28. PUNTO DI ROTTURA
«Keeley!»
La sua voce mi giunge come un'eco lontana alle mie spalle mentre corro in mezzo ad una selva di facce anonime.
Continua a chiamare il mio nome, ma è un suono indistinto che si mescola alla cacofonia di rumori confusi di un mondo di cui mi sento mera spettatrice.
Un'ombra di carne e ossa che scivola invisibile tra le maschere mutevoli di sconosciuti di ogni età e ogni aspetto.
Ho la sensazione di essere caduta in uno stato di trance, ipnotico, quasi la mia coscienza fosse prigioniera in un corpo che non le appartiene.
Mi sembra di osservare la realtà dall'esterno di me stessa, un occhio aperto nel cielo plumbeo che contempla l'enorme scacchiera di vite intrecciate.
Tutte inconsapevoli pedine di una partita infinita, manovrate da un destino che gioca senza regole.
La parola “trauma” deriva dal greco e il suo significato non potrebbe essere più corretto: rottura.
Esiste però anche una definizione alquanto poetica, che mi è rimasta impressa durante la contorta spiegazione fornita dal dottore dopo l'incidente.
Ferita dell'anima.
Esso rappresenta l'effetto di un evento che può condurre la memoria ad un punto di rottura: i ricordi si frammentano, si spezzettano e diventano inaccessibili alla consapevolezza.
Tuttavia i pezzi selezionati, quelli conservati dal nostro cervello, non solo diventano nitidissimi, ma se ne custodisce anche l'impatto emotivo, riprovando nel presente gli stessi sentimenti passati con la medesima intensità.
Ecco, questo è il mio punto di rottura.
La mia ferita dell'anima.
E, come i passi mi conducono nel santuario del passato, anche la mia mente viaggia a ritroso nel tempo.
I miei piedi incespicano tra i rovi e i rampicanti annidati nel giardino incolto. I miei pensieri, invece, tornano alle notti stellate in cui io e papà, distesi sull'erba, giocavamo a cercare nuove costellazioni.
Lo percepisco accanto a me, una presenza fisica che mi avvolge nel tepore del suo abbraccio.
Posso vedere il chiarore argenteo della luna catturato dai suoi occhi che fa brillare di riflessi oscuri le iridi di un verde intenso, simile al fogliame di una foresta.
L'aria rarefatta e stantia del soggiorno, carica di pulviscolo che mi fa prudere il naso, si trasforma alle mie narici in quel suo odore di borotalco che gli rendeva la pelle morbida e profumata.
Ma, per quanto mi sforzi, non riesco a visualizzare l'immagine del suo sorriso speciale. Quello che gli increspava un angolo della bocca e gli gonfiava appena una guancia, formando una piccola fossetta al lato destro delle labbra.
Delicato, dolce e rassicurante... e soprattutto mio.
Rammento ogni minimo particolare del suo volto, tanto che mi sembra di averlo sospeso davanti ai miei occhi, eppure il suo sorriso rimane senza forma, incorporeo, astratto.
La cosa più dolorose di tutte, però, è una consapevolezza che si abbatte su di me come una spada.
Nel silenzio solenne del mio tempio abbandonato, invano immagino di udirlo chiamarmi ancora “principessa” o “Key”, il nomignolo riservato solo a lui.
Non me ne ero mai resa conto...
La sua voce.
Ho dimenticato il suono della sua voce.
«Keeley, cos'è successo?»
Il crepitio del legno marcio del davanzale, piegato sotto il suo peso, mi suggerisce che si sia intrufolato a sua volta dalla finestra.
L'avevo lasciata accostata la scorsa volta, prima che ce ne andassimo, qualora avessi voluto vederla di nuovo, dato che era una soluzione più pratica di forzare la serratura.
Non mi volto, ho troppa paura di incrociare il suo sguardo. Non soltanto perché so che leggerebbe la mia sofferenza, ma soprattutto per il timore che le ultime scaglie della mia corazza possano cedere.
«Avevi ragione». Le parole rimbombano fra le pareti ornate di quadri, distanti e remote come se le avesse pronunciate qualcun altro.
«Da quando ci conosciamo, non credo che tu me lo abbia mai detto». Klaus parla con cautela, avvicinandosi furtivo alle mie spalle. «E stranamente non sono felice di sentirlo».
«Avevi ragione» ripeto in tono assente. «Questa non è casa mia».
Afferro una sfera di vetro dalla collezione della mamma, quella in cui è intrappolata una miniatura della Torre Pendente, souvenir di Pisa, e la scaglio con tutta la forza che il dolore e la rabbia mi infondono.
Schegge affilate si sparpagliano sulle piastrelle incrostate dalla patina del tempo, che viene solcata dall'acqua limpida che si ramifica lentamente in tutte le direzioni.
«Cosa stai facendo?» obietta Klaus perplesso.
Lo ignoro, prendo un'altra palla, questa volta con l'obelisco di Washington, e la lancio contro il dipinto che ritrae un rarissimo fiore di Kadupul.
Candido e prezioso quanto fugace e inafferrabile, è destinato ad appassire negli attimi sfuggenti tra l'ultimo rintocco del giorno e l'alba di quello seguente.
Per mio padre, quel fiore rappresentava la mamma: una, regina della notte, e l'altra, regina del suo cuore.
Entrambe letali e bellissime, amanti delle tenebre ma figlie della luce, in balia di una sorte crudele che ha donato loro una vita troppo breve.
Per me, invece, è simbolo della felicità: qualcosa dal valore inestimabile, difficile da ammirare... impossibile da cogliere.
Non puoi fare altro che assistere impotente alla sua fine, senza poterlo toccare perché, se lo fai, si rovinerà per sempre tra le tue mani.
È un'illusione, un trucco, uno specchio per le allodole con l'unico scopo di irretirti, come lo era la sua promessa di tornare da me.
All'impatto con la sfera di cristallo, il chiodo a cui è affisso cede e il quadro crolla con un fracasso di vetri infranti e una ragnatela di crepe infrange l'immagine.
«Cos'è successo al Lucky House?»
Klaus cerca di spostarsi in modo da guardarmi in viso, tuttavia lo scanso e, sollevandomi sul ripiano, comincio ad armeggiare con la sudicia radio a valvole sugli scaffali.
L'unico risultato, però, è un fastidioso sottofondo di interferenze.
«Keeley, che stai facendo?»
Mi costringo a non soffermarmi sulla sua preoccupazione sempre più palpabile.
Perché diavolo deve essere così insistente?
Non potrebbe solo lasciarmi in pace?
Dopotutto, a lui cosa dovrebbe importare di me?
«Ballo una street dance» bofonchio, litigando con i meccanismi arrugginiti. «Secondo te, cosa posso fare con una radio, Sherlock?»
«Va bene, basta. Scendi».
Lo scorgo di sbieco mentre si protende verso di me. Mi volto e gli scivolo sotto il braccio, allontanandomi fino al tavolo accanto all'angolo cottura.
«Maledette cianfrusaglie d'epoca». Estraggo il telefono dalla tasca e scorro in fretta la mia playlist di Spotify. «Non capisco come facessero ad usare quelle trappole infernali».
«Keeley!»
Il mio cuore accelera la sua corsa frenetica, pompando una bruciante frustrazione, e il mio stesso respiro mi arde nel petto. «Esatto, biondino, mi chiamo così. Puoi anche smettere di ripeterlo».
Prima ancora che me ne renda conto, qualcosa si chiude intorno al mio polso. Il contrasto tra le sue dita affusolate, fredde e delicate, e il suo anello metallico, caldo e duro, crea un'irrazionale fusione di gelido e ardente.
Il suo tocco mi provoca una scossa elettrica sulla pelle e provo l'istinto di ritrarmi, la repulsione di due cariche troppo simili per stare insieme.
«Parlami, Keeley» dice in un sussurro, quasi una preghiera.
Per un secondo, i suoi occhi trovano i miei e le mie difese si sfaldano, come una roccia all'apparenza solida che si sgretola in polvere.
Sono inerme contro quelle pozze d'argento e cobalto che si insinuano tra le crepe della mia barriera d'ambra.
No!
Non voglio, non posso lasciarmi andare!
Con uno strattone, lo respingo e torno a concentrarmi sullo schermo del telefono. Devo strizzare le palpebre per scacciare il velo opaco che mi offusca la vista.
«Adesso ti faccio sentire roba buona, fiorellino». Un moto di disgusto mi attraversa, accorgendomi del tremito che trapela dalla mia voce. «Beccati un po' d'Italia, altro che Imagine Dragons!»
Una melodia si propaga nel silenzio, carica di dolcezza, e le sue note si effondono in delicate vibrazioni che si ripercuotono nel mio corpo.
E, in quelle parole, trovo l'araldo che si fa portavoce del mio tormento in una lingua sconosciuta.
L'ho ascoltata molte volte nel corso degli anni e il testo ormai mi è così famigliare che ne riesco a capire subito il significato.
“Così sono partito per un lungo viaggio,
lontano dagli errori e dagli sbagli che ho commesso.
Ho visitato luoghi per non doverti rivedere.
E più mi allontanavo, e più sentivo di star bene”.
«Visto? Non sanno fare mica solo la pizza» lo incalzo ironica.
Una strana espressione si dipinge sul volto di Klaus, che non emette un suono. Si limita a fissarmi con la fronte aggrottata, l'attenzione rivolta alla canzone, forse tentando di decifrarne il contenuto.
«Stai soffrendo» mormora infine, le sue frecce grigie che mi trapassano. «Perché?»
“A volte ho acceso un fuoco per il freddo e ti pensavo,
sognando ad occhi aperti,
sul ponte di un traghetto.
Credevo di vedere dentro il mare il tuo riflesso”.
Una risata stridula scaturisce dalla mia gola, bruciando tra le corde vocali. «Io sto benissimo» grido in tono isterico. «Anzi, mai stata meglio».
«Non è vero». Il suo sguardo scava sempre più a fondo dentro di me, abbatte ogni scudo, ogni barriera. «C'entra tuo padre». Non è una domanda.
Un sapore amaro, ferroso, mi riempie la bocca e digrigno i denti. «Vattene, ho una casa da distruggere».
Cerco di superarlo, dandogli uno spintone, ma Klaus rimane di fronte a me, irremovibile. Non si muove di un centimetro.
«Non me ne vado».
“Trascorsi giorni interi senza dire una parola.
E quanto avrei voluto in quell'istante che ci fossi.
Perché ti voglio bene veramente.
E non esiste un luogo dove non mi torni in mente”.
Papà...
Un sentimento affiora con prepotenza, si impadronisce di ogni fibra del mio essere. Lo sento scorrere nelle vene, mescolarsi al sangue, fermentando ad ogni battito con crescente intensità: odio.
Un disprezzo incondizionato, assoluto, privo di bersagli, un tornado che devasta tutto ciò che incontra sul suo cammino.
«Forse siamo fatti l'uno per l'altra, io e te» sogghigno, cogliendolo alla sprovvista. «Le persone che si avvicinano a noi muoiono, no? Come Elizabeth».
Klaus si irrigidisce, la cicatrice sul suo viso che brilla come una lama di ghiaccio. «Smettila».
«Lei è morta per colpa tua. Mia zia è morta per colpa mia». Mi lascio sfuggire un verso rauco per soffocare il singhiozzo. «Potremmo fondare il club esclusivo degli iettatori... anche se io ancora non ho ucciso nessuno, almeno».
«So cosa stai facendo». Mi scruta da sotto le sopracciglia come un animale ferito, circospetto e diffidente. «Vuoi farmi male per mandarmi via».
“Avrei voluto averti veramente
E non sentirmi dire che non posso farci niente”.
«Non ho bisogno di te. E neanche della tua famiglia» ringhio furibonda. «Non ho bisogno di nessuno».
Portando il telefono con me, rinuncio a smuoverlo con la forza e scavalco il bancone dell'angolo cottura. Mi inoltro spedita lungo il corridoio ed entro nella stanza che sarebbe dovuta essere la mia.
Tuttavia appena la vedo, con i giocattoli mai usati e la culla in cui non ho mai dormito, in eterna attesa... il mio folle odio accresce, come un incendio che divampa e consuma ogni cosa.
«Questa non è casa mia!» sbotto a squarciagola, scalciando con foga le macchinine sparpagliate sul parquet. «Questa non è New Orleans!»
“La meta non è un posto, ma è quello che proviamo.
E non sappiamo dove, nè quando ci arriviamo”.
Non ho neanche bisogno di girarmi per percepire la sua presenza sulla soglia della porta.
Dato che ormai ho imparato che, oltre alle movenze e al fisico, ha anche i passi di un felino, agili e felpati, non mi stupisco di non averlo sentito arrivare.
Scossa dai brividi, mi avvento sulla culla e strappo la giostrina che le pende sopra.
«A casa mia c'è un cavalletto nel giardino!» Uno ad uno, spezzo gli angioletti di vetro. «C'è una mansarda con una vetrata sulle stelle!» Stacco a fatica la sponda laterale e la getto sul pavimento con tanta violenza da fendere il legno. «E c'è mio padre!»
Intanto, la canzone giunge al suo termine, con i versi più strazianti e sinceri che mai.
“Avrei trovato molte piú risposte,
se avessi chiesto a te, ma non fa niente.
Non posso farlo ora... che sei cosí lontana”.
Sfilo la foto dei miei genitori dalla tasca, stando attenta a non guardare nessuno dei due. Se lo facessi, non sono certa che riuscirei a vincere la mia battaglia contro il pianto che mi gorgoglia sul fondo della gola.
Voglio ridurla in brandelli, bruciarla, cancellarla insieme al mio passato, ai miei ricordi.
Magari, questo mi farà stare meglio. Forse, smetterò di soffrire. Almeno per un momento.
Klaus intuisce cosa sto per fare e, con un balzo, mi raggiunge e mi blocca entrambi gli avambracci. «Te ne pentiresti» sussurra al mio orecchio in tono gentile.
Il suo respiro caldo mi solletica il lobo, provocandomi un fremito lungo la spina dorsale.
La sua vicinanza, il suo accento, la sua compassione, il suo contatto... non voglio niente di tutto questo.
Non ora.
La solitudine, ecco cosa voglio.
O, almeno, è ciò che credo.
«Lasciami!» Mi divincolo con ferocia e gli rifilo una serie di gomitate ai fianchi. «Vattene!»
«No!»
Nonostante i suoi sforzi per tenermi ferma, riesco a liberare una mano e, voltandomi nella sua presa, gli tempesto di pugni il torace. «Ti ho detto: vattene!»
«Non vado da nessuna parte» ribatte Klaus con fermezza. «Rimango con te».
Continuo a ribellarmi, ma i miei colpi diventano sempre meno sicuri e sempre più deboli.
Lentamente, mi sembra di affogare tra le onde della disperazione, un mare procelloso che colma il baratro scavato dalla rabbia e dal dolore.
«VATTENE!»
«NO!»
All'improvviso, il mio corpo si arrende di propria volontà e mi ritrovo afflosciata contro di lui, esausta e svuotata.
Klaus mi avvolge tra le sue braccia e mi stringe a sé, posando il mento sulla mia nuca. Malgrado i suoi muscoli in tensione, mi permette di rannicchiarmi sul suo petto.
«Non ti lascio sola, Keeley».
Posso sentire i suoi polmoni che lavorano febbrilmente quanto i miei, e i nostri cuori che battono all'unisono. Una sincronia perfetta dettata da un'angoscia comune ad entrambi.
Premo di più la fronte sulla sua felpa, il sudore che la fa aderire al tessuto, tirandone i lembi per attirarlo verso di me, desiderando annullare anche la minima distanza tra noi.
«Fa male» gemo con voce tremante.
«Lo so». Klaus mi deposita un bacio appena percettibile tra i capelli, abbracciandomi più forte per placare i miei singulti. «Lo so».
Rimaniamo fermi in quella posizione per minuti incalcolabili, sospesi fuori dal tempo e dallo spazio. Ci siamo solo noi due, nessun altro, lontani dal mondo con la sua agonia e la sua tristezza... ed è bellissimo.
A poco a poco, il mio respiro inizia a regolarizzarsi e i singhiozzi cedono il posto ad ansimi lunghi e profondi, soffocati nella sua maglia.
E, intanto, una sensazione di insolita tranquillità mi pervade, rassicurata dalle sue lievi carezze sulla mia schiena. Percepisco la delicatezza con cui le sue dita si infilano nel groviglio di ciocche blu, la dolcezza con la quale districa i nodi delle mie ciocche blu.
I suoi gesti sono nervosi, esitanti, come se temesse di poter commettere un errore che possa turbarmi. Sembra quasi che io sia un tesoro prezioso che ha paura di rovinare.
Non ricordo l'ultima volta che mi sono sentita così protetta, al sicuro, cullata da qualcuno.
«Ti potrei dire che starai meglio, che andrai avanti e dimenticherai il dolore, ma non voglio mentirti». La sua voce, flebile e morbida, si fonde al silenzio, senza spezzare il suo incantesimo. «Ciò che hai passato fa parte di te, e sarà così per sempre. Un giorno, però, incontrerai una persona, l'unica in mezzo ad altre decine di milioni che riuscirà a vedere le tue cicatrici. Che sia un amico, un'amica, un fidanzato... non importa. Ciò che importa è che ti amerà, allegerendo il peso di ciò che ti porti dentro».
Reclino leggermente il capo all'indietro e osservo il suo volto dall'espressione stranamente assente.
Il mio movimento riscuote Klaus dalle sue riflessioni e, alla mia minima resistenza, allenta subito la stretta su di me, forse preoccupato di avermi fatto male.
«Io non credo a queste cose».
Klaus solleva una mano e mi sfiora appena la guancia, abbozzando un piccolo sorriso. Quando la ritira, la punta del suo indice è bagnato da una lacrima.
Senza rendermene conto, devo aver pianto.
«Neanch'io» confessa ironico. «Ma chi me l'ha detto, ci credeva».
Faccio una risatina, timida ed esile, ma sincera. «E chi è stato?»
«L'uomo buono».
Un rumore raschiante rimbomba tra le pareti della casa, accompagnato da un cigolio. Segue una pausa carica di inquietudine, simile ad un fruscio. Ed infine un crepitio di vetri calpestati.
Io e Klaus ci scambiamo un'occhiata per un istante, leggendo la reciproca agitazione riflessa nei nostri occhi. Nei suoi infuria una tempesta grigia, l'argento tramutato in acciaio.
«Il vento?» suggerisco in un bisbiglio.
«Ho chiuso la finestra da cui siamo entrati».
Ad ulteriore conferma dei nostri taciti sospetti, avverto uno scatto secco, un suono fin troppo famigliare sebbene lo abbia sentito una volta sola nella mia vita.
E, a giudicare da com'è rabbrividito, anche Klaus deve averlo riconosciuto.
La sicura di una pistola.
«Cazzo!» sibiliamo in coro.
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