34. LA LEGGENDA DI CÉLINE DUBOIS
P.O.V. KLAUS
Detesto il disordine.
Sono sempre stato convinto che ogni cosa abbia un posto preciso da occupare e, spostarla, significa spezzare l'armonia di un insieme perfetto.
Tutto, anche le persone, deve avere uno spazio che sia solo suo.
Per questo, probabilmente, il caos che regna nella Corvette nera di Alaric mi turba tanto da farmi prudere le dita dal desiderio di sistemarla.
I sedili sono invasi da vecchie riviste sbiadite, pacchi di fazzoletti, sacchetti di cibo d'asporto ancora sporchi di ketchup e perfino un preservativo usato. La moquette scura, con motivi floreali ricamati in oro sui tappetini, è un campo di battaglia tra lattine vuote di cola e bottiglie d'acqua scadute da mesi, se non anni.
«Ho un'idea».
La voce di Keeley mi riscuote e, per l'ennesima volta, rimango stupito da quanto sia diversa dalla sua.
Quella di Elizabeth era sottile e limpida, ma venata di un brio frizzante e allegro. Se avessi dovuto paragonarla ad uno strumento musicale, sarebbe stata un flauto traverso, con il suo binomio di vivacità e delicatezza.
Keeley, invece, è più simile ad un clarinetto che non puoi fare a meno di ascoltare: audace, grintoso e imprevedibile.
Per gran parte del tempo, il suo timbro è permeato di pungente ironia, ma a volte, quando si mostra davvero, emerge quel contrasto di potenza e dolcezza. E, sotto di esso, solo un orecchio attento può cogliere le note della sua fragilità.
«Assolutamente no» rispondo risoluto.
«Ma non l'hai ancora sentita!»
Ruoto il volante e l'auto scivola leggera oltre la curva che si inoltra tra due colline. La velocità non è eccessiva, ma il motore continua a ruggire, come un fiero purosangue che freme per gettarsi al galoppo.
Scrollo le spalle. «Se l'hai avuta tu, significa che sarà pessima».
Ci troviamo poco fuori Sunset Hills, circondati da distese gibbose in cui si sviluppa una fitta boscaglia di alberi nodosi, incappucciati di bianco. I roveti e i cespugli che costeggiano la strada sono così carichi di neve da ricordare grossi gnomi disposti in fila indiana.
Soltanto poche costruzioni si ergono nel regno della natura, perlopiù timide case punteggiate di stalle e fattorie, ma anche imponenti magioni con ampie tenute, senza dubbio antiche dimore aristocratiche.
Keeley si volta e rivolge lo sguardo sul paesaggio. «Potremmo parlare con Alizée». Prende un respiro profondo, strusciandosi nervosamente una mano sui jeans. «Se la donna buona...»
«La dobbiamo davvero chiamare così? È un nome ridicolo».
Di sbieco, la vedo inarcare un sopracciglio nella mia direzione. «Preferisci “Donna-che-forse-è-Gladys-o-forse-no”?»
Scuoto il capo, rassegnato, e puntello il gomito contro il finestrino, le dita che picchiettano sul volante.
L'anello con il leone scintilla al mio indice, la pietra d'onice che cattura i riflessi purpurei del crepuscolo, che ha già gettato i primi stracci giallastri e arancioni nel cielo pallido.
«Comunque, se la donna buona ti ha portato alla villa, Crudelia deve averla incontrata». Un tremito percorre le sue parole, lasciando trapelare una punta d'ansia. «E, ehm, magari la conosce. O ha fatto ricerche su di lei, come su mio padre».
Quando una buca fa sobbalzare la macchina, Keeley si aggrappa alla portiera e la stringe forte.
Un clangore di bottiglie e lattine che rotolano e si scontrano riecheggia sopra la canzone jazz sparata a tutto volume dalla radio.
Ovviamente, non l'ho scelta io.
Malgrado la distanza, percepisco la sua paura, come se vibrasse nell'aria fino ad investirmi, quasi diventasse anche la mia.
Ripenso al terrore che mi ha assalito, rinchiuso nell'armadio, al suo sapore amaro che mi impastava la bocca, e mi chiedo se lei stia provando la stessa cosa.
Subito, mi pento di non averle permesso di guidare e rallento un poco, sperando di riuscire a farla sentire meglio.
«Già, immagino la scena». Scoppio in una risata amara. «“Ehi, Alizée. So che siamo le due persone che detesti di più al mondo, ma ci aiuteresti a trovare l'uomo che ti ha appioppato il figlio che non volevi?”... disponibile com'è, lo farà di sicuro».
«Beh, di certo non se usi quel tono scorbutico».
Keeley si china in avanti e giocherella con le teste traballanti della schiera di pupazzetti sul cruscotto.
Si sofferma su uno e comincia a colpirlo, facendolo annuire in maniera spasmodica. «Al ragazzo gelloso piacciono i Simpson?»
Getto un'occhiata e ridacchio. «Quello è Donald Trump».
«Ah... allora sto prendendo a sberle il presidente».
Un piccolo sorriso spunta sulle mie labbra, ma scompare appena mi accorgo che la mano di Keeley sta tremando.
«Perché hai paura delle auto?» chiedo in tono gentile.
Colta alla sprovvista, lei mi scocca uno sguardo disorientato, ma poi si affretta a ricomporre la sua maschera d'ironia. «Ti ricordi quando mi hai scambiata per un birillo, vero?»
Roteo gli occhi, esasperato. «Ancora? Sei seria?»
«Le ginocchia mi fanno ancora male quando piove».
«Quante volte devo chiederti scusa?» sbuffo irritato.
Keeley fa spallucce. «Una sarebbe già un gran bel progresso per i tuoi standard».
Un moto di frustrazione mi arrovella lo stomaco, ma mi sforzo di reprimerlo.
Sembra che più cerco di avvicinarmi, più i suoi scudi si rafforzano: mi risponderà mai con sincerità?
Svolto a sinistra in un breve vialetto, la ghiaia che crepita sotto le gomme, e accosto la Corvette davanti al cancello arrugginito. Alcune sbarre di metallo sono state staccate o piegate, creando vani abbastanza grandi da farci passare un uomo.
Sui mattoni sbiaditi della recinzione, i vandali si sono divertiti a tracciare insulti o disegni sconci con le bombolette spray, ma ci sono anche murales di artisti con evidente talento.
«Da qui, andiamo a piedi». Sfilo le chiavi e le faccio scivolare in tasca. «Faremo prima».
È una bugia. Potremmo fare ancora qualche chilometro con la macchina, ma ormai ho imparato che è dannatamente orgogliosa.
Se scoprisse che mi sono fermato perché so che sta soffrendo, e non lo sopporto, farebbe di certo qualche battuta e si metterebbe al posto del conducente per dimostrami che mi sbaglio, anche se ho ragione.
Keeley richiude lo sportello e si guarda intorno, sfiorando d'istinto il rigonfiamento del coltellino svizzero attraverso il tessuto. «Sembra un covo di vampiri. Manca solo l'insegna al neon: “Per morire tra atroci sofferenze, da questa parte”».
In una radura imbiancata, assediata da una selva di alberi carichi di neve, si stagliano le figure sbilenche di padiglioni logori dalle tende lacerate o ammuffite.
Una massiccia ruota panoramica cigola sotto le sferzate del vento e, ai suoi piedi, le cabine crollate sono ridotte ad un ammasso contorto di ferro. Il palcoscenico, su cui anni fa ho visto esibirsi leoni ammaestrati e abili illusionisti, ora non è altro che una piattaforma di legno marcio e divorato dai topi, coperta da brandelli di pesanti velluto di quello che era stato un velario.
In passato, quel luogo era illuminato da un reticolo di luci soffuse simili a fiammelle e dai colori sgargianti dei fuochi d'artificio, invece adesso tutto è avvolto dalla penombra infuocata dei raggi morenti che filtrano oltre l'intrico di rami nodosi.
«Era un circo» borbotto, infilandomi tra due spranghe divaricate del cancello. «L'hanno chiuso quattro anni fa».
Keeley mi segue con passo cauto e mi affianca, gli occhi che dardeggiano ovunque con fare circospetto. «Detesto i circhi» sussurra tesa. «Mi fanno pensare al clown inquietante di It».
Ci inoltriamo nella desolazione bianca, arrancando nella neve alta solo fino ai polpacci, dato che le piante circostanti devono aver fatto da barriera naturale.
Una stretta di nostalgia mi serra la gola mentre osservo l'altalena dalle corde sfilacciate e aggrovigliate.
La mia mente ritorna a quando avevo quattordici anni. Io e i miei fratelli, compresa mia sorella, eravamo sgattaiolati di nascosto fuori di casa. Desideravo con tutto il cuore vedere il circo almeno una volta, prima che lo chiudessero, quindi Liam aveva organizzato quella fuga segreta per accontentarmi. Kal l'aveva chiamata “Operazione Talpa”, la prima ma non l'ultima che avremmo fatto all'insaputa di Alizée.
Avevamo commesso l'azzardo di portare con noi anche un piccolissimo Toby, che aveva finito per perdersi nella folla. Allora Eileen aveva improvvisato una sorta di missione di recupero, dividendoci a coppie per setacciare la zona.
Alla fine, lo abbiamo trovato a dondolarsi sul sedile, tranquillo e ridente, ignaro che lo stavamo cercando disperatamente da due ore.
All'improvviso, la musica di una suoneria mi riporta bruscamente alla realtà. La mia mano scatta verso la tasca, prima che mi renda conto che è una canzone italiana, e non la mia Demons.
Keeley estrae il telefono e un'espressione di sgomento si dipinge sul suo volto. «Il tuo tempismo fa schifo, carotino». E rifiuta la chiamata.
Qualcosa mi artiglia il cuore al pensiero di Simon e, pur sapendo che non dovrei, il fatto che non gli abbia risposto mi riempie di una strana leggerezza.
Sfodero un sorrisetto malizioso, accertandomi di mantenere un tono neutrale. «Problemi con il mio fratellino?»
«Tu sei il problema» bofonchia, quasi di getto.
Aggrotto la fronte, confuso. «Che ho fatto?»
Keeley scavalca una panca ribaltata, che spunta da un cumulo candido, evitando con attenzione il mio sguardo. «Lascia stare».
«Ma...»
«Zitto e cammina».
Scuoto la testa e mormoro fra me: «Compiango la povera anima che ti sposerà».
«Nessuno corre quel pericolo». Keeley mi scocca un'occhiata in tralice, una smorfia contrariata che le arriccia il naso. «Odio i matrimoni».
Il suo timbro è apatico, ma mi provoca una fitta di senso di colpa. Lo nasconde bene, ma so che sta pensando a sua madre.
In silenzio, mi dirigo verso l'arco di pietra rossiccia. Il sentiero in terra battuta, di solito tappezzato di fanghiglia, è sommerso da uno strato di neve molle che mi risucchia le gambe come sabbie mobili.
Il tragitto ormai mi è così famigliare che potrei percorrerlo anche da bendato e conosco a memoria i punti più sicuri in cui poggiare i piedi.
Per un secondo, sono tentato di prendere Keeley per mano, ma poi mi limito a farle cenno di seguirmi.
«Io e te, soli soletti in un bosco» ansima, fiotti d'aria congelata che le scaturiscono dalla bocca. «È colpa tua se girano pettegolezzi su di noi, fiorellino».
Un soffio di vento mi investe, scagliandomi fiocchi simili a schegge di ghiaccio in faccia. Rabbrividisco e tiro su la zip della giacca imbottita di lana che porto sopra la camicia.
«Elizabeth voleva aiutarmi a trovare l'uomo buono. Era convinta che fosse l'unico modo per...» Le parole mi si impigliano in gola.
«Guarire le ferite del tuo passato» completa Keeley.
È la stessa identica frase pronunciata da lei. Rimango un attimo perplesso, ma poi intuisco che deve avergliela riferita Jonas.
«Pensi che sia stata uccisa per questo? Perché aveva scoperto qualcosa?»
Mi blocco di colpo, tanto bruscamente che Keeley sbatte contro la mia schiena. Barcolla per un istante, ma riesce a recuperare subito l'equilibrio.
«Cavolo, biondino. Come ti muovi, sei un pericolo pubblico» esclama, massaggiandosi la fronte.
Appena i miei occhi incontrano i suoi, però, si ferma, il braccio ancora sollevato e un'espressione perplessa sul viso. «Che c'è?»
Chino la testa, fissando un masso che affiora dalla neve. «Tu non credi che sia stato io, allora» sibilo a fil di voce.
«Pensi che avrei accettato di fare una scampagnata in mezzo al nulla con un potenziale omicida?»
Nonostante l'impeto di sollievo che mi travolge, una fitta dolorosa mi trapassa il petto.
Come posso dirle che non sono sicuro di essere innocente?
Esiste un modo per confessarle che sono terrorizzato dall'idea che potrei aver fatto del male ad Elizabeth, senza sembrare un... un mostro?
Non voglio che abbia paura di me. Ma mi chiedo se dovrebbe averne.
«Non hai risposto» commenta Keeley, superandomi. «L'uomo buono e la morte di Elizabeth potrebbero essere collegati?»
Mi affretto ad affiancarla e mi stringo nelle spalle. «Forse, per questo ti ho portata qui. Devi sapere tutto».
Con delicatezza, le afferro il gomito e la attiro verso di me per evitare che inciampi nella trappola per conigli sepolta lì vicino. Quando si volta, sorpresa, il suo respiro caldo mi solletica le guance congelate.
«Sarò completamente sincero, te lo prometto». Devo lottare contro il desiderio di scansarle una ciocca bagnata che le ricade sul naso. «Non voglio che ti succeda qualcosa per colpa mia».
Non anche a te.
Keeley fa un lieve sorriso e accenna alla tasca in cui porta sempre il suo coltellino. «Non ho bisogno di essere protetta, ma grazie. È una cosa molto romantica da parte tua» ammicca.
Inarco il sopracciglio spezzato dalla cicatrice. «Ti rendi conto che ha le dimensioni di uno stuzzicadenti?»
«E tu sei settanta chili di pelle, ossa e un po' di carne».
Le scocco uno sguardo torvo e riprendo a camminare. Per qualche ragione, non posso fare a meno di pensare che Simon non è molto più muscoloso di me.
«Il due giugno, poco dopo aver scoperto dell'esistenza della Walker Agency, io ed Elizabeth siamo andati nella sede dell'agenzia, a Clayton». Stranamente, Keeley non sembra troppo stupita da ciò che ho detto. «Lei distraeva la segretaria mentre io entravo e sbirciavo tra gli archivi del personale. Quella volta, non avevamo il tesserino, quindi le guardie della sicurezza non ci misero molto ad accorgersene. Sono riuscito a leggere solo pochi nomi, prima che mi trovassero».
«I nomi di donne che avevi nel tuo diario segreto, giusto?»
«Il mio taccuino» la correggo. «E sì. In seguito, ho indagato su di loro, cercando foto su Internet, ma nessuna corrispondeva a...»
Keeley mi dà una gomitata provocatoria. «Forza, dillo».
Mi abbandono ad un sospiro. «Alla donna buona».
Ignoro il suo ghigno trionfante e la precedo sulla collinetta. Gli artigli rossastri del sole penetrano dalla ragnatela di fronde intrecciate sopra le nostre teste. La neve sui rami riflette i bagliori del tramonto, che stende un velo insanguinato sul suo manto pallido.
Avanziamo con cautela, fendendo l'intrico di arbusti, piante erbacee e bassi alberi spinosi che forma il fitto sottobosco.
«Mi hanno arrestato e ho passato la notte alla centrale di polizia. Il giorno dopo, il direttore dell'agenzia ritirò la denuncia, scambiandolo per un gioco stupido tra ragazzi» continuo, cercando di suonare inespressivo. «Elizabeth aveva preso una camera in un albergo per aspettarmi e siamo tornati insieme a Sunset Hills. Ma c'era qualcosa di strano in lei, era come... turbata».
Keeley si posa una mano sul fianco, paonazza per il freddo o per la fatica, non saprei. «Turbata... per cosa?»
«Non ne ho idea».
Altri ricordi strisciano dagli angoli più remoti della mia mente, vaghi e nebulosi.
Per un attimo, sento nuovamente il calore delle fiamme che crepitano nella catasta di legna, la musica che riecheggia nella notte nera e le grida esaltate di giovani ubriachi.
Posso rivedere il vecchio molo che si protende sul fiume, la falce di luna stagliata sulle onde increspate e gli occhi dorati di Elizabeth che mi fissano.
Nel silenzio, mi giunge ancora l'eco della sua voce. “Ti fidi di me, Klaus?”
Non ebbi un attimo di esitazione. “Assolutamente sì”.
Il sorriso che sbocciò sulle sue labbra era uno dei più belli che avessi mai visto. Ancora non sapevo che sarebbe stato l'ultimo che mi avrebbe rivolto.
Io e Keeley sbuchiamo fuori dal bosco, in un ampio spiazzo di neve in cui ancora si trascinano cespugli e rampicanti.
Un piccolo cottage in stile inglese è rannicchiato ai piedi della collinetta, circondato da una veranda affacciata sulla riva del torrente che gorgoglia tra i sassi. Il largo ponte rivestito di fiori secchi che conduce all'ingresso e l'edera che si abbarbica sui muri di mattoni gli conferiscono un'atmosfera quasi fiabesca.
«La notte di ferragosto, Elizabeth mi disse che iniziava a pensare che il mio passato fosse anche il suo passato. Non so cosa intendesse» specifico, anticipando la domanda di Keeley. «E poi mi portò qui. Sapeva che sono bravo... insomma, con le serrature, e voleva che la aiutassi ad entrare».
Lo sguardo di Keeley esamina con sospetto i recinti vuoti del giardino. «Perché?»
Faccio spallucce. «Non lo so. L'ultima cosa che mi ricordo è questo posto... poi mi sono ritrovato al falò e...» La mia voce si incrina e mi ammutolisco.
Con un tremito, mi guardo entrambe le mani, sentendo di nuovo il sangue che mi scivola sulla pelle... il suo sangue.
Provo ancora la vaga sensazione della pistola stretta tra le dita, così forte da sbiancare le unghie. Era come se una forza invisibile mi impedisse di lasciarla.
Rivedo il corpo di Elizabeth disteso tra le mie braccia, una macchia rossa che dilagava sulla camicetta. Il suo peso accresceva ad ogni passo, uno più doloroso dell'altro.
L'immagine del suo volto torna a galleggiare davanti ai miei occhi: spicchi dorati spuntavano tra le palpebre socchiuse, le sue guance pallide erano schizzato di gocce purpuree, la bocca piegata in un'espressione di terrore... e sorpresa.
E rammento che ripetevo un mantra, le parole che salivano spontanee dalla mia gola. Solo in seguito ho scoperto cosa stavo farneticando.
“L'ho uccisa io”.
«Ehi, biondino! Klaus!» Keeley mi si avvicina, stranamente esitante. «Tutto bene?» Il suo tono tradisce una nota di apprensione.
Mi costringo ad annuire, cercando di soffocare il peso che mi attanaglia il petto. «Il cottage apparteneva a Céline Dubois. Non so se hai sentito parlare di lei...»
Keeley fa un cenno d'assenso. «La testimone al processo contro tuo... cioè, contro Michael» conclude a disagio.
Il pensiero di mio padre mi trafigge come una pugnalata, ma mi impongo di rimanere impassibile. «Esiste una leggenda su di lei. Su questa casa».
Mi siedo sull'amaca, mollemente sospesa tra due pali di sostegno sotto la tettoia. Keeley si stende accanto a me, le dita che giocherellano con la sciarpa. Le sue pietre d'ambra brillano come scintille ardenti e fiocchi candidi le si sciolgono tra i capelli blu, facendoli apparire quasi neri.
Mentalmente, ringrazio che si faccia la tinta. Non credo che avrei sopportato di venire qui, con lei... se fosse stata identica ad Elizabeth. Avrebbe fatto troppo male.
«Circa un anno dopo il processo, Céline scomparve nel nulla. Secondo la leggenda, è stata uccisa nel suo soggiorno dal fantasma di Michael Waylatt, che si era suicidato pochi giorni prima». Il mio stomaco si contrae, come sempre quando lo nomino. «La storia sarebbe finita così, ma poi una coppietta ebbe la geniale idea di venire qui a pomiciare. Quando si scoprì che la ragazzina era morta, schiacciata da una trave, si cominciò a dire che il cottage fosse maledetto».
«Maledetto?» ribadisce Keeley intrigata.
«Qualsiasi ragazza ci entri è destinata a morire, uccisa dal fantasma di Michael».
Lei corruga la fronte. «Tuo padre sarebbe la versione psicopatica di Casper?»
«Dopo quello che è successo ad Elizabeth, molti hanno cominciato a crederci». Scrollo le spalle, senza riuscire a mascherare la mia inquietudine. «E, probabilmente, adesso pensano che io sia l'incarnazione di Michael che prosegue il suo regno del terrore. Chissà». La mia voce è intrisa di avvelenata ironia.
«Sembra la trama della seconda trilogia di Shadowhunters».
Keeley coglie la mia occhiataccia e fa un gesto rassicurante con la mano. «Scherzo. Non hai niente di demoniaco, tu. Forse la cicatrice».
«Grazie, mi sento molto meglio» replico sarcastico.
«Sono qui apposta». Ammicca con fare scherzoso, ma la sua postura rigida mi suggerisce che è più agitata di quanto voglia mostrare. «C'è qualcosa di vero in questa leggenda?»
Scuoto la testa. «Si scoprì che Céline non era morta. Era solo fuggita in Germania con una rockstar, abbandonando suo figlio con il padre. Era giovane, i genitori l'avevano cacciata di casa e la vita da madre si era rivelata troppo faticosa, quindi se n'è andata. Ogni tanto, so che manda ancora delle lettere a sua nonna da Berlino. Nonostante ciò, la leggenda sopravvive».
«Per quanto tutto ciò sia affascinante... cosa c'entra con Elizabeth?»
«È quello che vorrei sapere anch'io». Tiro le gambe sull'amaca in nylon, posando la testa sul cuscino di pizzo, e mi accascio al suo fianco. La sua vicinanza mi provoca un fremito lungo la spina dorsale. «Dal nostro viaggio a Clayton, Elizabeth era diventata ossessionata dalla storia di Céline. Ma, per quanto ne so, l'unico legame che potrebbe avere con lei è Jonas».
«Jonas?» obietta Keeley interdetta.
«Céline Dubois è la madre di Jonas... non lo sapevi?»
Un lampo stupito balena nel suo sguardo. «Ah».
Mi volto verso il cottage e lo osservo per alcuni secondi, eppure continuo a non provare niente.
È il luogo in cui Elizabeth è morta: vederlo dovrebbe farmi soffrire.
Invece, mi è sconosciuto, vuoto, come un guscio che è stato privato del suo seme... o meglio, dei suoi ricordi.
Posso quasi percepirli, sepolti in profondità nella mia mente, nascosti sotto le tenebre della coscienza.
Non ricordo, o non voglio ricordare?
Trattengo l'impulso di colpirmi la gamba per riuscire a sentire finalmente quel dolore che merito. Se non mentale, almeno quello fisico.
Invece, rimango immobile, desiderando solo essere punito per ciò che è successo a lei.
Per ciò che potrei averle fatto.
«Vengo qui quasi ogni giorno, da quando la polizia ha archiviato il caso». Ho l'impressione di non essere nemmeno io a parlare. «Speravo di riuscire a ricordare, o magari capire cosa cercasse Elizabeth nel cottage. Ma non c'è niente dentro, solo libri, foto e polvere».
«Non credo che torturarti psicologicamente sia la soluzione».
Emetto un sospiro e mi giro, ma Keeley è così vicina che il mio naso sfiora il suo. I nostri occhi si incatenano e, nei suoi, leggo un sentimento che non mi sarei mai aspettato. Dolcezza.
Mi accorgo che sta tremando, chiaramente infreddolita, e vorrei stringerla a me per scaldarla.
Sarebbe bello poterla abbracciare senza che i miei muscoli si tendano, senza che la paura scuota il mio corpo.
Ma è sufficiente il pensiero a rievocare la sensazione di un altro tocco... di lui. Le mani dell'uomo cattivo che mi facevano del male.
Sempre e solo male.
«Vuoi entrare?» le chiedo, indicando il cottage.
Lei continua a fissarmi, un'espressione indecifrabile sul viso. «No. E tu?»
«No». Esito per un istante. «Vuoi tornare a casa?»
Keeley ruota appena la testa e osserva il cielo, ormai una distesa violacea sempre più scura in cui, come frecce d'argento, sono spuntate le prime stelle. «No, voglio vedere il tramonto. E tu?»
Mi sfilo la giacca e la uso per coprirci entrambi. «Anch'io» sussurro, abbozzando un sorriso.
Mi perdo ad ammirarla.
Nelle sue iridi, grandi e luminose, vedo il sole morente tuffarsi sotto l'orizzonte, cullato dalle acque placide del torrente.
È come se vi fossero imprigionati gli ultimi raggi del giorno e, quando calerà la notte, lei sarà l'unica luce di cui avrò bisogno.
«Perché guardi me, allora?» ridacchia, spiandomi di sbieco.
«Perché il sole è nei tuoi occhi, Keeley».
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