38. WALKER AGENCY
Se qualcuno mi avesse detto che un giorno mi sarei svegliata alle cinque e mezza di domenica, di mia spontanea volontà, gli avrei chiesto il nome del suo spacciatore.
Devo fare appello ad ogni briciolo di forza di volontà per trascinarmi fuori dal letto. Per fortuna, ieri sera mi sono addormentata con i vestiti addosso, altrimenti so già che avrei fatto tutto il viaggio fino a Clayton in pigiama.
A quest'ora, nessun essere umano potrebbe mai aver voglia di cambiarsi.
Dopo essermi accertata che il coltellino sia al suo posto, in tasca insieme alla foto dei miei genitori e qualcos'altro, prendo il telefono e lancio un'occhiata invidiosa alla gatta acciambellata sul cuscino.
«Maledetto ammasso di polvere» borbotto con uno sbadiglio.
Mi infilo il giubbotto, i guanti e un paio di stivali e, sepolta sotto una sciarpa e un berretto di lana, spengo l'abat-jour ed esco dalla camera. Richiudo piano la porta e attraverso il corridoio con il passo più felpato di cui sono capace.
Quando passo davanti alla sua stanza, lo stomaco mi si contrae mentre il ricordo di quel messaggio riaffiora nella mia mente.
Ho continuato a rileggerlo per un'ora, lottando contro le lacrime che mi annebbiavano la vista, fino a che sono sprofondata in un sonno tempestato di incubi. Solo stamattina, però, mi sono accorta che stavo stringendo la sua giacca, quella che mi ha dato al ballo.
Ormai, ho imparato a memoria ogni singola frase. Ho provato più volte ad immaginare di sentire la sua voce, adornata da quel bellissimo accento inglese, che le pronuncia, ma invano.
Non c'è niente del Klaus che conosco in quelle parole.
Anche se mi ripeto che, forse, Alizée potrebbe averlo costretto, magari per allontanarlo da me, questo non lo rende meno doloroso.
Eppure, in fondo, dovrei essergli grata: avevo già deciso che non volevo provare nulla nei suoi confronti, che non potevamo stare insieme.
Lui me l'ha soltanto reso più semplice... ma allora perché mi fa così male?
Dopotutto, non è la prima persona che mi sbatte in faccia che non siamo amici. Non ne ho mai avuti, e non mi è mai importato... più o meno.
Ma ciò che non riesco a sopportare è che creda di essere stato soltanto una sfida per me.
E il timore che possa aver ragione mi tormenta. Magari, provo davvero l'impulso di toccarlo, di accarezzarlo solo perché mi piace il fatto di essere l'unica a cui lo permette.
Di certo, non posso negare di essere stata felice, quando ho scoperto da Eileen che a nessuna ragazza era mai spettato il privilegio di baciarlo.
Significa che l'ho trattato come un giocattolo?
Scuoto la testa, scacciando quel pensiero come se fosse una mosca fastidiosa, e inizio a scendere le scale. La caviglia è ancora intorpidita e, ogni volta che sposto il peso sulla gamba sinistra, brucia leggermente.
Nella villa domina un'atmosfera incantata, immersa in un silenzio surreale e rischiarata dalle prime luci dell'alba, che getta un velo di soffusi bagliori dorati dalle finestre.
Il passaggio interno che conduce al garage si trova sul retro, non lontano dalle cantine, collegato attraverso un cunicolo rivestito di pannelli di mogano intarsiato. Dalle pareti sporgono piccole lampade con sensore di movimento, che si accendono man mano che procedo lungo il sotterraneo.
In fondo, si trova un portone in legno massiccio con borchie di metallo. È socchiuso e, dallo spiraglio, sibilano spifferi d'aria calda, simbolo che il riscaldamento è acceso.
Esito per un secondo, la mano sulla maniglia, e prendo un respiro di incoraggiamento.
L'esperienza mi ha insegnato che il modo migliore per affrontare il dolore è fingere che non esista.
Devo concentrarmi sulla sola cosa che è davvero importante: scoprire la verità.
Quando entro nel garage, rimango sbalordita dal numero improponibile di vetture di lusso di proprietà degli Hallander. Anche se le ho già viste, non è facile abituarsi a tanto sfarzo.
La figura imponente della limousine troneggia al centro, brillando di un bianco perlaceo sotto le barre luminose a led appese al soffitto.
Ai lati, sono disposte le splendide auto sportive: la Maserati blu elettrico, la Ferrari con le fiamme disegnate sulle fiancate, la BMW serie 4 Coupè di Eileen, la moto luccicante di diamanti di Simon, una Chevrolet Camaro argentata.
In un'ala separata dello scantinato, sono conservate anche un paio di mezzi d'epoca di cui però non riconosco i modelli.
Curiosamente, l'angolo riservato alla Lamborghini Aventador di Edric è vuoto.
Sulle prime, mi indirizzo verso la Porsche, ma poi noto che i fanali della Corvette di Alaric sono accesi e mi avvicino.
Sobbalzo quando Klaus emerge da dietro una colonna con un movimento furtivo, cogliendomi alla sprovvista. La sua capacità di muoversi senza fare il minimo rumore è inquietante.
«Cavolo!» esclamo con la mano sul petto. «Ma sei stato allievo di maestro Shifu, per caso?»
Per qualche ragione, dopo ieri sera, sospettavo che mi sarebbe sembrato arrabbiato o triste.
Invece, nel suo sguardo non c'è assolutamente niente: l'argento fuso nelle sue iridi si è tramutato in una cortina di duro piombo, così scuro da apparire quasi nero.
Nessuna emozione scalfisce la maschera gelida calata sul suo volto, ma i lievi aloni che gli cerchiano gli occhi tradiscono la stanchezza di una notte insonne.
In questo momento, complice anche la carnagione ancora più pallida del normale, è più che mai il figlio di Alizée.
Mi fissa di sottecchi, soffermandosi sul mio abbigliamento, così pesante che si potrebbe pensare che stia andando in Alaska, ficcando la mano libera nella tasca dei pantaloni. L'altra, infatti, sorregge un piccolo zaino che oscilla floscio contro il suo ginocchio.
Indossa una giacca di cuoio nera aperta sopra una maglia grigia troppo grande per il suo fisico magrolino. Il risultato è che gli ricade a onde sul corpo, accentuando i suoi fianchi snelli.
«Andiamo» sibila secco. Ha la voce stranamente roca, come se avesse mal di gola.
La sua indifferenza è più tagliente di un rasoio e un moto d'irritazione mi travolge. «Va bene, ma guido io, Waylatt».
Klaus si irrigidisce all'istante e assume un'espressione tetra, la mascella contratta. Tuttavia si limita ad annuire e si getta sul sedile del passeggero, sbattendo con foga la portiera.
"Ti ho ferito?" penso tra me. "Bene, ora sai cosa si prova!"
Ignorando la fitta di senso di colpa, mi siedo al posto del conducente e, con uno sbuffo sommesso del motore, l'auto si avvia verso la rampa. Quando arriviamo in prossimità di un piccolo monitor, inserisco il codice suggerito da Klaus sul tastierino e la porta comincia a scorrere lateralmente tramite i rulli sul pavimento.
Accolgo con sollievo il panorama del cielo vestito di stracci gialli e arancioni in cui il sole nascente spunta sopra la linea dell'orizzonte, avvolto da tonalità infuocate.
Una miscela di colori caldi si mescola al gelo bianco della neve, che invade il giardino in un contrasto fuso alla bruma vacua del primo mattino.
Non esiste niente di più rilassante che sfrecciare su una ruggente Corvette per le strade deserte di una città sopita. Le uniche forme di vita, a parte noi, sono la solita vecchietta e il suo cagnolino che scompare in un enorme maglione rosa confetto.
L'atmosfera è rovinata però dal silenzio teso, opprimente e bruciante come una cappa d'afa estiva, che neanche la canzone di Vasco Rossi pescata dalla mia playlist riesce a colmarlo.
Dopo quindici minuti d'angosciante attesa, decido di porre fine a quel supplizio.
«Cosa c'è nello zaino?»
Klaus scrolla le spalle, scansando una lattina vuota con il piede. Si china sullo zaino, stretto tra le sue gambe, e ne estrae dalla tasca superiore un paio di auricolari, che collega al telefono.
«Sei serio? Vuoi fare tutto il viaggio così?» replico stizzita. «È una reazione eccessiva. Mica ho messo Pino Daniele».
Senza emettere un verso, infila le cuffiette nelle orecchie. Piega la testa fino a premere la tempia contro il vetro e abbassa le palpebre, continuando a rigirarsi l'anello degli Hallander intorno all'indice.
Ha un'aria stremata che mi preoccupa più di quanto mi piaccia ammettere e trema lievemente, come se fosse infreddolito.
Una parte di me vorrebbe parlargli, capire se sta bene, invece non proferisco parola e attivo l'aria condizionata.
Klaus mi sbircia tra le ciglia dischiuse con un'espressione interrogativa, alla quale rispondo con un bofonchiato: «Avevo freddo».
Quando superiamo il cartello sbilenco che segnala il confine di Sunset Hills, a poco a poco il paesaggio cittadino cede il posto alla natura.
Distese innevate contornate da una vasta foresta di abeti e larici incappucciati di bianco, che si inerpica su colli simili alle gobbe di tanti cammelli.
Dalla crosta di un laghetto congelato spunta un tronco contorto che un castoro è intento a rosicchiare, forse per ricavarne il legno per la sua tana. Il disco solare, ormai sempre più alto, si staglia sulla sua superficie, creando un suggestivo gioco di luci con l'acqua imprigionata sotto la patina di ghiaccio.
Grazie al GPS incorporato, non ho troppe difficoltà a conoscere la strada, malgrado un senso dell'orientamento così pessimo che mi perderei anche da ferma.
La quasi totale assenza di traffico mi rassicura e allenta un poco la morsa d'ansia che mi serra lo stomaco. Nonostante ciò, i miei sensi sono vigili e non posso fare a meno di stringere nervosamente il volante con le dita sudate.
Sono le tre ore più lunghe della mia vita, trascorse a dare pugnetti sulla spalla a Klaus quando vedo una macchina gialla. E, più tardi, anche ad inveire contro gli altri conducenti, che iniziano a spuntare timidamente man mano che si fa mattino inoltrato.
Dall'incidente, non ho mai passato così tanto tempo in auto. E la consapevolezza che sto tornando nella città in cui ho perso tutto non può che peggiorare il mio umore.
Forse per la fretta di arrivare a destinazione, decido di non fare neanche una sosta.
Alle nove e un quarto, Clayton ci accoglie tra i suoi palazzi, nel cuore di una lotta infinita contro una vegetazione ribelle che non è mai stata debellata. Piccoli boschi e tenute lussureggianti punteggiano il grigio delle costruzioni umane, chiazze verdi disperse tra negozi, villette a schiera e grattacieli.
Ogni anno, frotte di animalisti si oppongono ai ricchi industriali, che premono per l'urbanizzazione, in difesa della fauna selvatica con cui gli abitanti locali hanno ormai imparato a convivere.
Nei sette anni che ho vissuto qui, ho assistito a decine di parate e di manifestazioni e mi sono abituata a vedere capre e cervi che passeggiano indisturbati per le vie meno trafficate.
Mi fermo ad una stazione di servizio, attirata dall'insegna sudicia che recita "Una risata, un dollaro".
Accosto nello spiazzo laterale in cui sono già parcheggiate mezza dozzina di auto e una Jeep malandata, vicino ad un distributore di benzina in disuso.
Klaus apre gli occhi, leggermente arrossati, e li stropiccia con le nocche come un bambino.
Sbadigliando, solleva la testa e si sfila le cuffie mentre si guarda intorno con la fronte aggrottata, visibilmente disorientato.
«Buongiorno, Bell'Addormentato» borbotto ironica.
Appena si volta verso di me, noto che i capelli biondi gli si sono appiattiti nel punto in cui è stato appoggiato al finestrino.
«Siamo già arrivati?» sussurra con voce rauca.
Annuisco e tolgo le chiavi. «Dormivi così profondamente che ho temuto di doverti fare l'autopsia per scoprire le cause della tua morte prematura».
Si schiarisce la gola con una smorfia e accenna al grill che si staglia davanti a noi. «Ma dove siamo?»
«Ho fame» ribatto, aprendo lo sportello. «Non posso mica fare spionaggio aziendale a stomaco vuoto».
Affondo gli stivali nello strato candido alto fino a metà polpaccio, e mi stiracchio, godendomi le carezze di un venticello mite che soffia da nord.
Di sbieco, intravedo un grosso pickup fermo sul ciglio della strada, il motore ancora acceso e i vetri oscurati.
Dato che Klaus è ancora immobile sul sedile, mi sporgo di nuovo dentro la Corvette. «Aspetti l'invito della nonna di Cappuccetto Rosso?»
«Non ho fame». Si passa una mano sul viso esausto. «Sbrigati».
«Vieni anche tu» ordino. «Devi spiegarmi il piano per entrare alla Walker Agency, ricordi?»
Al suo sguardo rassegnato, sfodero un sorriso di trionfo, ma le parole che pronuncia lo fanno evaporare come la neve sugli alberi sotto il calore del sole.
«Tutti devono sempre fare ciò che dici tu, eh, Storm?» obietta con amarezza, afferrando lo zaino.
Incasso il colpo con stoica, quanto forzata, noncuranza. Soprattutto perché è innegabile che abbia ragione.
Forse, anch'io ho qualcosa in comune con Alizée, pur non essendo sua figlia... non dovrebbe sorprendermi che non voglia essere mio amico.
Mi costringo a tornare alla realtà e mi accorgo che Klaus è sparito. Mi giro e lo seguo di corsa, riuscendo a raggiungerlo a metà della spirale di gradini di ferro.
Lo affianco e sbotto furiosa: «Mi spieghi cosa diavolo hai?»
«Non so di cosa parli».
Klaus accelera il passo e varca la porta a rapide falcate, accompagnato dal tintinnio di un campanello.
Entro a mia volta e l'odore acre di fumo e benzina che aleggia nel locale mi provoca uno starnuto.
All'interno, l'ambiente è spoglio e disadorno. Le uniche decorazioni, piuttosto inquietanti, sono gli animali impagliati esposti sui muri dalla vernice scrostata. Dietro al bancone di cedro rovinato, si trovano poster sbiaditi di riti occulti o satanici e, in una vetrina, sono esposti articoli di dubbia natura -bruciatore di incenso, pendolo per divinazione, calendario degli incantesimi- a disposizione dei fanatici di esoterismo.
A parte noi, ci sono una ventina di clienti al massimo, ma nessuno presta attenzione al nostro arrivo, eccetto una signora anziana con enormi occhiali a mosca che ci osserva da sopra una rivista.
Mi piazzo di fronte a Klaus con le mani sui fianchi. «Sei arrabbiato con me».
«Non è vero» dice freddamente.
«Beh, lo sembri».
«Beh, non lo sono».
Klaus mi supera e si accascia sulla panca di legno nell'angolo più buio e isolato. Prima che mi avvicini, ha già sistemato lo zaino accanto a sé, in maniera tale che non possa sedermi al suo fianco.
La mia certezza che il vero problema sia Alizée sta iniziando a vacillare.
Se è obbligato a comportarsi in questo modo, per quale ragione il suo risentimento nei miei confronti sembra tanto... spontaneo?
«Penso che ci servirebbero dei nomi in codice» sentenzio, prendendo posto di fronte a lui. «Io voglio chiamarmi Firenze. E tu sarai Londra, ovviamente».
«Che?» commenta confuso.
«È un riferimento alla Casa di Carta». Faccio un cenno al cameriere. «Mai sentito nominare "El profesor"?»
«No».
«Cosa?!» esclamo allibita. «Ma che guardi in TV, le Winx?»
Klaus mi ignora e getta un'occhiata al coyote impagliato che ulula al soffitto, storcendo il naso. «Che cosa disgustosa» mormora.
Sciolgo il nodo della sciarpa e poso i guanti sul tavolo traballante. «Il vecchio proprietario era amante della caccia e la praticava spesso anche nelle zone in cui era vietato. Tutti lo sapevano, ma nessuno aveva le prove.
Alla fine, è stato denunciato perché dava da bere ai minorenni e spacciava».
«L'hai denunciato tu, vero?»
«Certo» ammicco. «So che ora questo posto è di un certo Joe. Un tipo simpatico».
«Lo conosci?» obietta, inarcando un sopracciglio.
Scuoto il capo. «No, ma se si chiama Joe deve essere simpatico per forza».
«Magari fosse così facile capire la personalità di qualcuno».
Senza riflettere, la domanda mi sfugge dalle labbra. «Chi ha scelto il tuo, di nome?»
Klaus si stringe nella giacca, tirandosi su la zip fino al collo. Ho la sensazione che stia evitando di incrociare i miei occhi. «Non lo so. Credo mia madre».
Di colpo, un lieve rossore si propaga sulle sue guance e aggiunge in un timido sussurro: «Cioè mia zia. Ma la chiamavo mamma e a lei non dava fastidio, quindi...»
C'è qualcosa di così tenero e fragile nel suo tono che mi fa desiderare di poterlo abbracciare.
È come se finalmente nella sua maschera si fosse aperto uno spiraglio del vecchio Klaus. Quello vero, quello che stavo per baciare sull'amaca, quello che...
«Cosa vi porto?» soggiunge il cameriere, ridestandomi.
«Tre cornetti: uno al cioccolato, uno alla fragola e un altro alle noci. E un cappuccino con la cannella». Mi gratto il mento. «E anche alcuni bignè. Anzi, un bombolone». Sventolo un dito a mezz'aria. «No, ho cambiato idea: bignè e bombolone. Per favore, grazie».
Klaus fa una smorfia perplessa. «Ero serio quando ho detto che non ho fame».
«Lo so. È tutto per me» replico indignata. «Tu paghi».
Cinque minuti dopo, sto già addentando una brioche mentre, tra un morso e l'altro, mi getto in bocca palline ripiene di crema dal sapore fresco e gustoso.
Lanciandomi occhiate fugaci, Klaus apre lo zaino e tira fuori il suo contenuto, che poi dispiega al centro del tavolo, rivolto verso di me.
Considerate tutte le fantasiose ipotesi che ho fatto durante il tragitto su cosa ci nascondesse dentro, non posso che provare una punta di delusione.
«Mappe?» Prendo uno dei fogli dai bordi stropicciati e studio il reticolo di linee tracciate a matita con meticolosa precisione. «Tutto qui?»
«È la piantina della Walker Agency. O meglio, dei primi tre piani, quelli che ci interessano» chiarisce Klaus, sbirciando il mio croissant al cioccolato ancora intatto. «L'ho disegnata a mano e...»
«Tu?» Gli rivolgo un'espressione stupita. «E come hai fatto?»
«Ho provate a cercarla su Internet, ma non l'ho trovata. Per fortuna, l'avevo già vista, quando ci sono stato con Elizabeth». Per un attimo, un'ombra guizza nel suo sguardo, che si fissa su di me. Un contatto visivo brevissimo, eppure così potente che mi sento bruciare. «Ce n'è una all'ingresso».
«Io non mi ricordo neanche cosa abbiamo mangiato ieri sera!» Increspo le sopracciglia. «Sei umano, giusto?»
«Ho solo una buona memoria».
«E allora perché sei stato bocciato, genio ribelle?»
«Ripeto: mi sono fatto bocciare». Esala un sospiro fiacco e adocchia di nuovo il cornetto. «Ora, se mi lasci parlare, vorrei spiegarti dove si trovano gli archivi e come arrivarci».
Per poco, non sputo il boccone di bombolone per l'orrore. «Vuoi dire che devo memorizzare il percorso?»
«Sì» sbuffa contrito. «Lo farei io, ma...»
«Un Harry Potter con la cicatrice lo si riconosce subito». Scrollo le spalle. «E va bene. Mettiti comodo, sfregiato... ci vorrà parecchio».
Finisco di bere il cappuccino e, con un gesto pigro, spingo il piatto verso di lui. Sopra, sono rimasti solo un manipolo di bignè e la brioche al cioccolato.
Un'espressione perplessa affiora sul volto di Klaus, che fino ad un istante prima mi guardava torvo a causa del nomignolo "sfregiato".
«Sono piena» mento con la solita disinvoltura.
Lui esita per un istante, poi comincia a mangiare. E, anche se passo l'ora successiva ad ascoltarlo, riesco a pensare solamente a quanto vorrei odiarlo.
Peccato che sia dannatamente difficile.
***
La sede della Walker Agency è situata in un edificio elegante, nel centro nevralgico delle attività commerciali di Clayton.
Mi meraviglia che, tutte le volte che sono passata per la piazza, il suo fascino non abbia mai attirato la mia attenzione.
È un palazzo imponente, uno di quelli che spuntano dall'asfalto e si slanciano altezzosi verso il cielo terso, quasi a volerne toccare i pochi stralci di nuvole bianche come latte.
Le quattro facciate, tutte identiche, sono trapunte da file di finestre squadrate. I muri esterni sono realizzati in un particolare marmo chiamato Nero del Belgio: compatto, vitreo e così scuro che è possibile specchiarcisi. La leggera puntinatura bianca brillante, cosparsa sulla superficie, conferisce all'edificio un aspetto originale e misterioso.
«Mi raccomando: non attirare l'attenzione» ribadisce Klaus, appena entrati nella porta girevole.
«E quando mai lo faccio?»
«Più o meno, ogni volta che apri bocca».
Gonfio il petto, mettendomi sulla difensiva. «Non è colpa mia se sono un concentrato di simpatia e sarcasmo».
Klaus emette un sospiro, farfugliando: «Modestia a parte».
Lo ignoro e sfioro il tesserino di Alan per essere certa che sia ancora nella mia tasca. «E poi ho capelli blu e felpa al contrario... mi basta esistere per attirare l'attenzione».
Giunti nell'atrio, ci separiamo.
Lui si dirige ad una delle postazioni delle segretarie, disposte dietro un lungo banco in cui sono separate da sportelli di vetro lucidi.
Io, invece, mi appoggio alla colonna nell'angolo sud-ovest, ovvero nell'unico punto nascosto alle telecamere.
O, almeno, è ciò che mi ha assicurato Klaus.
La mia risposta è stata: "Spero che tu sia più bravo a fare rapine che in matematica, altrimenti ci arresteranno di sicuro".
Klaus continua a parlare, gesticolando freneticamente, mentre prende la bottiglietta d'acqua dalla scrivania. Ne beve un sorso e, senza lasciarla, riprende il discorso.
A causa del frastuono di voci, non riesco a sentire le sue parole e, in mezzo al viavai incessante di persone, lo distinguo a malapena.
Per fortuna, la sua testa bionda, quasi dorata alla luce del mattino, spicca abbastanza da aiutarmi a tenerlo d'occhio.
La donna gli sta sorridendo e, ogni tanto, annuisce, chiaramente incantata dal suo accento. E, d'istinto, penso a quanto vorrei metterle delle foglie di fico in faccia per farla smettere di guardarlo in quel modo.
«Andiamo, biondino!» sibilo tra i denti. Mi scanso per far passare un uomo vestito elegante che sembra andare molto di fretta. «Devi solo fare qualcosa di Keeleystico!»
In quel momento, Klaus dà un pugno alla scrivania e rovescia la bottiglietta, schizzando d'acqua la camicetta della segretaria e i fogli impilati vicino al suo computer.
Credo anche che abbia gridato un'imprecazione, ma non ne sono sicura.
La telecamera di destra, la più vicina a me, si punta nella sua direzione e la guardia della sicurezza, un dito premuto sull'auricolare, si allontana verso Klaus.
Finalmente!
Con passo spedito, mi inoltro nel largo corridoio bianco, cercando di mescolarmi tra la folla in movimento, seguita dal mio riflesso sul pavimento resinato.
Svolto l'angolo e passo davanti ad una piccola biblioteca di manuali che, stando ai titoli, sono dedicati ai genitori adottivi di bambini dal passato difficile.
Mi arresto di colpo, folgorata da uno dei libri in mostra intitolato "Afefobia: paura di essere toccati, o di essere amati?".
Per un secondo, sono tentata di dare un'occhiata, di sfogliarlo, ma mi costringo a ricordare la mia missione.
Proseguo lungo il tragitto che mi ha insegnato Klaus. Prendo le scale mobili e continuo lungo un ampio salone, punteggiato di sedie, panche e divanetti dall'aria scomoda. A vederla, sembra la sala d'attesa di un ospedale.
Dopo una decina di minuti, arrivo al terzo piano e rischio un infarto quando una donna dello staff -lo capisco dal tesserino- mi ferma per chiedermi se sono da sola.
Mi invento che mio padre lavora per l'agenzia, che ho saltato la scuola perché c'è sciopero e che sto cercando il bagno. Mi tengo anche una mano tra le gambe, saltellando come un canguro, per renderlo più convincente.
Seguo le sue indicazioni fino ad arrivare all'andito antistante la toilette, vicino ad un grande ascensore di metallo.
Lo aggiro e imbocco un deserto corridoio secondario illuminato da fasci di luce blu, riconoscibile grazie ad un vaso con una pianta tropicale.
È stretto, tanto da consentire a stento a tre persone di passare una accanto all'altra, ed è chiuso da una grigia porta di ferro munita di scanner.
Poiché si tratta solo di un ufficio degli archivi, la sorveglianza non è eccessiva.
«Cavolo, tutto questo fa molto Mission Impossible» sogghigno a bassa voce, passando il tesserino sul lettore di codice a barre.
Ma il sorriso si congela sulle mie labbra quando sento un "bip" acuto e la scritta in rosso sul monitor: "Accesso negato".
Faccio un secondo tentativo, e anche un terzo, ma niente. Stesso risultato.
Avrei preso a pugni lo scanner, probabilmente, se non fossi stata interrotta dal suono di passi alle mie spalle.
Mi giro di scatto e, con un sussulto, vedo la figura di un uomo in giacca e cravatta, a pochi metri di distanza da me.
Ha un fisico robusto dal ventre largo e il viso dalla fronte spaziosa, incorniciato da folti capelli brizzolati che stanno indietreggiando sulle tempie. Il mento e le guance sono cosparsi di una rada barba bianca che lo fa apparire più vecchio di quanto deve essere in realtà.
Il badge che porta sul petto recita: "Adam Greyson: capo della sicurezza".
«Salve» esordisco nervosamente. «Sono del servizio delle pulizie...» Pessima idea, mi ammonisco da sola. «E non ho niente per pulire perché... scherzavo. In verità, sono una tecnica informatica. Già».
Solo allora noto che mi sta fissando con uno sguardo strano che, dall'alto della mia arroganza, potrei scambiare quasi per... ammirazione.
«Vieni con me». La sua voce è fredda e autoritaria. «Il direttore vuole parlarti, Keeley Storm».
Un brivido gelido mi percorre la schiena e la mia mano accarezza il coltellino attraverso il tessuto. La sua presenza è rassicurante.
«Come sapete chi sono?» obietto interdetta. «Sono famosa, ma non esageriamo».
Quando l'uomo inizia ad avvicinarsi, arretro fino a sbattere la schiena contro la porta. La mia mano sta già per volare al coltellino, ma poi lui si blocca e raccoglie qualcosa da terra.
«Dove l'hai preso?» chiede sospettoso, mostrando il mio tesserino.
Non mi ero neanche accorta che mi fosse caduto. «Da Babbo, cioè Alan Cooper. Non sai leggere?» Scrollo le spalle con un movimento piuttosto teso. «È il mio responsabile presso l'agenzia».
La risata fragorosa della guardia mi coglie alla sprovvista. «Ho due notizie per te, ragazzina».
Aggrotto la fronte, ma rimango in silenzio, troppo disorientata da questa situazione per riuscire a proferire parola.
Dentro di me, però, una consapevolezza si insinua nella mia mente. E intuisco che sta per succedere qualcosa di irreparabile, e questa pausa non è che la calma assoluta che precede l'esplosione.
«Non c'è nessun Alan Cooper che lavora qui». Adam Greyson conficca i suoi occhi scuri nei miei. «E ti conosciamo perché la Walker Agency appartiene a te».
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