32. L'ANGELO NERO
Un artiglio argenteo penetra dalla finestra della mia camera, affondando nello scudo di oscurità che attornia il cavalletto.
Al tenue chiarore della notte, l'immagine sulla tela sembra tremolare e il fiore di Kadupul, ancora incompleto, assume una cupa tonalità grigiastra.
Dalla scoperta della morte di mio padre, l'abbraccio di Morfeo è diventato una presa d'acciaio che mi imprigiona in una camicia di forza, una spirale di spettri senza volto e mostri senza nome.
Dopo un'ora passata a mordicchiare la punta del manico, il colore ormai solidificato sulle setole di pelo di tasso, mi arrendo di fronte alla mia mancanza di ispirazione.
Ripongo il pennello e, per l'ennesima volta, il mio sguardo si proietta sulla giacca nera abbandonata sul letto. Anche se ha perso il suo profumo, è ancora intrisa della sua essenza.
Ho trascorso l'ultima settimana all'insegna di un unico obiettivo: evitare Simon.
Il risultato è che non ci siamo rivolti più la parola da quel pomeriggio.
Ad essere onesta, ho la sensazione che anche lui non sia pronto a parlare del nostro bacio, di cui per ora siamo gli unici ad essere a conoscenza.
Forse, teme ciò che potrei dirgli... ironico, dato che nella migliore delle ipotesi dotrei fingere un attacco cardiaco per non restare imbambolata come un'idiota.
Avrei fatto altrettanto con Klaus, ma non è stato necessario: anche senza auto, il suo talento di sparire prima di colazione e ricomparire all'ora di cena non è venuto meno.
Di conseguenza, i nostri rapporti sono limitati a banali saluti, regolarmente accompagnati da battute pungenti tanto per infastidirci a vicenda.
E, questo, mi ha risparmiato una spiacevole situazione fino a questo momento.
Ma ora, al ricordo delle sue mani che mi posano quella giacca sulle spalle, una manciata di farfalle mi si libra nello stomaco.
Non mi ha nemmeno sfiorata, appena una leggera pressione attraverso la felpa, eppure quel gesto semplice e banale mi è rimasto impresso sulla pelle. Inciso nella carne ancora più del bacio con Simon.
Com'è possibile?
Mi imbaccuco in sciarpa e giubbotto, sopra il pigiama con le orecchiette da coniglio, infilo gli scarponi ed esco sul terrazzo, investita da un soffio glaciale di un vento che odora d'inverno, più che d'autunno.
Quando i miei occhi dardeggiano in direzione del balcone accanto, non mi stupisco di ciò che vedo.
Dentro di me, sapevo che l'avrei trovato lì. O, forse, lo speravo.
«Non riesci a dormire, ficcanaso?»
Disteso con terrificante disinvoltura sulla balaustra, lui mi rivolge uno dei suoi sorrisetti che gli scavano gli angoli della bocca.
Candidi fiocchi di neve si sciolgono nel nido di fili d'oro dei suoi capelli color miele o sulla sua camicia scura i cui bottoni scintillano nel buio.
«L'hai capito dal fatto che sono sveglia all'una?» commento sarcastica. «Perspicace».
«Mi dimentico sempre quanto sei insopportabile».
Klaus si tira a sedere, le gambe che oscillano oltre il bordo ghiacciato, e il mio cuore si ferma per un secondo al pensiero che potrebbe scivolare.
Mi schiarisco la gola, accertandomi che la voce non tradisca il mio timore. «Lo sai che un giorno diventerai una poltiglia bionda in giardino, vero?»
«Ti dispiacerebbe?» ridacchia, ma dalla sua espressione trapela della curiosità.
«Se tu cadessi sulla Maserati di Alizée, sì». Mi stringo nelle spalle, un brivido che mi attraversa la schiena per il freddo. O per i suoi occhi fissi su di me, non saprei. «Sarebbe un peccato rovinarla».
«Vieni con me» dice Klaus, tornando in piedi sul pavimento.
La sua richiesta mi coglie in contropiede, ma avverto il nodo che mi serra il petto allentarsi un poco. Almeno adesso non è in pericolo di morte.
«Sei scemo?» Indico lo spazio vuoto tra i balconi. «È un salto di... boh, non sono brava in matematica, ma più di tre metri, sicuro. Il mondo non è pronto a fare a meno di Keeley Storm».
«Non qui, piccola fifona». Klaus fa un cenno verso l'interno della propria camera. «In corridoio».
«Perché?» chiedo sospettosa.
Una nube si sposta e un raggio del chiarore lunare fa ardere le pagliuzze blu disperse nella nebbia dei suoi occhi.
«Voglio mostrarti una cosa».
Camminando di soppiatto, ci addentriamo nel labirinto di corridoi e saloni in religioso silenzio.
La villa, privata dei movimenti continui e dei rumori concitati che la animano di giorno, appare quasi inquietante, immersa nell'atmosfera di ombre pallide che danzano sulle pareti ornate di quadri e arazzi.
Ogni nostro respiro è un sussurro nell'oscurità e i nostri passi riecheggiano lugubri sul pavimento popolato di riflessi sinistri.
Capisco dove stiamo andando solo quando mi ritrovo di fronte ad un'infinita chiocciola di grandi gradini di marmo ed emetto un sospiro di plateale disperazione.
«Non sono fisicamente e mentalmente in grado di sopravvivere a tutti questi scalini».
Klaus scuote la testa, divertito. «Non sono così tanti. È che tu sei pigra».
«Posso montarti?»
Un cipiglio scioccato affiora sul suo volto. «Tu puoi... cosa?»
Senza rispondere, mi aggrappo alla sua schiena e gli cingo la vita con le gambe, stringendogli le braccia intorno al collo.
Gli ultimi rimasugli del profumo muschiato lasciano emergere il suo odore naturale. Un miscuglio inebriante di shampoo misto ad una fragranza intensa che non riesco a paragonare a niente... è semplicemente lui.
Come al solito, percepisco i suoi muscoli trasformarsi in una rete tesa e compatta di nervi, il corpo rigido come una statua -una statua di perfezione greca scolpita da uno scultore molto talentuoso, per l'esattezza.
«Ti sto toccando» mormoro da sopra la sua spalla.
Lo sento tremare leggermente, ma la sua voce è intrisa di un'insolita calma. «Lo so».
«Hai paura?»
Klaus gira la testa e conficca gli occhi nei miei, i nostri respiri intrecciati che bruciano i pochi centimetri che mi separano dal suo viso. Dalle sue labbra. «Devo averne?»
Le sue parole, cariche di una speranzosa preghiera, celano un'altra richiesta: dimmi che posso fidarmi di te.
«Di me, mai».
Contro le mie aspettative, Klaus riesce a portarmi fino in cima alle scale, ma è chiaro dal fiatone e dall'aria esausta che lo abbia fatto soltanto in nome di un puerile orgoglio maschile.
Per quanto sia forte, rimane comunque un ragazzo dal fisico snello e asciutto, pertanto devo essere stata un peso non da poco.
Nonostante ciò, si è rifiutato di farmi scendere anche se gliel'ho chiesto io stessa più volte.
«Sappi che se ti dovesse venire un infarto, non mi riterrò...»
In quel momento, Klaus apre la porta sprangata e mi ammutolisco, ammaliata dallo spettacolo che mi ritrovo davanti.
I miei passi risuonano ovattati sul soffice mantello di neve che ricopre il pavimento dell'ampio solarium che si protende dalla torre, come uno spuntone di roccia da una montagna.
Una Sunset Hills dormiente si stende cento metri più in basso. Una fanciulla ammantata di bianco che piange lacrime di ghiaccio, ghermita dalle mani pallide di scheletri protesi verso il cielo nero, trafitto da frecce di cristallo. Il fiume congelato ricorda un serpente di diamanti districato in un percorso sinuoso. Sulla sua superficie aleggia una nebbiolina eterea che la cosparge di polvere di brillanti.
Tutto è avvolto da una quiete surreale, una mistica immobilità, quasi la notte avesse cristallizzato il tempo in un attimo infinito.
«Il mondo è ai nostri piedi, adesso» sibila Klaus, ansimante, al mio orecchio.
Un'ovazione incantata lascia spontanea la mia bocca. «È... bellissimo».
Ci stendiamo sul manto candido, uno accanto all'altro.
Sopra di noi, una luna piena campeggia in un oceano di stelle, stralci di nuvole dense che creano una schiuma fosca sulle sue onde.
In quel vortice di argento e oro, il Lupo bianco si staglia su un pinnacolo di tenebre, ululando solitario ad un branco che non risponderà mai al suo richiamo.
Scaccio quei pensieri, ancora troppo dolorosi, e... «Guarda!» Indico un manipolo di punti luminosi conficcati nello sfondo scuro. «Secondo te, che cos'è?»
«Eh?» obietta confuso.
«Quelle stelle hanno una forma strana!» spiego con l'impazienza di chi fa notare una cosa ovvia ad un bambino davvero ottuso. «Tu cosa ci vedi?»
«Ehm, non saprei». La voce di Klaus è perplessa, ma c'è anche una punta di rilassata ilarità. «Un triangolo?»
«Che noia. Usa un po' di fantasia».
Gli assesto una gomitata nelle costole, o meglio poco sotto la gabbia toracica, facendolo ritrarre con un risolino involontario.
Mi sollevo su un gomito per fissarlo, un sopracciglio inarcato. «Soffri il solletico?»
«No no» risponde Klaus, un po' troppo precipitosamente.
«Sì, invece».
Cogliendo l'espressione dispettosa che si sta formando sul mio viso, a poco a poco si trascina lontano da me. «Non ci provare, Keeley».
«Non ho fatto niente» replico innocente.
«Sono serio, non...»
Non ha neanche terminato la frase che mi sono gettata su di lui, attaccandolo sotto le ascelle e sui fianchi.
Klaus cerca di proteggersi mentre si contorce sotto di me, in preda ad una risata incontrollabile.
Quel suono, limpido e bellissimo, che scaturisce dalla sua gola mi distrae e, mio malgrado, ne approfitta per ribaltare la situazione.
Senza rendermene conto, sono di nuovo sulla neve, le braccia bloccate dalla sua presa calda, ai lati della testa.
Lui incombe su di me, così vicino che il suo petto mi sfiora il seno e le punte fredde dei nostri nasi si scontrano. La sua cicatrice risplende come una lama, bianca e sottile, infondendo al suo volto un connubio di delicata dolcezza e intrigante mistero.
Io, però, non riesco a staccare lo sguardo dalle sue labbra, che depositano ardenti fiotti d'aria sulle mie guance.
Ogni cellula del mio corpo brama l'unione delle nostre bocche e quel desiderio brucia dentro di me, un punto preciso nel “basso ventre”.
Voglio assaggiare il sapore dei suoi baci e affondare le dita nei suoi capelli biondi.
Voglio toccare la cicatrice sul suo occhio e posare la testa sul suo petto per sentire l'eco del mio cuore nei suoi battiti.
Voglio... lui.
Ma so che non posso.
Forse, se fossimo stati diversi, allora sarebbe stato possibile.
Invece, siamo entrambi troppo feriti dai nostri demoni, troppo perseguitati dai nostri incubi.
Le sue cicatrici non possono essere guarite da qualcuno che ancora sanguina per le proprie.
Klaus rimane fermo per almeno un minuto, l'argento liquido delle sue iridi che si mescola all'ambra dei miei occhi in un legame vibrante di trepidazione. «Scusa» sussurra a fil di voce.
«Scusami tu».
«Per cosa?»
Sfodero un sorriso malizioso. «Per i pensieri sconci che ho appena fatto su di te».
«È normale. Sono incredibilmente affascinante» ammicca ironico.
Mi libera i polsi e si lascia ricadere al mio fianco, tornando ad ammirare le stelle. Esitante, la sua mano trova la mia e la stringe con delicatezza, i calli dei suoi polpastrelli che premono sul mio palmo.
È la prima volta che cerca un contatto con me.
All'improvviso, la sua voce fende il silenzio. «E tu, invece, cosa vedi?»
Lo sbircio di nascosto, travolta da una tempesta elettrica di un sentimento che mi penetra nelle ossa e si fonde con la mia anima.
Non esiste nessuna parola che renderebbe giustizia a quanto è bello in questo momento. Perfino la dea della notte sembra venerarlo con carezze di luce soffusa sulla sua corona dorata.
Simon è attraente, ma non può competere con quella bellezza maledetta che ti ammalia nel fascino del proibito.
È come le colonne d'Ercole che hanno attirato Ulisse, trascinandolo tra le fiamme dell'inferno per un viaggio di cui non si è mai pentito.
È come... «Un angelo nero» mi lascio sfuggire.
Klaus increspa la fronte, lo sguardo ancora rivolto verso il cielo. «A me non sembra».
«Cosa?»
Accenna con il mento alla scia di stelle che gli ho mostrato prima e una vampata d'imbarazzo mi assale.
Non era proprio ciò a cui mi riferivo, in realtà.
«Se non hai immaginazione non è colpa mia» commento in tono nervoso. «Il vertice in alto è la testa, quei due in basso sono i piedi delle gambe aperte. Quelle cose minuscole a destra e a sinistra sono le ali. E quel puntino tra le ginocchia è il salsicciotto... lungo perché gli angeli sono dotati. È ovvio».
«Ovvio» ribadisce Klaus sogghignando.
«Adesso quella è la nostra costellazione segreta. Quando la guarderai, sarà come se fossimo insieme». Le parole di mio padre riemergono nella mia mente. «Parla, ed io ti ascolterò. Piangi, ed io asciugherò le tue lacrime».
Faccio una breve pausa, e aggiungo: «Non devi dire il suo nome a nessuno, però. Quello è il nostro angolo di cielo».
Klaus mi scocca un'occhiata intensa, abbozzando un mezzo sorriso. «A volte, vorrei vedere il mondo con i tuoi occhi».
No, fidati, nessuno vorrebbe essere come me.
«Perché hai rubato il tesserino di Alan?»
La domanda gli strappa un sussulto e la sua bocca si spalanca, fissandomi stupito. «Come lo sai?»
«Avevo il dubbio da un po'. Hai abbracciato Alan, e questo mi è sembrato strano. Sapevo delle tue doti di ladro dalla prima volta che siamo andati a Baker Street, quando mi hai preso il coltellino senza che me ne accorgessi». Scrollo le spalle. «Avevo il dubbio che avessi fatto la stessa cosa. E infatti, mentre ti facevo il solletico, ho sentito un oggetto rettangolare nella tua tasca. Ricordo che guardavi il tesserino di Alan in modo strano ed eri molto interessato alla Walker Agency».
«Wow» esclama sbigottito. «Hai un futuro come investigatrice privata».
Non è difficile intuire che sta cercando di sviare la mia attenzione. «Dunque?» lo incalzo.
Una maschera tetra cala sul suo volto, rabbuiandolo. «Lascia stare. Meno ne sai, meglio è».
«Alan si sarà accorto di non averlo più. Se io gli dicessi che ce l'hai tu, potrebbe denunciarti. O, comunque, se lo riprenderebbe».
In verità, è una minaccia vana, sono consapevole che non lo farò mai.
Sia perché detesto fare la spia, sia perché non rivolgo la parola ad Alan dalla mattina che mi ha riaccompagnata a casa.
Ho ignorato anche tutte le sue decine di chiamate e, l'unica volta che si è presentato di persona, ho accuratamente fatto in modo di sgattaiolare fuori dalla porta sul retro.
«Keeley...»
Incrocio le braccia sul petto. «Io mi sono fidata di te» sottolineo ostinata.
Klaus emette un sospiro rassegnato e si abbandona di nuovo sulla neve, le goti rosse per il gelo. «Il tesserino mi serve per introdurmi nella sede della Walker Agency, a Clayton. È l'unico modo che ho per entrare negli archivi del loro personale».
Corrugo la fronte, interdetta. «Perché mai dovresti...»
Mi blocco, altri pezzi che si collegano nel mio cervello come le tessere del puzzle più complicato della storia.
«Stai cercando qualcuno che lavora per l'agenzia, vero?» L'immagine del suo taccuino galleggia davanti ai miei occhi. Ripeto tra me la frase scritta in testa alla pagina: “Qual è il legame?”. «L'uomo buono lavora per l'agenzia? È lui che stai cercando? Ma allora perché c'era un elenco di nomi di donne nel tuo non-diario segreto?»
Il silenzio che segue si protae così a lungo che già ho iniziato a meditare sulle possibili argomentazioni, o più probabilmente invettive, a cui ricorrere per costringerlo a vuotare il sacco.
Invece, Klaus riprende a parlare, il suo sguardo perso nel vuoto, vitreo e assente, i pensieri rivolti ad un passato mai abbastanza lontano.
«È curioso. L'uomo buono mi ha salvato la vita, mi ha dato una seconda occasione... e non ricordo quasi niente di lui. So solo che era gentile con me, come nessuno lo era stato per tanto tempo». La sua voce è così piatta e apatica da farmi accapponare la pelle. «Però ricordo la donna da cui mi portò, la stessa che mi ha accompagnato in America da Alizée. Non so come si chiamasse, non me lo disse, ma vidi di sfuggita il simbolo della W sul suo tesserino, simile a quello di Alan. All'epoca non sapevo che cosa significasse, fino a qualche mese fa, quando ho scoperto dell'esistenza di un'agenzia di adozioni chiamata Walker Agency... grazie ad Elizabeth».
Quel nome riecheggia nelle tenebre, trasportato da un vento sempre più flebile. Non mi ero neanche accorta che avesse smesso di nevicare.
«Se trovo lei, trovo l'uomo buono». Un sorriso malinconico affiora sulle labbra di Klaus. «Potrò ringraziarlo, Keeley. Dopo sette anni, potrò finalmente ringraziarlo».
Rimango immobile, paralizzata. Se potessi vedermi dall'esterno, probabilmente mi comparirebbe di fronte una ragazza dall'espressione inebetita, pallida quanto lo strato di neve in cui è affondata.
Non provo niente, nemmeno un minimo moto di sorpresa, neanche una fitta di dolore, nonostante il sospetto che si sta consolidando sempre di più nella mia mente.
Mi sento come qualcuno che ha ricevuto talmente tanti colpi da essersi assuefatto alle sferzate della frusta che la verità gli abbatte contro con inesorabile lentezza.
«Klaus, devo venire con te a Clayton».
Lui scatta a sedere con un balzo, la testa che saetta nella mia direzione così rapidamente da farmi temere che gli si sarebbe spezzato il collo. I suoi occhi tradiscono una profonda preoccupazione. «No. Non voglio coinvolgerti, non...»
«Sono già coinvolta» lo interrompo, una calma spettrale riflessa nel mio tono.
«Cosa?»
Per alcuni secondi, continuo a guardare l'Angelo nero, le sue stelle che sfavillano di un chiarore al confine tra l'argento e l'oro. I suoi occhi e i miei, racchiusi tra quei astri celesti.
Le costellazioni segrete hanno il potere di legare due anime... ma ora mi chiedo se le nostre non fossero già unite dal destino.
«Klaus, credo di conoscere la donna della Walker Agency che ha aiutato l'uomo buono» mormoro, spostando lo sguardo in cerca di un'altra costellazione segreta, un'altra anima perduta.
«Si chiama Gladys Turner. Ed è la ragione per cui mio padre è morto».
Da qualche parte, dai meandri oscuri della notte, l'eco remoto di un ululato squarcia il silenzio della notte.
Ma tutti sanno che non ci sono lupi a Sunset Hills.
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