31. IL PASSATO
Odio il rap.
È una verità che mi è stata chiara fin da quando, alla tenera età di nove anni, ho rigettato un triplo cheeseburger sotto le note di Mockingbird.
È stata un'esperienza così traumatica che il mio cervello, per meccanismo di difesa, ha attribuito la colpa a tutti i cantanti della risma di Eminem.
Rinunciare al rap era più umano che rinunciare ai cheeseburger.
Per questa ragione, ho deciso di coronare la peggiore giornata della mia vita con una playlist di brani appartenenti a questo genere.
Il risultato è che, alle sei di sera, sto ancora saltando per la biblioteca mentre ascolto Jim Dean sparata a tutto volume nelle mie orecchie.
Nonostante ciò, i miei pensieri riescono a sovrastare il frastuono assordante della musica, serrandomi nella morsa di una confusione assoluta.
Tre domande continuano a tormentarmi, malgrado gli sforzi per confinarle in un angolo remoto della mia mente.
Perché ho baciato Simon?
Perché pensavo a Klaus mentre baciavo Simon?
Perché quel gatto è inquietante?
Ho trascorso le ultime ore a nascondermi da entrambi quei fratelli Hallander. E dal bambino demoniaco.
Ho evitato anche Eileen, dato che potrebbe mettermi il cianuro nel cappuccino della colazione, se dovesse scoprire cos'è successo.
Ho baciato Simon.
Non avrei dovuto farlo, non sono neanche certa che lo volessi davvero, ma avevo bisogno di qualcosa a cui aggrapparmi. Di provare un sentimento che non fosse il dolore.
La verità è che desideravo soltanto sentirmi di nuovo amata, e sono stata tanto egoista da non pensare alle conseguenze.
Per pochi preziosi secondi, sono riuscita a dimenticare che ho perso tutto: mia madre, mia zia, mio padre... la mia famiglia.
Simon era l'antidoto al veleno che mi consumava. Mi ha fatto stare bene, come non mi succedeva da tanto tempo e come credevo non sarei mai più stata.
Ma è sufficiente per definirlo amore?
«Al diavolo».
Mi accascio sulla sedia e tolgo gli auricolari, da cui ancora si propaga il brusio della canzone.
Mi volto appena verso sinistra e noto che Sparrow non ha smesso di scrutarmi, acciambellata sul davanzale.
«Ti invidio» sospiro rassegnata. «Se fossi castrata come te, avrei molti meno problemi».
All'improvviso, qualcuno si schiarisce la gola alle mie spalle e rovescio la testa all'indietro sullo schienale. La figura al contrario di Edric si staglia davanti ad una delle finestre ad arco, il vetro istoriato che getta riflessi blu e rossi sui suoi capelli color inchiostro.
«Potrei chiederti perché stavi ballando come una scimmia ubriaca in biblioteca o perché parli con un gatto» mi dice in tono austero. «Ma non lo farò per il bene della mia sanità mentale».
Mi supera con indifferenza, si siede al capo opposto del tavolo e apre un enorme libro rilegato in pelle su cui sono incisi filetti d'oro e fregi sul dorso.
Con un balzo, la gatta atterra leggera sul pavimento d'ebano e, attraversata la sala, comincia a strusciarsi ai suoi piedi.
«Fantastico» esclamo ironica. «Sono l'unica che odia allora».
Con un lieve sorriso, Edric si china per raccogliere Sparrow, che gli si accoccola sulle gambe a pancia scoperta. «Non si fida di te. È stata abbandonata da piccola ed è molto diffidente verso gli estranei. L'ha trovata Klaus con una zampa ferita in mezzo alla strada».
Il suo nome mi provoca una fitta nella parte sinistra del petto. E deve essere visibile anche dall'esterno, a giudicare dallo sguardo perplesso che mi rivolge Edric.
«Che hai?» domanda scontroso.
«Credo che questo sia il discorso più lungo che tu abbia fatto con me da quando sono arrivata».
«Avevo quasi pensato che fosse una cosa seria».
Continuando ad accarezzare il pelo cinereo della micia con una mano, si immerge nella lettura. Dopo pochi secondi, però, i suoi occhi di ghiaccio si staccano dalla pagina e incrociano i miei.
«Mi stai fissando».
Annuisco. «Lo so».
«Beh, smettila. È fastidioso».
Torna a concentrarsi sul suo libro, picchiettandosi la matita sul mento. Passa un minuto e borbotta irritato: «Lo stai ancora facendo».
Le parole lasciano le mie labbra in maniera disinibita, prima che riesca ad impedirlo. «Ti sei mai innamorato di qualcuno per cui non avresti voluto provare sentimenti?»
Edric si paralizza e, malgrado il capo abbassato, posso vedere il suo viso che si rabbuia.
«Forse» sibila in tono tetro.
Giocherello con i lacci della felpa. «E come hai fatto?»
«Sono stato onesto con...» Esita per istante. «... lei».
Chissà se la "lei" in questione è Alaric o Daniel.
«E com'è finita?»
«Male». C'è qualcosa di triste, quasi doloroso nella sua voce. «Posso studiare, o devo farti ancora da Cupido?»
«Sei antipatico». Emetto un mugolio dovuto all'incredibile sforzo di alzarmi. «E poi per essere un vero Cupido dovresti farti almeno la tinta rosa».
Edric mi scocca un'occhiata gelida, identica a quella della madre, ma rimane in silenzio.
«Una domanda». Punto l'indice nella sua direzione, ottenendo in risposta un sospiro esasperato. «Se avessi una cotta per me...»
«Non ce l'ho».
«Tranquillo, non mi metterei mai tra te e il ragazzo gelloso». Ignoro la sua espressione omicida e proseguo: «E se tu mi stessi cercando...»
«Non lo farei».
«Dove non penseresti mai di trovarmi, a parte in biblioteca?» concludo.
«Fuori da un manicomio».
Assotiglio le palpebre con fare minaccioso. «Vuoi arrivare al prossimo compleanno con tutti gli organi interni, vero?»
Edric rotea gli occhi, grattando Sparrow dietro l'orecchio. «In palestra».
«Stai insinuando che sono pigra?»
«Sì».
Inarco un sopracciglio. «Potremmo diventare buoni amici, io e te».
«La mia sfortuna non ha proprio limiti» sentenzia Edric torvo.
La palestra della villa si trova nell'ala destra del pianoterra, non lontana dall'accesso alla torre.
Ovviamente, è dotata di ogni attrezzatura possibile, dai classici tapis roulant e cyclette fino alle pareti da arrampicata e le pedane vibranti. Al centro, c'è anche un ring da pugilato circondato da sacchi per l'allenamento. Nella zona antistante, invece, sono collocati materassini e pedane e tutto ciò che serve per il karate.
La mia attenzione, però, viene attirata dalla salmon ladder su cui Liam sta offrendo uno spettacolo mozzafiato.
Con una sbarra orizzontale, sale un gancio dopo l'altro la scala con la sola forza delle braccia.
Ad ogni slancio del busto, i suoi bicipiti si contraggono e gli addominali scolpiti diventano ancora più accentuati.
Il suo fisico marmoreo è imperlato di gocce di sudore, che scivolano tra i solchi dei muscoli sodi e definiti, che gli guizzano sul torace, fino all'elastico dei pantaloni sportivi.
«Mamma e papà hanno fatto un gran bel lavoro con voi» osservo ammirata.
Liam rimane sospeso all'asta metallica, il corpo diritto e teso che scintilla alla luce calda e intensa delle plafoniere a led.
Abbozza uno dei suoi sorrisi educati, guardandomi dall'alto. «Ti serve qualcosa, Keeley?»
«A me no». Accenno ad Arianne, che lo sta spiando con aria sognante mentre finge di pulire una panca per le trazioni ormai lucidissima. «A lei, invece, un fazzoletto per pulirsi la bava».
Con un clangore stridente, Liam si solleva al gancio successivo, facendo deglutire la ragazza a pochi metri da noi.
«Dove siete stati stamattina, tu e mio fratello? Di certo, non a scuola».
Al ricordo del mio incontro con Gladys, il mio stomaco prende a contorcersi come un serpente.
«A ballare il tango». Scrollo le spalle con forzata indifferenza. «Ho notato che non vai d'accordo con il tuo vecchio. Come mai?»
Liam si lascia cadere a terra, piegando appena le ginocchia all'impatto. Ciocche castane gli ricadono sulla fronte bagnata, così lucenti da sembrare quasi bionde.
«Quando Klaus ha compiuto diciotto anni, il ventitré luglio, mio padre ha cercato di cacciarlo di casa» spiega con incredibile naturalezza.
Rimango a bocca aperta, stupefatta. In realtà, volevo solo cambiare argomento, difatti non pensavo che mi avrebbe risposto davvero.
Di solito, nessuno lo fa.
«Per la legge del Missouri, si diventa maggiorenni a diciassette, quindi dal suo punto di vista era stato fin troppo tollerante con lui». Liam prende un asciugamano e se lo passa sul collo per asciugarsi. Da come lo sta guardando, ho la sensazione che Arianne si sarebbe offerta volentieri di aiutarlo. «Sono stato io ad impedirglielo. Da allora, i nostri rapporti sono un po' tesi».
«Cosa sai del padre di Klaus?»
I suoi occhi glauchi si conficcano nei miei, mettendomi a disagio. Ha lo stesso sguardo di Ian, profondo e imperscrutabile, l'unica cosa che i due hanno in comune. Per il resto, la somiglianza fisica è pressoché inesistente. «Mio fratello ti ha parlato di Michael?»
Aggrotto la fronte, cogliendo la nota di sorpresa nel suo tono. «Più o meno, sì. Perché?»
«Curioso. Non lo ha mai fatto con nessuno». Il solito lieve sorriso torna a fare capolino sulle sue labbra, ma sembra quasi triste. «Devi essere speciale, Keeley Storm».
«No, ero solo ubriaca» taglio corto. «E tu non hai risposto».
Liam si infila i guantoni e si avvicina ad uno dei sacchi da boxe. «Ti dispiace se mi alleno mentre parliamo?»
«Oh no. Quando Dio è generoso, dobbiamo approfittarne» ammicco maliziosa.
Da lontano, intravedo Arianne che mi fulmina con un'occhiataccia. Ops, deve avermi sentita.
«La famiglia Waylatt viveva a Baker Street e aveva scarse disponibilità economiche» esordisce Liam, cominciando a colpire il sacco. «A differenza di suo fratello Vincent, che finiva continuamente nei guai tra risse e furti, Michael era considerato da tutti un bravo ragazzo».
Mi lascio sfuggire un'ovazione disorientata, ma decido di non interromperlo. Per ora.
«E doveva esserlo, almeno all'inizio. Perché altrimenti dubito che sarebbe mai diventato amico di mia madre».
Ovviamente, il mio proposito di rimanere in silenzio si infrange a quella notizia. «Michael e Alizée erano amici?» ripeto scioccata.
«Non so come si fossero conosciuti. Appartenevano a due mondi completamente diversi e avevano personalità opposte, ma per un crudele scherzo del destino accadde». Liam sferra un pugno così forte da farmi pensare che avrebbe sfondato il sacco. «E non sarebbe stato un problema, se solo Michael non si fosse innamorato di lei».
«E Alizée non lo ricambiava, giusto?»
Mi fa un cenno d'assenso. «Esatto. Gli voleva bene, certo, ma nulla di più. Soprattutto perché era già attratta da un altro ragazzo, o almeno è ciò che si dice».
«Ian?» suggerisco.
«Non ne ho idea, ma non credo». Un lampo divertito balena sul suo volto, ma percepisco dell'amarezza nella sua voce. «I miei genitori non si sono mai amati. Il loro matrimonio è stato per pura convenienza economica».
«Che schifo».
«Benvenuta nel mondo dei ricchi» ribatte Liam ironico. «Quando Michael scoprì del fidanzamento ufficiale con Ian, dichiarò ad Alizée i suoi sentimenti, pur sapendo che ormai era tardi. Ovviamente, venne rifiutato e questo fu un duro colpo per lui. Prese una brutta strada e, una volta, fu perfino arrestato per aggressione insieme ad un suo amico di cui non conosco il nome. Sarebbero finiti in prigione, se mio padre non avesse ritirato la denuncia».
Un brivido gelido mi attraversa la schiena. Non è difficile immaginare di chi sta parlando. «Avevano aggredito tuo padre?» mormoro sempre più confusa.
«Neanche la chirurgia plastica è bastata a raddrizzargli del tutto il naso».
Sbatto le palpebre, incredula, sentendo gli ingranaggi del mio cervello che lavorano a pieno ritmo.
Ian mi aveva detto di conoscere mia madre... possibile che non sappia che sono la figlia dello stesso Maxwell Storm che ha aiutato Michael a spaccargli il naso?
«Comunque, pochi mesi dopo la nascita del sottoscritto, Michael si imbucò alla festa di Halloween della Black High School. Si ubriacò e guidò fino a qui. Fu Carol ad aprirgli» riprende Liam, un'ombra calata sulle sue iridi cerulee. «Mia madre lo reputava ancora un amico. Poiché era notte fonda, non c'era quasi nessuno del personale e lei mandò via anche i pochi presenti. Voleva evitare che si spargessero spiacevoli pettegolezzi che sarebbero potuti arrivare a mio padre... e rimasero da soli».
Quelle ultime parole sono cariche di un messaggio implicito che non ha bisogno di essere enunciato.
Entrambi sappiamo ciò è successo in seguito.
«Non so quanto tempo durò, ma so che erano le due di notte quando Céline Dubois, amica di mia madre, tornò alla villa. Viveva con i miei genitori perché aveva litigato con i suoi, che non approvavano la sua relazione con un ragazzo di una famiglia che loro ritenevano troppo "umile"».
Anche se il suo tono è pacato come sempre, il colpo successivo è più duro e rabbioso, tanto che il sacco si stacca e crolla sul pavimento, strappandomi un sussulto. «Vide Michael che se ne andava e trovò lei sul letto, nuda e tremante. Terrorizzata».
Non posso dire di nutrire simpatia per Alizée, e non credo che ciò che ha passato giustifichi il suo comportamento verso Klaus, ma non posso che provare un moto di compassione nei suoi confronti.
Nessuna donna merita di subire una cosa del genere. Anzi, nessuno lo merita e basta.
No significa no, sempre.
Intanto, un altro tassello del puzzle si colloca al suo posto. Céline Dubois deve essere colei che ha testimoniato contro Michael nel processo.
La versione di Liam sembra combaciare perfettamente con quella di Gladys... allora, per quale ragione non sono convinta?
Forse, semplicemente, voglio credere che lei abbia mentito per avere una speranza che non tutto ciò che ha detto fosse vero. Ad esempio, la morte di mio padre.
Invece, più cerco e più sembra che Gladys sia stata sincera.
«Un'ultima cosa». Decido di porre una domanda che mi tormenta da quando mi sono ricordata della favola. Una domanda che non potevo fare a Klaus. «Perché Alizée non ha... sì, insomma... abortito?»
«Ti ho già parlato di mia nonna, vero?»
«Quella con la mazza da baseball?»
Liam sfodera un mezzo sorriso e annuisce. «È molto religiosa. Secondo lei, quel figlio era un "dono del Signore". E, per quanto maschilista, Jonathan Blackwood era devoto alla moglie, più che a Dio, quindi costrinse mia madre a tenere il bambino».
«Pensi che abbia sbagliato?»
Liam si stringe nelle spalle e, per la prima volta, la sua stoica compostezza viene intaccata e appare alquanto intimidito.
«Keeley, io... amo profondamente Klaus. È mio fratello e non mi sentirai mai dire che avrei preferito che non nascesse» sussurra, come se mi stesse confessando un segreto di cui si vergogna. «Ma quella scelta spettava a mia madre».
«Tu le vuoi bene?» Non riesco a trattanere un pizzico di perplessità. «Ad Alizée, intendo».
La risposta di Liam è intrisa di un'angoscia mista a dolcezza. «Amo la madre che sarebbe potuta essere, molto più di quella che è stata».
***
P.O.V. Klaus
Stupido, stupido, stupido...
Ripeto quella parola all'infinito nella mia mente, prendendo a calci il sottile strato di neve che ricopre il sentiero di ghiaia.
In poche ore, il manto erboso del parco si è trasformato in una liscia distesa candida e le fronde spoglie degli alberi si sono incappucciate di cumuli bianchi che piegano i rami sotto il loro peso.
Con una temperatura che rasenta lo zero e un clima rigido battuto da un vento feroce, la natura sembra essersi dimenticata che è ancora autunno.
Nonostante ciò, e aggiungendo che indosso solo una felpa sopra una canotta di lino, mi accorgo a stento del freddo.
La rabbia e l'odio mi avvolgono nel loro tepore, un fuoco di puro disprezzo che mi brucia l'ossigeno nei polmoni e mi fa ardere il sangue nelle vene.
Il ricordo di quello che è successo mi tormenta, senza concedermi un attimo di tregua.
Non credevo che avrei mai potuto detestare me stesso ancora di più... fino ad oggi.
Dopo quel giorno, avevo giurato che non sarei mai più stato impotente,
come lo era il bambino che, rannicchiato nel suo cantuccio, aspettava obbediente l'uomo cattivo, troppo spaventato per fuggire da una porta aperta.
Invece, è bastato un maledetto armadio per abbattere ogni mia difesa e riportarmi in un passato di cui non riesco a liberarmi.
Di colpo, sono tornato a sette anni fa. Ho sentito di nuovo il terrore che mi attanagliava lo stomaco, i conati che mi salivano in gola, il caldo soffocante, le lacrime lungo il viso, il dolore dei lividi pulsanti.
Ed infine ho udito ancora una volta il suono che è rimasto impresso nella mia anima: l'eco inesorabile dei passi sulle scale.
Keeley non ha esitato un secondo a lanciarsi contro il pericolo. Non poteva sapere che fosse quel suo amico, eppure lo ha affrontato comunque a testa alta.
Se le fosse successo qualcosa, se le avesse fatto del male, la colpa sarebbe stata mia. Solo mia.
Perché avrei dovuto proteggerla io, non il contrario.
Invece, non sono riuscito a muovermi, prigioniero dei miei demoni, della stessa paura viscerale che mi aveva tenuto bloccato in quella cabina armadio fino a che l'uomo buono mi ha salvato.
Probabilmente, adesso lei penserà che sono un codardo, un essere fragile che non può difenderla.
E ciò che è peggiore è la consapevolezza che ha ragione.
Sono stato debole, sono debole.
Forse, questa è l'unica verità che mi abbia mai detto lui, ed è anche la più dolorosa di tutte.
In questo momento, meriterei davvero una delle sue punizioni.
Assorto nelle mie riflessioni, i miei piedi continuano a camminare in maniera meccanica, guidati da un'abitudine consolidata nel tempo.
Nell'ultimo anno, ho fatto questo tragitto decine e decine di volte... ed Elizabeth era sempre al mio fianco. Entrambi nervosi e agitati prima delle esibizioni, euforici e soddisfatti dopo.
Ora, invece, la solitudine è la mia unica compagna, insieme al suo indelebile ricordo.
Mi guardo intorno, osservando distrattamente i bambini che giocano sulle altalene e i liceali che, esaltati per la fine delle lezioni, si rincorrono nella neve.
Alcune ragazze mi allungano occhiate di languida bramosia e ridacchio al pensiero che più della metà di loro perderebbe tutto l'interesse nei miei confronti, se sapesse che non permetto a nessuno di toccarmi.
Come sempre dal quindici agosto, molti dei presenti, soprattutto fra i miei coetanei, mi stanno additando o confabulano tra loro, il mio nome sussurrato non abbastanza piano da non farsi scoprire.
Nella piccola cittadina di Sunset Hills, se sei un Hallander accusato di omicidio è difficile non essere notato. E, con una vistosa cicatrice sull'occhio, è pressoché impossibile non farmi riconoscere.
Li ignoro ed estraggo il telefono dalla tasca. Scorro rapidamente la rubrica fino al suo nome, ma rimango fermo con il dito intirizzito ad un centimetro dallo schermo.
Esito per almeno un minuto, alla fine però il desiderio impellente di sfogarmi prevale.
La verità è che ho bisogno di un consiglio, di sentirmi dire che non sono una persona orrenda o vigliacca.
E lui è l'unico a cui io possa rivolgermi, l'unico disposto ad ascoltarmi.
O, almeno, lo era in passato...
"E anche Liam" suggerisce una vocina dentro di me, ma la confino subito in un anfratto della mia mente.
Sono ancora troppo arrabbiato per il fatto che mi ha sequestrato le chiavi dell'auto. E poi odio mostrarmi vulnerabile con il mio fratello maggiore: mi fa sentire un bambino.
Ad ogni squillo a vuoto, la mia speranza inizia a vacillare, la tensione che accresce tra uno e l'altro per poi spezzarsi in una vana delusione che culmina quando si avvia la segreteria.
Mi schiarisco la gola, imbarazzato. «Ehm, ciao Matt. Scusa se ti disturbo, questo sarà il centesimo messaggio che ti lascio...» E tu li hai ignorati tutti. «So che sei impegnato, alle Hawaii, con il sole e il surf, ti starai divertendo moltissimo. Se dovessi avere un momento libero, anche cinque minuti, mi servirebbe... cioè, vorrei parlarti. So che hai chiamato Edric per il suo compleanno, ma non hai chiesto di me».
Faccio una breve pausa per accertarmi di non lasciar trapelare la mia delusione.
«Tuo fratello Ian è tornato. Magari, potresti fare un salto da noi anche tu. Ho imparato a suonare la sonata numero diciotto di Mozart, come volevi. Quando vieni, potrei fartela sentire, se ti va».
Per un secondo, l'idea di renderlo fiero di me mi provoca un moto di infantile gratificazione. «Ti aspetto, zio. Richiamami, per favore». E riattacco.
Con un sospiro, mi rendo conto di essere giunto a destinazione.
Il vecchio ponte che collega le due sponde della città è uno dei posti che preferisco.
Costruito nella forma a schiena d'asino, la parte centrale più alta delle estremità, presenta tre piccole arcate costituite da blocchi squadrati di pietra bianca.
Le acque sottostanti sono imprigionate da una sottile patina di ghiaccio che ne riveste la superficie. Le dolci curve del fiume si perdono nell'orizzonte ammantato di grigio, ornato da nuvole leggere e pallide che divorano il sole.
Mi stendo sul muretto congelato dalla brina, le gambe distese e le dita intrecciate sul ventre, sfiorando i graffi che mi sono scavato sul dorso della mano.
I fiocchi di neve che danzano nell'aria gelida mi depositano baci pungenti sul volto e si tramutano in gocce fredde che mi rigano le guance come lacrime.
Circondato dai suoni della natura, mi abbandono ad un profondo senso di pace: gli starnazzi delle anatre, il fruscio lieve degli uccelli, gli squittii degli scoiattoli, il crepitio dei rami sommersi dalla neve...
Faccio vagare lo sguardo nell'immensità del cielo e la mia mente si estranea da tutto, librandosi leggera nel vento, spogliata dagli incubi che mi tormentano.
Dall'alto, ogni cosa diventa piccola e insignificante, tranne te che senti di essere un gigante che si erge in cima ad un mondo che non può ferirlo. Immune dal dolore, guarito dalle cicatrici, cullato dalla solitudine... finalmente libero.
"So che non ti butti, ma è davvero terrificante vedertelo fare".
La mia bocca si increspa in un sorriso mentre lascio riemergere quella voce dolce, venata di sincera apprensione.
Tutto in lei era così puro da farla apparire un miraggio, che il caso o il destino avevano mandato ad illuminare la mia vita.
Invece, sono state le mie tenebre a spegnere la sua luce.
"Vieni qui con me, Liz".
Il suo volto aleggia nel nulla dei miei occhi socchiusi. Le sue pietre d'ambra che tradivano il timore che cercava di nascondere sotto un'espressione spavalda. Si mordicchiava il labbro, come sempre quando ragionava su qualcosa.
"Sappi che, se cado e muoio, il mio fantasma ti perseguiterà per sempre, Klaus Hallander".
Oggi come allora, quelle parole mi strappano una lieve risata.
"Mmh, sono quasi tentato".
Le guance le si erano gonfiate in maniera adorabile, simbolo che cercava di fingersi arrabbiata, ma con scarsi risultati. "Idiota".
Le avevo teso una mano per aiutarla a mettersi seduta a penzoloni al mio fianco.
Elizabeth si era aggrappata al mio braccio, facendo irrigidire tutti muscoli del mio corpo, ma le erano bastate poche parole per farmi rilassare.
"Non lasciarmi" aveva sussurrato, evitando di guardare in basso.
"Mai".
Aveva sempre avuto il potere di calmarmi, come se una parte di me sapesse che potevo fidarmi perché non mi avrebbe fatto del male.
Con lei ero al sicuro.
Nessun altro era mai riuscito a farmi sentire così protetto, compreso e felice.
Prima di Keeley.
Da quando è arrivata, ho provato in ogni modo a starle lontano.
Ho un obiettivo, un compito da portare a termine e non posso permettermi distrazioni.
Eppure, una coincidenza dietro l'altra, sono stato trascinato sempre di più verso quella ragazza dai capelli blu e il carattere più eccentrico della storia.
Per qualche ragione, le ho anche raccontato la mia storia, la sera che l'ho riaccompagnata a casa dalla Taverna.
Era ubriaca ed ero certo che si sarebbe dimenticata della mia favola e allora, senza neanche accorgemene, mi ero ritrovato a confidarmi con lei.
Peccato che il mio piano geniale era andato in frantumi quando anch'io ero scivolato nel sonno... dopo essere rimasto a fissarla dormire per più di un'ora.
Era stato un errore, avrei dovuto andarmene subito, ma era così bella in quel momento.
La sua maschera d'ironia era scomparsa, sostituita da un'espressione quieta e pacifica che infondeva al suo volto una tenerezza disarmante.
Mi chiedo se Keeley sappia che, quando dorme, la punta della lingua le sporge leggermente da un angolo della bocca. O che fa versi strani che la fanno somigliare ad un alieno.
Di certo, non ha idea di quanto avrei voluto darle un bacio sulla fronte oppure scansarle il ciuffo ribelle dal naso.
All'improvviso, la canzone degli Imagine Dragons mi strappa ai miei pensieri.
Con un tuffo al cuore, sbircio il telefono, ma la chiamata non è da parte di Matt.
Una voce imperiosa mi trapassa il timpano. «Muovi il sedere e torna subito a casa».
Posiziono lo schermo ad una distanza di sicurezza dall'orecchio. «Ciao anche a te, sorellina».
«Dove sei?»
Scrollo le spalle, pur sapendo che non può vedermi. «In giro».
«Papà è tornato» annuncia Eileen allegramente.
«Evviva». Il mio tono è intriso di avvelenato sarcasmo. «Ed ecco perché sono in giro».
«So che lo stai evitando, ma Toby non vede l'ora di salutarti. È rimasto male quando ha scoperto che non eri con noi».
Che mossa sleale!
Sa benissimo che farei qualsiasi cosa, pur di non ferire il mio fratellino più piccolo.
Emetto uno sbuffo esasperato. «Questo si chiama giocare sporco, imbrogliona».
Posso quasi percepire il suo sorriso compiaciuto, dall'altra parte della linea. «Ci vediamo fra poco, allora».
Durante il tragitto fino alla villa, che devo ovviamente percorrere a piedi, decido di fermarmi per comprare un regalo a Toby, puntando sulla sua più grande passione, oltre ai dolciumi: i pupazzi. Ne ha una vera ossessione.
Sono circa le tre del pomeriggio quando varco la soglia dell'atrio e trovo Eileen che mi accoglie con un ghigno trionfante, facendomi un cenno in direzione del soggiorno.
Appena si accorge di me, Toby abbandona il joystick sul divano, dove stava giocando alla PlayStation insieme a Kal, e mi corre incontro ad una velocità disumana.
«FRATELLONE!» grida emozionato.
Giunto a meno di mezzo metro di distanza, si blocca di colpo, le braccia sottili ancora tese a mezz'aria. «Posso abbracciarti?»
Mi gratto il mento, fingendo di rifletterci. «Non saprei...»
«Ti prego!» Mi rivolge uno sguardo supplichevole. «Prometto di fare piano!»
Essendo solo un bambino di sette anni, non ha ancora capito la vera ragione per cui non sopporto il contatto fisico.
Nonostante ciò, lo ha sempre rispettato. Anzi, spesso sembra preoccupato che, toccandomi, possa farmi male.
«Vieni qui, piccolo guerriero» ridacchio, prendendolo in braccio.
Toby mi stringe con delicatezza, il mento posato sulla mia spalla.
Per reazione meccanica, il mio corpo si tende e devo trarre un respiro profondo.
Come sempre, provo di nuovo la sensazione del suo tocco ruvido su di me, una mano che mi stringe forte le ciocche bionde per tenermi fermo e l'altra...
Mi costringo a tornare al presente e, con un gesto rigido, scompiglio i folti capelli corvini di Toby che mi solleticano il collo. Nei mesi che è stato in Europa, suo padre gli ha permesso di farli crescere e, adesso, gli sfiorano quasi la schiena.
«Alizée te li farà tagliare, lo sai, vero?» lo stuzzico, sapendo che è il suo punto debole.
«Sicuro. Non è brava a rispettare le scelta personali» rincara Kal con amarezza, continuando a giocare a Star Wars Battlefront.
«No, non può!» Toby scuote la testa con assoluta convinzione. «Il dottore ha detto che... ehm, devo tenerli lunghi».
«Che fortuna!» esclama Eileen divertita.
Trattengo a stento una risata e assumo l'espressione più seria che riesco a simulare. «E cos'altro prevede la diagnosi?»
«Mangiare tantissime caramelle».
Annuisco. «E anche comprare molti di questi, presumo». Gli porgo il morbido peluche imbottito dal pelo setoso.
Gli occhioni di Toby si accendono come due fiamme color smeraldo e lo afferra, stritolandolo al petto. «Il panda mi mancava! Ti voglio bene, fratellone!»
Gli do un buffetto giocoso sul naso, prima di depositarlo sul pavimento. «Anch'io, piccola peste».
«Vado ad aggiungerlo alla mia collezione!»
Tutto contento, Toby si precipita su per le scale con il suo nuovo pupazzo inseguito da Eileen che gli intima di non correre.
«Fratello, aiutami! Quel traditore di Toby mi ha abbandonato!» mi implora Kal. «Il Lato Oscuro non può perdere».
Scoppio a ridere e mi accascio sul divano accanto a lui, afferrando il joystick.
«Sai dov'è Keeley?» chiedo con forzato disinteresse, dopo alcuni minuti. «C'è un po' troppo silenzio».
Kal scrolla le spalle. «L'ultima volta che l'ho vista era con Simon».
Una fitta acuta mi trapassa il cuore, dolorosa come una pugnalata... ma non può essere gelosia.
Mi sono imposto di concentrarmi solo su una cosa, la mia missione, la mia unica ragione di vita.
Non posso permettermi di provare sentimenti come l'amore, non adesso. Di certo, non per Keeley... sarebbe sbagliato.
E soprattutto non voglio innamorarmi. Mai più.
Furtivamente, infilo una mano nella tasca e stringo l'oggetto che ho rubato ad Alan Cooper stamattina.
Sono stato costretto ad abbracciarlo, ma l'ho preso: il suo tesserino identificativo della Walker Agency.
Finalmente, sono sempre più vicino a realizzare ciò che aspetto da sette anni, e non posso farmi distrarre.
Devo trovare l'uomo buono.
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