30. IL FIORE DI KADUPUL

Trascorro il resto della mattina spaparanzata sul divano del soggiorno, la televisione accesa sul programma di MasterChef, un barattolo di Nutella in una mano e una ciotola di popcorn nell'altra.
Avrei voluto coronare il tutto con una bottiglia di pregiato bourbon, ma Carol mi ha informata che gli alcolici sono proibiti a villa Hallander, eccetto quelli conservati nella cantina di cui Alizée detiene il monopolio della chiave. Di conseguenza, mi sono accontentata di una lattina di Sprite che mi diverto a far gorgogliare in gola, godendomi la sensazione delle bollicine che mi esplodono contro il palato.

«Forza, forza, sfiletta la triglia! Non puoi davvero aver messo il vino bianco! Ma nella carbonara non si mette la panna!» urlo concitata, intingendo un altro popcorn nel vasetto. «Testa di quaglia, pensa a tagliare la verdura invece di guardare il sedere dell'altra concorrente!»

«Ehm, Keeley». Timidamente, Carol fa capolino sulla soglia con uno dei suoi sorrisi apprensivi stampato in faccia. «Tutto bene?»

Da quando sono tornata, da sola e in anticipo, si è convinta che abbia litigato con gli Hallander o che sia caduta in uno stato depressivo, non saprei.
Il risultato è che mi ha domandato un numero indecente di volte, a intervalli regolari, se può aiutarmi in qualche modo e (ma questo non dà fastidio) mi ha già rifilato una dozzina di cioccolatini che, nella sua opinione, sono la cura migliore per la tristezza a prescindere dall'età.

A tal proposito, sto ponderando l'ipotesi di cambiare il suo soprannome in "Signora Lupin".

Annuisco e bevo un sorso di bibita gassata, facendo schioccare le labbra inumidite dal liquido al limone. «Bob ha messo il sale al posto dello zucchero».

«Cosa?»

Smetto di succhiarmi la falange dell'indice, il sapore salato ancora sulla lingua, e indico lo schermo. «Quello pelato che gioca a frisbee con il piatto è Bastianich».

«D'accordo» obietta perplessa, allungando le vocali. «So che non sei andata a scuola perché stavi poco bene...»

«Ci hai creduto davvero?» replico con la bocca impastata di Nutella.

«Non pensi che dovresti fare qualcosa di più...» Il suo sguardo indugia sui due pacchetti di patatine vuoti, abbandonati sul tavolino. «Salutare

«Sto cercando di ingrassare dieci chili. Chi sei tu per decidere sul mio corpo?»

Come sempre, non coglie la mia ironia e un intenso rossore si propaga sulle sue guance paffute. «Io... ecco... non era mia...»

«Keep calm, Willy Wonka». Mi blocco con la mano a mezz'aria, folgorata da un'idea improvvisa. «Sai, forse hai ragione. Seguirò il tuo consiglio».

«Davvero?» replica incredula.

«Lo giuro in nome dell'Angelo».

Carol emette un gemito soffocato e sussurra: «Perché sono preoccupata?»

Un quarto d'ora dopo, mi sono armata di un sacco di farina, una vaschetta di uova, una bustina di lievito, un blocco di burro e tutto l'equipaggiamento necessario e lo dispongo sul tavolo della cucina più vicina -devono essercene una decina sparpagliate per la villa.
Indosso un grembiule bianco, ripiego le maniche fino ai gomiti e, infilate le cuffie nelle orecchie, mi metto all'opera, cantando a squarciagola "Eye of the Tiger" e ballando con il mattarello che funge da microfono.

Non sono mai stata capace a cucinare, sebbene non siano mancati gli sforzi per rendere i miei dolci quantomeno non nocivi alla salute, eppure mi ha sempre intrigata l'idea di imparare.

So che, in natura, esistono specie di uccelli che, come rituale di accoppiamento, portano il cibo alle femmine: è un modo per dire "posso prendermi cura di te e voglio farlo".

Per me, cucinare per qualcuno ha lo stesso significato, non necessariamente in senso romantico.
Lo facevo spesso per papà, e talvolta anche per Moira, soprattutto se era arrabbiata con me.
Ad essere onesta, non ho ancora capito la ragione per cui avrebbe dovuto perdonarmi, solo perché le avevo portato dei muffin dal sapore di calzino usato... ma funzionava.

Questa volta, invece, lo faccio per me stessa, per costringermi a non pensare a niente. E a nessuno.

Alcune cameriere di passaggio si fermano per guardarmi, le loro espressioni tirate in smorfie esilaranti, mentre faccio la giocoliera con le uova o dispongo le gocce di cioccolato in modo da tracciare svariate emoji.
Anche se tocco l'apice del divertimento quando Arianne si avvicina per farmi notare che c'è più farina per terra che nei biscotti e la bersaglio di palline d'impasto che le si attorcigliano ai ricci scuri. Lei contrattacca e, usando un cucchiaio come catapulta, mi schizza il miele in faccia, ma poi fugge a gambe levate quando la inseguo munita di frusta.

Accompagnata dalla canzone "Volta la carta" di De André, comincio a ritagliare la pasta frolla in figure piuttosto equivoche e metto il vassoio nel forno.
Infine, con immensa soddisfazione per non averli bruciati del tutto, o per non aver bruciato la casa, porto i biscotti in soggiorno, meditando piani da ninja su come trovare una cavia alla quale farli assaggiare.

«Tu chi sei?»

Una vocetta sottile alle mie spalle mi strappa un sussulto e mi volto di scatto, la mano sollevata che brandisce una statuetta di porcellana, presa da uno scaffale.

Mi ritrovo davanti un bambino minuto con una zazzera corvina che gli incornicia il viso leggermente triangolare.
È piuttosto basso, tanto che mi arriva a stento alla vita, e i suoi piccoli occhi smeraldo, incollati su di me, sono accesi di una luce vivace. Ciò che mi colpisce, però, sono le sue sclere di un blu innaturale, che mi destano una certa impressione.
Sembra una strana fusione di Kal e Simon in miniatura.

«E tu da dove spunti, piccolo umano?» commento sconcertata.

«Questa è casa mia».

«Anche la mia».

Lui piega la testa di lato e alcune ciocche ondulate gli oscillano sulla spalla. «Viviamo insieme?»

«Credo di sì».

Il suo dito si leva e punta la statuetta che ancora sorreggo come se fosse un'arma. «Quella è porcellana di Capodimonte. È molto pregiata, e se la rompi la mia mamma si arrabbia».

Con un movimento lento, abbasso il braccio e la ripongo al suo posto, senza smettere di fissare il nanerottolo di fronte a me.

«Che figata! Hai i capelli blu!» esclama il bambino emozionato, cercando di agguantarne un ciuffo.

«Ehi, mantieni le distanze, piccoletto!» Arretro di un paio di passi e rischio di finire distesa sul tavolo. «E tu hai gli occhi blu».

«Lo so. È perché sono malato».

La naturalezza con cui lo dice mi stupisce ancora di più della notizia stessa.

Il bambino scrolla le spalle. «Già, questo congela sempre la conversazione».

«Toby, con chi stai parlando?»

Un uomo compare lungo le scale, vestito con una camicia bianca dal colletto aperto che lascia accarezzare dal sole la pelle chiara del petto scolpito.
Definirlo attraente sarebbe una vera ingiustizia: un dio greco ne avrebbe quasi invidia.

I capelli nerissimi, scuri come il carbone, gli ricadono trasandati sulla fronte, e due magnetiche schegge di ghiaccio sono incise tra i lineamenti marcati e precisi. La mascella squadrata, il mento affilato e le sopracciglia folte e curate gli conferiscono un fascino disinvolto, naturale.
Nel suo fisico statuario, ma non imponente, sono intagliati muscoli ben definiti che guizzano sui suoi addominali solidi e sulle braccia robuste, accentuati dal tessuto aderente, con spalle larghe e pancia piatta.

Tutto in lui mi ricorda Edric, tranne il suo sguardo: distaccato e profondo, come se vi infuriasse una silente guerra di pensieri, ma non gelido -caratteristica che deve aver ereditato da Alizée.
Eppure c'è qualcosa nel suo atteggiamento pacato, una quiete nel cuore della tempesta, che incute una sorta di timore reverenziale.

«Keeley Storm, presumo». La sua voce è bassa e roca, intrisa di una calma spettrale. «Benvenuta in famiglia».

Il modo in cui mi sta fissando, intenso e continuo, senza sbattere le palpebre, mi suscita un senso di soggezione che non mi appartiene. «E tu devi essere il padre della cucciolata».

«Cosa?»

«Sei il maschio alfa del branco» specifico.

Giunto all'ultimo gradino, l'uomo si avvicina a me e mi stringe la mano in una presa salda e sicura di sé.
«Di solito, mi chiamano Ian Hallander».

Allora, noto un dettaglio che prima mi era sfuggito. La punta del suo naso è leggermente storta: una minuscola imperfezione che imprime realisticità a quella visione altrimenti impeccabile.

Abbozza un sorriso simile a quello di Liam, cortese e delicato. «E ti assicuro che l'unica alfa, qui, è mia moglie». 

Mi prendo un attimo per ammirarlo ed emetto un fischio di apprezzamento. «Era inevitabile che gli Hallander venissero tutti così bene».

Tobias, il minore dei fratelli, scoppia in una risatina. «È una ladra molto simpatica, vero, papà?»

Ladra a chi, moccioso?

Ian ridacchia e gli dà una lieve pacca sulla schiena. «Lei è Keeley. Te ne avevo parlato, ricordi?»

«La mia nuova sorella?»

Al cenno d'assenso del padre, il bambino mi corre incontro, svelto come la polvere, e mi cinge con le sue braccine poco sopra le ginocchia.

«Ciao, io sono Tobias!» grida eccitato. «Il tuo fratellino!»

Mi ritraggo orripilata e lo afferro per le spalle nel tentativo di allontanarlo da me, come se ad abbracciarmi fosse stato un ragno gigante.

«Scimmietta evoluta, ho capito che sei precoce, ma la tua testolina è in un punto molto equivoco».

Tobias scioglie la presa, le labbra ancora tirate in un sorriso enorme che si illumina d'entusiasmo quando si accorge del piatto sul tavolo. «Voglio un biscotto a forma di banana!»

«No, fidati. Non lo vuoi» ribatto.

Ian lancia un'occhiata ai biscotti, poi un'altra a me, un lampo divertito che guizza nei suoi occhi.
Deve aver capito che non rappresentano affatto delle banane.

«Toby, vai in camera tua a disfare la valigia. Siamo tornati da tre ore e non l'hai ancora fatto» afferma con un pizzico di rimprovero.

Tre ore.
Prima che arrivassi io. Con ogni probabilità, dunque, la Ferrari è sua... perciò Klaus sta evitando lui?

«Non ho voglia. Lo può fare Carol al posto mio».

«Va bene, peste. Ma sappi che Carol butterà tutti i giocattoli vecchi e rovinati che ci troverà dentro».

«No! Non toccare Mr Dentone!» piagnucola Tobias, precipitandosi su per le scale.

«Non correre! Se cadi, puoi farti male».

«Scusa, papi». Lui rallenta e comincia a fare gli scalini a due a due, infine scompare al piano di sopra.

Ian emette un sospiro rassegnato e torna a concentrarsi su di me. «Perché non sei a scuola?»

«Ehm... sciopero personale?» suggerisco speranzosa.

«Anche mio fratello Matt ne faceva parecchi alla tua età» ammicca lui ironico. «Non lo dirò a mia moglie, promesso».

«Non immagino Alizée sposata» dichiaro perplessa.

«A volte neanch'io». Ian scoppia in una fragorosa risata, poi torna serio e mi osserva per un secondo. «Somigli molto a...»

«Elizabeth, sì. Lo so» bofonchio seccata.

«... a tua madre» completa.

Mi paralizzo, la bocca spalancata per lo stupore. «La conoscevi?»

Un'espressione sorpresa affiora sul suo volto, ma scompare subito.
«Non molto. Era l'amica di un'amica». Dal suo tono sbrigativo, è chiaro che voglia liquidare in fretta l'argomento. «Sto morendo di fame. Posso mangiare uno di quei biscotti o...»

«Puoi farlo, ma non assicuro la tua incolumità fisica e mentale».

Ian, che aveva già allungato la mano, rimane con il braccio sospeso, esita e lo ritira.

«Saggia decisione» affermo.

«Non so se lo sai, ma è meglio che ti informi per evitare incidenti. Toby è nato con una patologia chiamata osteogenesi imperfetta».
Fa una breve pausa, come per farmi assimilare meglio l'informazione. «È detta anche "malattia delle ossa di vetro". In breve, significa che la sua fragilità ossea determina una forte predisposizione alle fratture, anche per traumi minimi. Per farti capire meglio, se qualcuno lo strattona, potrebbe fratturargli un polso o peggio».

Rimango imbambolata, alla caccia delle parole giuste tra quelle che vagano per il mio cervello. «Ah... che sfiga». Missione fallita.

«È una forma lieve, per fortuna» mi rassicura Ian, forse cogliendo la mia preoccupazione. «Ti chiedo solo di essere... delicata, con lui».

La porta d'ingresso si spalanca e vengo sottratta dall'obbligo di rispondere.
Meglio, perché non avrei saputo cosa dire.

«Papà, sei arrivato!» Con un urletto di gioia, Eileen attraversa di corsa il salotto e gli getta le braccia al collo. «Avevo visto la tua auto, ma pensavo che saresti tornato domani».

«Mi sei mancata, frugola» sussurra Ian, stringendola con affetto.

«Anche tu, ma ormai ho diciassette anni. Ti è legalmente proibito chiamarmi in quel modo».

«Per me non sarai mai abbastanza grande, frugola».

Eileen si stacca da lui, forse per consertirgli di respirare dato che lo stava stritolando. Tuttavia gli rimane aggrappata al braccio, come se temesse che potesse andarsene di nuovo.

A quella vista, una fitta lancinante mi trapassa il petto, acuta e letale al pari di una freccia avvelenata. E quel veleno, che sento bruciarmi nelle vene, è invidia allo stato puro.

Un dubbio emerge ad assillarmi fino a martellarmi il cranio: perché lei può riavere il suo papà, e io no?

«Eccolo, il mio uomo!» Ian passa una mano tra i capelli di Edric, attirandolo a sé. «Mi dispiace se ho perso il tuo compleanno».

«Tranquillo, papà. Tanto è stato...» Si sfiora il ciondolo del tridente, sbirciando Kal con uno sguardo torvo. «... divertente». Pronuncia la parola con tagliente sarcasmo.

«Non mi sono dimenticato di farti un regalo, però».

Ian gli consegna una piccola scatola nera. Edric lo ringrazia e, appena la apre, si lascia sfuggire un verso stupefatto. Un piccolo sorriso spezza la sua tipica maschera impassibile.

«Un'auto?» chiede, tirando fuori la chiave.

«Una Lamborghini Aventador, per la precisione. Ovviamente, non potrai guidarla subito, altrimenti tua madre mi ucciderà». Ian gli fa un occhiolino scherzoso. «Vedrai che farai una strage di ragazze con questa. Non che ti serva aiuto per riuscirci».

«Certo» dice Edric rigidamente. «Grazie, papà. È un regalo fantastico».

«Dov'è vostra madre?»

«Perché?» Kal scaraventa lo zaino in un angolo e si affloscia sul divano. «Non vedi l'ora di litigarci?»

Eileen gli scocca un'occhiata omicida, ma Ian si limita a dargli una pacca sulla spalla. «Non hai torto».

Poi viene il turno di Simon, che fino a questo momento è rimasto a fissarmi con un'aria assorta. Si riscuote e dà un timido abbraccio al padre, sebbene i suoi smeraldi rimangono posati su di me.

Cosa sta pensando?
E, soprattutto, cosa sta provando?

«Da quando fai a pugni?» obietta Ian interdetto, sfiorandogli il livido sotto gli occhiali. «E non dirmi che hai sbattuto. Ne ho visti così tanti sulla faccia di tuo zio che ormai riconosco i segni di una rissa».

«Ero a Baker Street e un paio di ragazzi mi hanno aggredito. Non è niente».

Liam spunta dall'atrio e, dopo avermi fatto un sorriso un po' forzato, si dirige subito verso le scale.

«Non mi saluti neanche, William?» gli grida dietro Ian, marcando bene il suo nome completo come ammonimento.

Lui si blocca con il piede sul primo gradino e gli rivolge uno sguardo piuttosto freddo. «Se la tua intenzione era tornare e fare finta che non sia successo niente, sappi che ti sbagliavi. Mentire non è nella mia natura, papà». Si volta e riprende a salire la rampa con nonchalance.

Eileen si schiarisce la gola, infrangendo il silenzio imbarazzante che era calato. «Dov'è la piccola peste?»

Con Alizée, grazie al suo atteggiamento ben poco materno, era facile dimenticarsi che loro erano una famiglia, ed io solo una ragazzina finita in quella casa per ragioni ancora non ben identificate.
Di fronte a quella scena, però, mi sento più che mai un'intrusa, il pezzo di troppo in un puzzle già completo.

Forse capisco perché Klaus se n'è andato.
Forse anche lui si sente allo stesso modo con Ian, il padre dei suoi fratelli ma non il suo.
Forse gli ricorda che nel sangue è un Waylatt, non un Hallander.

Non riuscendo a sopportare oltre, decido di lasciarli da soli e comincio a vagabondare per la villa finché non trovo Carol.
E, questa volta, quando mi domanda se ho bisogno di qualcosa, la mia risposta cambia.

«Sì... dove posso trovare una tela?»

Trasportato un cavalletto in camera mia, nel cono di luce che proviene dalla finestra, comincio a tracciare con un carboncino dei contorni vaghi per il disegno preparatorio.
All'inizio, i miei movimenti sono maldestri e impacciati, ma a poco a poco avverto una sensazione di naturalezza che sembra muovere la mia mano, animandola di una sua volontà.

La mia mente ha dimenticato le nozioni che mi ha insegnato mio padre, il mio corpo invece ricorda ogni curva, ogni linea che abbiamo disegnato insieme.
È come se ci fosse anche lui, le sue dita che avvolgono le mie, così piccole da sparire, guidando il pennello con quella scioltezza che gli ho sempre ammirato.

"Non dipingere ciò che vedi, Key. Dipingi ciò che provi" sibila l'eco del suo fantasma, prigioniero invisibile del mio cuore.

Per mio padre, i sentimenti erano i veri protagonisti dell'arte, che fossero racchiusi in un oggetto o in un luogo. Perché ogni cosa nel mondo materiale, secondo lui, aveva valore soltanto se ornata da un ricordo, da un significato che la rendeva degna di essere catturata in un dipinto che l'avrebbe resa immortale.
Eterna nel tempo e nello spazio.

Tuttavia di rado dipingeva delle persone reali, vive o defunte, compresa anche la mamma, malgrado l'avesse sempre considerata la sua musa.
A sua opinione, infatti, nessun disegno sarebbe mai stato abbastanza fedele o preciso al soggetto che si intendeva ritrarre.
Ciascun essere umano ha troppe sfaccettature e troppe sfumature, mi ripeteva, per poterle cristallizzare in un singolo istante.
E, al tempo stesso, l'animo umano è così meravigliosamente complesso, nelle sue ombre recondite, che nessun artista avrebbe dovuto appiattirlo o limitarlo in una semplice immagine.

Quando sento qualcuno bussare alla porta, un nome galleggia in un sussurro nella mia mente, spettro di un desiderio inespresso: Klaus.

«È aperto». Disprezzo con tutta me stessa il fremito speranzoso che si agita in quell'invito.

Ma poi sento i suoi passi, troppo rumorosi per appartenere ad un felino, e la sua voce che, per quanto delicata, non è impreziosita da quel suadente accento inglese che mi è diventato ormai così famigliare.

«Non sapevo che dipingessi».

Simon si accosta a me, lo sguardo fisso sulla tela, così vicino che la sua mano, distesa lungo il fianco, sfiora la mia, incrostata di macchie di colore.

«Ciao Simon».

«Niente più carotino?» mi domanda con un sorriso dolce.

Provo un moto di delusione, notando che non ha quel'odioso ghigno impertinente, quelle provocanti fossette agli angoli della bocca... come lui.

Poso il pennello sulla tavolozza e mi pulisco con lo strofinaccio. «Perché sei qui?»

«Ti ho vista, di sotto. C'era qualcosa in te che gridava di non voler restare da sola».

Simon intreccia le sue dita con le mie, accarezzandomi il palmo con il pollice. Sono calde e lisce, il suo tocco attento come se stesse accarezzando il velluto.
Eppure sono certa che gli manchi... qualcosa

Indica il dipinto ancora fresco che si staglia di fronte a noi. «Che fiore è?»

Per la prima volta, non mi sembra il solito ragazzino timido e imbarazzato che arrossisce sempre. Anzi, non c'è traccia di esitazione nei suoi gesti, solo una rilassata audacia.

«Il fiore di Kadupul» mormoro, quasi stessi confidando un segreto.

«Non ho idea di cosa sia».

Mi volto verso di lui, contemplando il suo profilo dai tratti sfuggenti, gli occhiali storti sul naso, le lentiggini che cospargono di diamanti la sua pelle, le ciglia lunghe e scure in contrasto con i capelli rossi che gli ricadono sulle tempie.
E non posso che ammetterlo a me stessa: è davvero bello.

«Può essere qualsiasi cosa». Gli prendo il mento e, con delicatezza, lo costringo a guardarmi. «Per te che cos'è magnifico, ma dura poco e ti lascia un vuoto devastante quando scompare?»

I suoi occhi, di un verde così intenso da ricordarmi un bosco ombroso, si legano ai miei. «L'amore».

«Non voglio ferirti». Il mio indice segue la linea della sua mascella e giocherella con il ricciolo ramato ripiegato dietro l'orecchio. «Chi mi ama soffre, Simon».

«Per certe persone vale la pena soffrire» replica in tono sicuro.

«Non mi conosci abbastanza per sapere se sono una di quelle».

La sua mano lascia la mia e risale lentamente il braccio fino ad avvolgermi la guancia con il suo tepore. «Permettimi di scoprirlo».

All'improvviso, capisco che cosa manca: i calli.
Non ha i suoi calli da musicista sui polpastrelli. Ovvio, non suona la chitarra... come lui.

All'improvviso, vengo colta dal bisogno di abbattere la barriera delle sue lenti.
Con calma, afferro entrambe le stanghette e gli sfilo gli occhiali nuovi, scorgendo finalmente il brillio naturale delle sue iridi.

«Dovresti prenderli rotondi».

«Non anche tu, ti prego» ridacchia Simon. «Kal mi tormenta da tutta la vita con questa storia. Da piccolo, me li rompeva apposta perché voleva farmi somigliare ad Harry Potter».

«Perché non hai mai messo le lenti a contatto?»

«Ehm, sono allergico». Un vago rossore si insinua sulle sue goti. «Se ti piacessi di più, potrei metterle però».

«No». Lancio gli occhiali sul materasso. «Ma sarebbe più facile».

Simon aggrotta la fronte. «Che cosa?»

«Questo».

La mia bocca si posa sulla sua, unendosi nello spasimo di un bacio lungo, ardente di necessità.
Le sue labbra, ruvide e tremanti, tradiscono tutta la sua inesperienza, così come il corpo che, teso e immobile, sembra non sapere come partecipare a quello scambio di passione.
Decido di aiutarlo, allacciando le sue braccia intorno ai miei fianchi e lui, incoraggiato, comincia ad accarezzarmi la schiena.
Gli poso una mano dietro la nuca per tenerlo legato a me, dettando il ritmo della danza delle nostre lingue, impegnate in un gioco dispettoso e stuzzicante.

«Ho bisogno di provare qualcosa, Simon» ansimo, un filo di saliva ancora sospeso tra noi.

E, mentre lo sento emettere un gemito soffocato, una parte di me -sepolta in profondità- si sta chiedendo se le labbra di Klaus sarebbero state più morbide.

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