29. IL NEMICO

Mi precipito alla porta della camera e, trattenendo l'impulso di sbatterla, la richiudo e giro la chiave nella serratura con una mano tremante.
Klaus, invece, sta cercando di aprire la finestra, ma la maniglia arrugginita è bloccata, irrigidita dal tempo.

Siamo in trappola.

Mi impongo di restare lucida, ma la situazione è talmente irreale che mi sembra di trovarmi in uno dei miei incubi.
Con la differenza che, da questo, non posso svegliarmi.

«Cosa facciamo?» La voce di Klaus è venata da una nota di urgenza.

Il cuore comincia a martellarmi in gola, pompando nelle vene sangue infuocato dall'adrenalina che, sprigionata dal terrore, cancella sia la stanchezza sia il terpore che mi aveva ghermita.
Adesso, i miei sensi sono vigili, in costante stato di allerta, mentre il mio sguardo ispeziona i dintorni per trovare una via di fuga.

«Nell'armadio» ordino secca, spalancando un'anta.

«No». Klaus si paralizza, teso e immobile come una statua, e il suo volto si contrae in una maschera indecifrabile. «Nell'armadio no».

«Oh, scusa, il mio nascondiglio per non farsi ammazzare non è abbastanza comodo?» obietto sarcastica. «Preferisci metterti sotto la culla?»

Un tonfo sordo mi strappa un sussulto, simile al risucchio di un sasso scagliato nell'acqua. O al rumore di passi nella pozzanghera che si è formata dove ho rotto le sfere di vetro.

Klaus continua a fissare l'armadio come se potesse inghiottirlo in qualsiasi momento. «Sì, sotto la culla è perfetto» balbetta in tono spaventato.

«Sei serio?» Inarco un sopracciglio, scettica. «Ami le altezze e odi gli armadi. E poi sarei io quella strana».

Lo afferro per il polso e lo trascino a forza nell'armadio, facendoci spazio tra pile di tutine e vestitini da neonato.
Quando chiudo entrambe le ante, una cappa di oscurità ci avvolge, lacerata da una sottile linea verticale da cui filtrano i raggi esili e scialbi del sole.
Attraverso la fioca luce smorta, vedo Klaus che si rannicchia nell'angolo, in mezzo a pigiamini scoloriti, le braccia che circondano le gambe portate al petto, che si alza e si abbassa seguendo un ritmo frenetico e affettato.

Corrugo la fronte, perplessa. «Ma cos'hai?»

«Sono...» Klaus deglutisce, percorso da tremiti sempre più violenti. «Sono claustrofobico».

Continua a scorticarsi convulsamente il polso intorno a cui portava il braccialetto di cuoio, conficcando le unghie nella pelle fino a sanguinare.

Tendo le orecchie e riesco ad udire i passi che procedono nel corridoio con una cautela che sconfina nella lentezza. Chiunque sia, deve essere arrivato circa davanti alla camera che era miei genitori.

«Devo uscire».

Klaus scatta in piedi, ma lo spingo addosso alla parete dell'armadio, inchiodandolo con un gomito.
I suoi occhi si aggrappano ai miei, facendomi scorgere tutta la paura che accende le pagliuzze blu delle sue iridi.

«Ti prego, Keeley» sibila implorante. «Fammi uscire».

Per un attimo, il senso di colpa intacca la mia determinazione, ma poi sento la maniglia stridere mentre qualcuno cerca con insistenza di entrare.
Premo il mio corpo contro quello di Klaus, i suoi fremiti che si riverberano nelle mie ossa.

«Pensa agli arcobaleni».

Il colpo brusco di qualcosa che cozza sul legno ci fa trasalire tutti e due, anche se è il cigolio acuto della porta che mi fa contorcere le membra.

«Keeley» mormora Klaus con voce fragile.

«Pensa agli unicorni». Gli tappo la bocca con una mano, infilando l'altra in tasca per prendere il mio coltellino.

I secondi successivi si dilatano in maniera innaturale, il tempo rallenta in un gioco dispettoso.
Il silenzio è infranto solo dal suono di scarponi che avanzano sul parquet, provocando una scia di crepitii raccapriccianti.

Passi ovattati, inesorabili, che si ripercuotono dentro di me.

Trattengo il fiato e stringo saldamente il manico d'acciaio, che continua a scivolarmi dalle dita bagnate.

Nella mia mente, ripeto sempre la stessa frase, come un mantra, nel vano tentativo di tranquillizzarmi: voglio morire sotto le stelle, non in una schifosa mattina solo perché ho marinato la scuola.

Una figura compare davanti all'armadio e il freddo bagliore metallico di una pistola balena nelle tenebre.

E agisco, spronata da un impulso primordiale.

Con un grido di guerra, mi scaravento fuori dall'armadio e mi getto sull'uomo con tale veemenza da farlo ribaltare all'indietro.

Lo sento gemere di dolore, ma non lo vedo, accecata da un misto di rabbia e panico.
Puntello le ginocchia sui suoi gomiti per bloccarlo e, seduta sul suo addome, mi chino e gli porto la lama sottile alla gola.
Appena vedo un rigagnolo cremisi rigargli la pelle, però, un orrore gelido mi pervade e devo reprimere l'istinto di lanciare il coltellino lontano da me.

«DEMONE BASTARDO!» strillo, scalciando la pistola lontano dalla sua mano. «SPORCO BABBANO!»

«Keeley, che caz...» impreca una voce molto famigliare. «Sono io!»

Solo allora mi accorgo che l'uomo non sta opponendo nessuna resistenza.
E che indossa una camicia di flanella grunge con le pezze decisamente poco minacciosa.

Il mio cervello offuscato impiega un po' a mettere a fuoco il suo volto, incorniciato da una frotta di arruffati capelli castani, punteggiati di bianco.

Sbatto le palpebre, incredula. «Babbo Natale?»

Alan emette un sospiro di sollievo e avverto i suoi muscoli distendersi. «Grazie al cielo, pensavo stessi per sgozzarmi».

«Perché cavolo avevi una pistola?» obietto scandalizzata.

«Ehm... potremmo discuterne senza quello?»

I suoi occhi marroni, cerchiati da un alone di stanchezza, si posano sul coltellino che gli sto ancora premendo sul collo.

«Ah giusto». Lo ripongo in tasca e incrocio le braccia sotto il seno, squadrandolo con sospetto. «Ora rispondi».

«Nel mio lavoro può servire» spiega con semplicità. «I genitori violenti non sempre sono contenti che la Walker Agency porti via i loro figli».

«Lavori per la Walker Agency?»

Io e Alan ruotiamo la testa in direzione di Klaus, in piedi di fronte alla finestra.
Sebbene stia ancora tremando in maniera percettibile, almeno ha riacquistato un po' di colorito.

«Ehm sì. Sono Alan Cooper, il responsabile di Keeley nell'agenzia».

Klaus annuisce, un sentimento tetro che guizza nel suo sguardo impassibile.

«Puoi toglierti?» Alan si agita sotto di me con un lamento. «Sono caduto su qualcosa e fa molto male».

«Cosa ci facevi qui?» lo incalzo, ignorandolo.

Lui esita per un istante, piuttosto a disagio. «Ho fatto colazione in un bar, non lontano da qui. Stavo tornando alla mia auto e vi ho visti entrare in questa casa. Poi ho sentito un gran fracasso, sembrava che ci fosse una lotta o una cosa del genere».

Si stringe nelle spalle. «Ero preoccupato per te».

Quelle ultime parole mi provocano un moto di gratitudine nei suoi confronti e, per un'assurda ragione, mi chiedo come reagirebbe se lo abbracciassi.
Di sicuro gli darebbe fastidio, anche se è troppo buono per ammetterlo.

Scuoto il capo per scacciare quel pensiero stupido. «Facevi colazione? Ma se abiti dall'altra parte della città!»

«Sì, ma a Baker Street vendono un buonissimo pain au chocolat» borbotta sulla difensiva.

Va bene, questo glielo concedo.

«Quindi eri casualmente vicino, ci hai casualmente visti e avevi casualmente una pistola con te?» C'è qualcosa che non mi convince per niente. «Ci sono troppi "casualmente", secondo me».

«Per favore, Keeley. Sto soffrendo».

«Uffa, che rompiscatole» sbuffo scansandomi.

Alan si alza e si massaggia la schiena, guardando torvo la macchinina sul pavimento.

Poi solleva il mento e sfodera un sorriso gentile. «Tu devi essere Klaus Way...»

«Hallander» dico in un finto colpo di tosse.

«Hallander» si corregge, tendendogli la mano. «Piacere di conoscerti».

«Lascia stare. È germofobico» taglio corto, abbassando il suo braccio teso.

«Piacere mio, signore» risponde lui rigido, scoccandomi un'occhiata esasperata.

«Ti sei fatto male?» obietta Alan allarmato.

«No». Klaus si copre i graffi che si è procurato sul polso, passandoci sopra sopra il pollice per pulire le righe di sangue. «Se posso, da quanto lavora per l'agenzia?»

Un cipiglio interdetto affiora sul suo viso. «Undici anni. Perché?»

«Curiosità».

Nonostante la sua ostentata noncuranza, noto che Klaus continua a sbirciare il tesserino identificativo della Walker Agency che gli sporge dalla tasca dei jeans.

Alan si inginocchia vicino alla culla, o a ciò che ne rimane, e recupera la pistola. «Avete bisogno di un passaggio fino a casa?» ci propone, sistemandola nella fondina.

Sembra trovarsi perfettamente a suo agio con un'arma agganciata alla cintura... un po' troppo a suo agio.
Per la prima volta da quando lo conosco, non sono certa di potermi fidare di lui.

«No» dico prontamente.

«Sì» mi contraddice Klaus.

Mi affretto a scuotere la testa, determinata. «Possiamo prendere il bus».

«Assolutamente no!»

«Aspettate». Alan si gratta il mento, pensieroso. «Ma voi non dovreste essere a scuola?»

«Va bene» mi arrendo. «Guido io».

Durante il tragitto fino alla villa, Klaus non fa che chiacchierare con Alan, apprendendo più cose sulla sua vita privata di quante ne sapessi io.
Quando, ogni tanto, la loro conversazione verte sulla Walker Agency, la tensione diventa quasi palpabile, anche se non ne capisco la ragione.

Al nostro arrivo, mezz'ora dopo circa, il cielo plumbeo ha cominciato a riversare candidi fiocchi di neve che danzano in balia di un vento gelido. Stralci di nubi fosche assediano il sole, più simile ad una palla di ghiaccio che di fuoco.

E ci sono due novità.

La prima è che Alan ci ha raccontato che da giovane portava un'orrenda acconciatura da rockettaro, e lo prenderò in giro fino alla fine dei suoi giorni per questo.

La seconda è che, incredibile ma vero, forse la fortuna si è ricordata della mia esistenza, per una volta: la Maserati di Alizée non c'è.

Quindi, o Crudelia è uscita -e pertanto ho ancora qualche ora di vita- oppure l'ha messa in garage per proteggerla dal maltempo.

Al suo posto, in giardino è parcheggiata un'altra magnifica auto di lusso: una vanitosa Ferrari di un nero lucido con fiammate scure disegnate sulle fiancate.

Non so a chi appartenga, non avendola mai vista. Al contrario, Klaus deve conoscere il proprietario perché si incupisce e, di punto in bianco, dichiara di dover andare da un'altra parte.

Dunque, si sporge dal suo sedile e ringrazia Alan con un mezzo abbraccio che quest'ultimo ricambia impacciato, e che rischia di farmi strozzare con la mia saliva.

«Ci vediamo, ficcanaso» mi sussurra all'orecchio, provocandomi un brivido lungo la schiena.

Esce dall'auto ancora prima che io abbia accostato e si dirige verso il cancello, i capelli biondo miele sferzati dal vento e le mani infilate nelle tasche.

«È un ragazzo...» Alan lo osserva allontanarsi dallo specchietto, cercando la parola giusta. «Particolare».

Sbatto le palpebre, stranita. «Ti ha dato un abbraccio».

«Sì, e allora?»

«Innanzitutto, ho guidato io, non tu» commento confusa e indignata. «E poi Klaus Hallander non abbraccia nessuno».

Per un secondo, nella mia mente galleggia il ricordo delle sue mani che mi stringono e sento la faccia avvampare.
Per fortuna, Alan è troppo impegnato a controllare il suo riflesso, tastando la ferita causata dal mio coltellino che, ripulita dal sangue, è poco più di una linea di pochi centimetri.

«Magari gli sto simpatico».

«Ne dubito».

Lui ridacchia e fa per aprire la portiera, ma si ferma quando si rende conto che sono ancora immobile sul sedile del conducente, intenta a giocherellare con le sue chiavi.

«Non volevo farti male» sussurro in tono pentito, accennando al piccolo taglio in corrispondenza del pomo d'Adamo.

«Tranquilla, non è niente». Alan mi rivolge un'espressione rassicurante, le labbra increspate in un sorriso. «È stata più dolorosa quella volta che mi hai svegliato mettendomi il pepe nel naso».

Chino la testa, fissandomi la punta delle scarpe. «Scusa se ti ho reso l'estate un inferno».

«Beh, almeno è stata divertente».

Fra tante cose che avrebbe potuto fare, Alan commette l'errore di scompigliarmi i capelli.
Voleva essere un gesto affettuoso... ma è anche lo stesso che faceva sempre mio padre.

«Perché sei rimasto con me?» chiedo sferzante. «E perché non mi hai detto di avere una pistola?»

Alan aggrotta le sopracciglia, colto alla sprovvista, e le sue dita sfiorano la fondina al suo fianco in maniera quasi inconsapevole.
«Dopo quello che è successo a tua zia, ho pensato che l'ultima cosa che ti servisse fosse sapere che avevo un'arma...»

«Non è vero». Il mio tono diventa sempre più aggressivo. «Credi che lei sia morta in un incidente, come tutti gli altri».

«Forse, ma tu no». Dalla sua espressione contrita, deduco che si sta innervosendo. Non l'ho mai visto perdere davvero la pazienza. «Per quale motivo ti è così difficile pensare che qualcuno possa volere prendersi cura di te?»

La risposta scivola fuori dalla mia bocca, senza che riesca ad impedirlo. «Non lo voleva neanche mio padre. Non ha senso che importi a te».

«Che cos'hai, Keeley?»

Faccio spallucce. «Niente».

«Non si distrugge mezza casa per niente. E tu non parli mai di tuo padre in questo modo» mi ammonisce Alan. «Hai scoperto qualcosa su di lui, vero?»

La sua voce è pacata, ma mi sembra di scorgere un lampo di bramosia che balena sul suo volto.
Questa non è semplice curiosità, bensì un interesse che sconfina nel desiderio di sapere.

Un senso di diffidenza si insinua nel mio petto, pesante quanto un macigno.
Ripenso all'uomo che ha ucciso mia zia, alle sue parole sul fatto che avesse l'ordine di non farmi del male.
Chi lo mandava cercava mio padre, ne sono ancora sicura. E quale modo migliore di trovarlo, se non stare con la sua figlia orfana?
Lo aspettava... ma non sapeva che era già morto.

«Alan, sto per farti una domanda e dovrai rispondere subito».

I miei occhi si incatenano ai suoi, studiandolo intensamente. Di solito hanno il colore del cioccolato, ma in questo momento sono oscurati da un'ombra che li tinge di nero.

«Sei sempre stato sincero con me?»

«Sì».

Un secondo, non di più. Così fugace che sarebbe potuto non esserci, però c'è stato.

Ha esitato.

Restando in silenzio, gli lancio le chiavi e tiro la maniglia, investita da un refolo di aria fredda, carica di diamanti bagnati che si depositano sulla mia chioma blu e si sciolgono per il calore corporeo.

Le parole di Alan vengono rubate dagli ululati della brezza autunnale, ma mi giungono comunque in tutta la loro severa gravità.
«Non sono io il nemico, Keeley».

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