuori un sigaro Montecristo, continuando a sorridermi. Credo che abbia una paralisi facciale. «Come la ragione per cui sei qui... con Klaus Waylatt».
C'è qualcosa di ammonitorio nel modo in cui pronuncia il suo nome. Neanche fosse un oscuro presagio.
Esito per un secondo, piegando la testa di lato. «Perché dovrei fidarmi di te?»
«Non dovresti, infatti».
«Che gran discorso di persuasione. Mai pensato di candidarti a presidente?»
Salim taglia l'involucro della testa del sigaro e comincia a ruotarlo sulla fiamma dell'accendino. «Sto rischiando molto, Keeley, anche solo a parlare con te. Ma sento di doverlo a tua nonna». Un fiotto di fumo si spande tra noi e mi ritraggo per evitare di inalarlo. «Per questo non ho voluto il ragazzo, qui».
«O potresti essere uno dei cattivi» lo incalzo scettica.
«Non esistono buoni e cattivi, piccola Storm. Solo persone che fanno i propri interessi».
Storco il naso al nomignolo che mi ha affibbiato: "piccola".
Ma non posso non riflettere sulle sue parole: di conseguenza, anche lui potrebbe agire per il suo tornaconto. Non so se questo sia un bene oppure no, per me.
Tuttavia dubito di avere molta scelta.
«Cerco una donna che lavorava per l'agenzia» confesso in un sussurro. «Gladys Turner».
L'uomo dà una lunga boccata, girando il sigaro. «Il suo vero nome è Gladys Mitchell. Si è licenziata circa sette anni fa, quando la Walker Agency è passata sotto la gestione di Chris Ivory. Da allora non ho più sue notizie».
È lei.
Klaus aveva ragione: Gladys è la donna buona.
Mi alzo rapidamente e ripongo il calice, ancora quasi pieno, sulla scrivania. Il cuore prende a tamburellarmi nel petto. «Hai una sua foto?»
«Gli archivi vengono cancellati ogni cinque anni. E, anche se fosse rimasto qualcosa, non potrei aiutarti». Un lampo tetro guizza nei suoi occhi scuri. «Non sei l'unica a cercarla, Keeley».
Un brivido mi scende lungo la colonna vertebrale. «E tu non vuoi essere coinvolto».
«C'è un limite anche alla gratitudine, temo». Sembra sinceramente dispiaciuto, ma determinato.
«Beh, grazie di tutto, amico. Potresti essere stata la persona più sincera con me negli ultimi diciassette anni» replico mesta.
Mi volto, ma ho fatto solo pochi passi che la sua voce richiama la mia attenzione.
«Se mai vorrai rivendicare la tua agenzia, Keeley, sappi che avrai tutto il mio appoggio. Grazie a te, potrebbe tornare a fare qualcosa di buono».
Non insisto per sapere che cosa significhi... so già che non mi risponderebbe.
Riprendo a camminare e ho appena posato il piede sul primo gradino, quando vengo colta da una curiosità alquanto frivola.
Lo guardo da sopra la mia spalla e dico: «Ma quindi sono ricca sfondata?»
Salim Okri abbozza un sorriso, il sigaro imprigionato tra le labbra. «La Walker Agency non ha scopo di lucro».
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