35. LA VOCE
Le sue labbra sulle mie.
È l'unico pensiero che riesco a formulare mentre i nostri occhi rimangono incatenati, l'eco delle sue parole che ci lega nel silenzio.
Il freddo che mi intorpidiva le ossa sembra essersi dissolto, quasi il suo sguardo mi stesse bruciando fin sotto la pelle, marchiando il mio cuore.
Tutto ha perso importanza, perfino lo chalet poco distante da noi e la tragedia che si è consumata al suo interno.
La mia mano si solleva e gli sfiora una guancia, sentendo tutti i suoi muscoli tendersi come corde di violino. Klaus emette un sospiro affannoso, ma non mi blocca. Anzi, rimane completamente immobile.
Incoraggiata, mi protendo di più verso di lui, ma l'amaca si inclina e devo appoggiarmi al suo petto per non rischiare di scivolare.
Il mio stomaco si contrae per l'eccitazione mentre avverto i leggeri tremiti che gli attraversano il corpo, il calore del suo respiro che accelera.
Per un attimo, sono tentata di esplorare il suo fisico, di toccare i segni tondi sul suo torace, senza il tessuto della camicia a dividerci.
Mi trattengo, ma non posso fare a meno di chiedermi se me lo impedirebbe, come ha fatto quella notte nella sua camera, oppure no.
Con l'indice, seguo esitante la linea sottile e pallida della sua cicatrice, costringendolo ad abbassare le palpabre.
«No» sussurro, giunta sopra il sopracciglio. «Tienili chiusi».
Klaus, che stava per riaprire gli occhi, corruga la fronte, ma obbedisce.
Mi avvicino ancora, facendo scontrare le punte gelide dei nostri nasi, ed infilo le dita tra i suoi capelli biondi, accarezzandoli con dolcezza. Sono umidi e stranamente soffici, profumati di shampoo e miele.
Si irrigidisce ancora di più, le spalle tirate all'indietro e le braccia diritte lungo i fianchi.
Ancora una volta, però, si abbandona docilmente al mio tocco, non saprei se per la paura... o perché lo vuole.
Lo fisso intensamente in volto, cercando di catturare ogni dettaglio della sua perfezione.
Mi sono imposta di non provare nulla per lui, per il suo bene, il nostro, eppure quel sentimento c'è, intenso e concreto, una cosa viva che scalpita per liberarsi dalle catene della ragione.
Non ho mai desiderato nulla, e soprattutto nessuno, con lo stesso disperato bisogno con cui desidero lui.
E se solo potessi annullare il passato, il mio e il suo, per un secondo. Solo un secondo. L'attimo fugace di quel bacio proibito che bramo più di qualsiasi altra cosa...
Ma non posso.
Mi costringo a sollevarmi, il cuore che mi provoca fitte al petto, quasi protestasse contro quella decisione.
«Ehi guarda!» esclamo, indicando un punto a caso nel cielo. «Un asino volante!»
Klaus sbatte le palpebre, come destandosi da un sogno, e assume un'espressione impassibile. Ma sono certa di aver visto un lampo di delusione ardere nel grigio delle sue iridi.
«Dobbiamo andare». Fa scivolare le gambe dall'amaca e si rialza con un gesto brusco. «Se non torniamo prima delle sette e mezza...»
«Digiuno forzato, lo so».
Mentre Klaus si rimette la giacca, scocco un'ultima occhiata alla piccola abitazione, appollaiata sulla riva del torrente. Nell'aria improvvisamente immobile, la sua figura si staglia silente e affilata, la ciminiera del tetto spiovente che esala lievi spirali di fumo come se la casa stessa respirasse.
Le prime ombre della sera la circondano, tremolando sui muri rivestiti d'edera e di neve. Tuttavia un cono di luce rossastra penetra nella finestra senza tenda, svelando un ambiente spartano con travi al soffitto, sedie di vimini e un divano di bambù.
Per un secondo, penso all'orribile leggenda di Céline Dubois e ad Elizabeth. Mi chiedo quanto crudele possa essere il destino, che ha strappato la vita ad una ragazza nella notte del suo compleanno.
E la consapevolezza che è morta qui, lei, identica a me, quando era da sola Klaus, come lo sono io in questo momento... mi turba più di quanto voglia ammettere.
«Tutto bene?» La sua cicatrice scintilla tra i bagliori infuocati che gli illuminano il viso.
Annuisco e abbozzo un sorriso sardonico. «Come sempre, fiorellino».
Il tragitto per il ritorno è identico a quello dell'andata, ma l'atmosfera è completamente diversa.
Forse per effetto della penombra calata sul bosco, le fronde degli alberi sembrano essersi chiuse ancora di più, formando una cupola tra noi e il cielo, ormai ridotto ad un uniforme drappo di velluto blu, punteggiato di stelle pallide.
Klaus è silenzioso, le mani ficcate nelle tasche e le guance rosse per il gelo. Ha un'aria assorta, raccolta in sé stesso, ma ogni tanto noto che mi sbircia con uno sguardo indecifrabile. Forse vuole soltanto accertarsi che mantenga il passo, ma più di una volta ho avuto l'impressione che stesse per parlare, senza che invece proferisse parola.
«Allora?» mi chiede infine.
Il mio cuore manca un battito e ne recupera altri cento, credendo che possa riferirsi a quello che stava per succedere prima, sull'amaca.
«Eh?» Faccio una risatina tutt'altro che convinta. «La tua domanda fa schifo».
Inarca un sopracciglio. «Ti ricordi perché ti ho portata qui, no?»
«Per godere della mia splendida compagnia?»
Emettendo uno sbuffo, Klaus libera il piede da una pozza di fanghiglia sommersa sotto il manto candido. «Hai ancora intenzione di aiutarmi a cercare l'uomo buono?»
Scrollo le spalle, cercando di apparire più disinvolta possibile. «Serve ben altro che un fantasma omicida per spaventare Keeley Storm».
«Sono serio».
«Anch'io» lo incalzo. «E, comunque, ti sbagli. Noi dobbiamo trovare Gladys. Deve ad entrambi molte risposte: a te, sull'uomo buono, e a me, su mio padre».
«Mmh certo». La sua voce è intrisa di cauto scetticismo.
Corrugo la fronte, guardinga. «Che vuoi dire?»
«Niente».
Lo afferro per il polso e lo costringo a fermarsi sotto l'arco che si apre sul circo. Appena lo tocco, una scarica elettrica mi pervade il braccio e ritiro subito la mano, prima ancora che lui possa irrigidirsi come sempre.
Mi schiarisco la gola con imbarazzo, evitando di incrociare i suoi occhi perplessi che mi fissano.
«Che significava quel...», tento di imitare il suo accento inglese, «“mmh certo”?»
Un sorrisetto divertito gli increspa le labbra. «Quando gonfi il petto, sembri un pavone».
«Un pavone maschio» preciso. «Sono belli e colorati come me».
«Anche arroganti come te».
«Non distrarmi!» Gli picchietto un dito sul petto. «E rispondi!»
Klaus si incupisce e rilascia un sospiro. «Davvero non hai considerato l'ipotesi?»
Sbatto le palpebre. «Che ipotesi?»
«Insomma, Keeley». Mi guarda con frustrazione, come se mi stesse implorando di capire. «Gladys forse è la donna che mi ha portato a Sunset Hills, conosceva tuo padre e adesso è scomparsa. Michael era amico di tuo padre. Sul serio, non ci hai pensato?»
Qualcosa dentro di me si scuote, la flebile fiammella risvegliata dalla speranza, ma mi affretto a sopprimerla.
“Certo che ci ho pensato” vorrei rispondere. “Ma non posso illudermi... non di nuovo”.
Scuoto la testa, stizzita. «Lui non è l'uomo buono!»
Un cipiglio disorientato compare sul viso di Klaus, colto alla sprovvista dalla mia reazione. «Hai ammesso anche tu che la storia della sua morte non ti convince...»
«È vero, ma intendevo che Gladys non mi avesse detto tutta la verità». Devo attingere a tutte le mie forze per non lasciare trapelare il dolore che mi brucia nel petto. «Adoro mio padre, ma non è Superman che salva bambini che nemmeno conosce!»
«Keeley...» sussurra lui in tono raddolcito.
Per caso, lancio un'occhiata da sopra la sua spalla e sento il sangue trasformarsi in ghiaccio liquido nelle mie vene.
«Zitto». La parola mi raschia la gola, di colpo secca e inaridita.
«Ti piace proprio zittirmi, eh?» sbuffa contrito.
Un senso di vertigini fa roteare il mondo intorno a me, un vortice confuso che mi assale come un naufrago in balia delle onde impetuose.
Per un secondo, tutti i rumori si spengono. Il fruscio dei rami, il tubare dei gufi, il crepitio delle ultime foglie d'autunno, il cigolio lieve dell'altalena...
E, in quel silenzio surreale, un suono riecheggia nella mia mente, limpido e cristallino quanto lo è nei miei incubi.
Lo sparo.
«Ehi, che succede?»
Quando mi accorgo che qualcuno mi sta cingendo la schiena, provo l'istinto di scacciarlo, di fuggire, il cuore che mi tuona in gola.
Se solo il corpo non si rifiutasse di obbedire ai miei comandi.
«Lasciami!» sibilo in un rantolo strozzato, incapace di muovermi.
«Se ti lascio, cadi».
Impiego qualche secondo a rendermi conto che le mie gambe hanno ceduto, e che Klaus mi sta sorreggendo. Il suo braccio destro mi avvolge il fianco e le mani mi stringono con delicatezza. Anche se la sua postura è tesa e nervosa, i muscoli tirati, la presa è salda e attenta.
«Stai bene?» mi chiede preoccupato.
A poco a poco, il calore del suo corpo scioglie la morsa gelida che ha avviluppato il mio. Stare vicina a lui, la testa che mi ricade sulla sua spalla, è così rassicurante che non vorrei staccarmi mai più.
Poi però mi ricordo di quello che ho visto e una paura acre si insinua di nuovo nelle mie viscere.
«Dobbiamo andarcene!» A malincuore, mi ritraggo e torno in piedi, barcollando appena. «Subito!»
«È quello che stavamo facendo...»
Gli tappo bruscamente la bocca, trascinandolo dietro il grosso tronco di un acero. «Parla piano!» mormoro.
Klaus mi scocca un'occhiataccia e, appena l'ho liberato, borbotta sottovoce: «Adesso che ti prende?»
«C'è un furgone grigio!» Detesto la nota atterrita che acuisce la mia voce o le gocce di sudore freddo che sento scivolare sotto gli strati di sciarpa, giubbotto e maglia. «È parcheggiato accanto alla ruota panoramica! Prima non c'era!»
Klaus fa un respiro profondo, rilassandosi un poco. «Non è niente, tranquilla. Spesso, le coppie vengono qui per... beh, divertirsi. Anche Ric ci portava le ragazze, o i ragazzi, ogni tanto».
«No, non capisci!» Le mie dita tremano mentre si serrano sul manico metallico del coltellino. «Ho già visto quel furgone! Siamo in pericolo!»
All'improvviso, un urlo si leva in mezzo alla scura vegetazione, non molto lontano da noi. È roco e lacerante, intriso di una sofferenza rabbiosa che strappa ad entrambi un sussulto.
Io e Klaus ci scambiamo uno sguardo fugace, ed è quasi un sollievo vedere il mio terrore riflesso nei suoi occhi, malcelato sotto una maschera distaccata.
Quando sentiamo una scia di passi attutiti che procede dalla direzione da cui siamo venuti, scattiamo nello stesso momento.
Sfrecciamo oltre l'arco di pietra e corriamo tra le giostre immobili, incrostate di ruggine, e le gabbie abbandonate del circo, arrancando nella neve.
Nonostante l'ondata di adrenalina che mi travolge, le gambe che si muovono come se calzassi dei sandali alati, la stanchezza per la scarpinata rallenta i miei movimenti e rimango sempre più indietro.
Alla vista del furgone, il ricordo dell'incidente, di mia zia, mi balza di nuovo davanti, un pesante macigno che mi colpisce sullo stomaco. Inciampo e scivolo di lato, ruzzolando lungo la pendenza di una collinetta per qualche metro.
Mi ritrovo con la faccia immersa in un cumulo candido, attorniata da contorti ammassi di ferro. Con cautela, mi rovescio sulla schiena, sentendo una barra metallica premere contro la mia nuca.
Le sottili pale della ruota panoramica si ergono sopra di me, stagliate su uno sfondo cupo. Un mantello scuro in cui sono ricamati astri argentati e lo spicchio di luna ancora sbiadita.
Appena cerco di rialzarmi, la caviglia lancia una fitta acuta, ma a paralizzarmi sono gli ansimi affaticati che spezzano il silenzio.
Sollevandomi il cappuccio, mi rannicchio all'interno di una vecchia cabina che emerge dalla neve e sbircio attraverso il vetro appannato.
Tra la ragnatela di crepe, distinguo una figura che spunta dal bosco.
La sua andatura è chiaramente zoppicante e si tiene una mano guantata sulla coscia destra. L'altra, invece, impugna qualcosa di cui riesco a scorgere solo freddi bagliori grigi.
E avanza dritta verso di me.
Trattengo il respiro, maledicendo il frastuono del cuore che mi tamburella in gola. Non oso muovermi nemmeno per tentare di afferrare il mio coltellino.
Dentro di me, prego che Klaus si sia nascosto da qualche parte... e che non faccia nessuno stupido tentativo per raggiungermi.
Man mano che procede, la figura diventa appena più nitida, abbastanza da poterne individuare meglio i contorni. La sua stazza imponente non lascia dubbi sul fatto che sia un uomo, ma non sono altrettanto sicura che sia lo stesso che ho visto fuori dalla villa, la mattina in cui ho incontrato Gladys.
Questo sembra più slanciato e dal fisico meno massiccio, per quanto piuttosto robusto.
Continua ad avvicinarsi, accompagnato da fiotti d'aria congelata mentre boccheggia con fare esausto.
Indossa un pesante giubbotto nero in stile militare, un passamontagna come quelli usati dai soldati in trincea: gli copre il collo e il viso, lasciando scoperta la bocca, la punta del naso e gli occhi.
È troppo buio per vedere più che delle ombre infossate al posto delle iridi, tuttavia riconosco con un brivido la sagoma dell'oggetto che stringe.
Perché diavolo hanno tutti una maledetta pistola?
Non appena arriva a pochi metri da me, serro i pugni così forte da conficcarmi le unghie nella carne. Devo reprimere l'impulso di scagliarmi fuori e affrontarlo, in modo da porre fine a questa tortura di ansia e panico.
Contro ogni mia aspettativa, devia sulla collina da cui sono caduta e mi passa davanti, senza notarmi, bisbigliando in tono sommesso. Da questa distanza, sento soltanto un vago borbottio, ma ho la sensazione che stia imprecando.
Poi si ferma di colpo, facendomi trasalire.
Con il fiato sospeso, punto lo sguardo in cielo, costringendomi a cercare le costellazioni segrete. Ma il Lupo bianco ha deciso di non ululare stanotte e l'Angelo nero è volato troppo lontano.
Sono sola.
Quando però torno a guardare l'uomo, scopro che la sua pistola è sparita, sostituita da una sorta di piccola scatola. Capisco di cosa si tratta un attimo prima che lo sfolgorio dei fanali baleni nel velo di tenebre.
Con passo claudicante, raggiunge il furgone e si getta sul sedile del conducente, lasciandosi sfuggire un gemito.
«Giuro che lo faccio soffrire a quel bastardo!» lo sento dire a denti stretti, sbattendo con foga la portiera.
La voce dei miei incubi...
Rimango ad osservare il furgone che imbocca l'uscita secondaria, superando un cancello di ferro, e si allontana dal circo.
Io, invece, sono incapace di spostarmi di un centimetro, i muscoli atrofizzati, quasi mi fossi tramutata in una statua di ghiaccio.
Quella voce profonda e potente, simile al rombo di un tuono...
Ecco perché ero certa di averla già sentita, perché ero convinta che ci fosse qualcosa di strano in lui, di sbagliato. Qualcosa che dovevo assolutamente ricordare.
Avrei dovuto accorgermene prima...
«Keeley, ti sei fatta male?»
Klaus si inginocchia fuori dalla cabina, un'espressione allarmata che gli distorce i lineamenti del volto, ancora più pallido del solito. Ciocche bionde gli aderiscono alla fronte, cosparse di fiocchi candidi.
«L'hai... l'hai sentito?» balbetto pianissimo.
«No, ma l'ho visto. Ero nascosto dietro il tendone». Controlla con diffidenza alle proprie spalle. «Riesci a camminare?»
Annuisco, ma la mia caviglia lancia una stilettata di protesta appena provo ad appoggiare il piede a terra.
«Facciamo così, ficcanaso» sussurra Klaus, prendendomi in braccio.
In qualsiasi altro momento, avrei fatto qualche battuta maliziosa o mi sarei opposta per dimostrargli che non mi serve aiuto.
Invece, rimango ammutolita e mi accoccolo contro il suo petto, il volto affondato sul suo collo, sentendomi finalmente al sicuro, protetta.
Come se sapessi che niente può ferirmi, non adesso che lui è con me.
Nonostante ciò, due domande continuano ad assillare la mia mente in subbuglio.
Perché l'uomo che ha ucciso mia zia è a Sunset Hills?
E perché la sua voce è identica a quella di Alaric?
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