26. IL LUPO BIANCO

«Non per mettere in dubbio le tue capacità genitoriali... ma perché tua figlia ha un coltellino svizzero in tasca?»

Mio padre attraversa a grandi falcate il soggiorno, arredato con mobili di vimini e vasi di capelvenere posti negli angoli del pavimento di bambù scheggiato.

«Per difendersi, ovviamente».

Moira scuote la testa, allibita. «Ha dieci anni!»

«Già, e un giorno sarà una bellissima ragazza in un mondo misogino pieno di uomini moralmente discutibili!» risponde, chinandosi davanti al congelatore. «Voglio che sappia proteggersi».

«Così la farai diventare strana e paranoica come te. E poi, di solito, si prende uno spray al peperoncino».

«E se chi la aggredisce portasse gli occhiali da sole?» Mio padre sporge la testa sopra lo sportello aperto, fissandola imbronciato. «Non hai del gelato? Mia figlia me ne ha negato uno...»

Mi lascio sfuggire una risatina, che soffoco premendo una mano sulla bocca.
Se scoprono che li sto spiando da dietro la scarpiera, sbirciando dalla porta socchiusa affacciata sul corridoio, di sicuro smetteranno di parlare.
Papà mi aveva suggerito di andare nella mia nuova cameretta per disfare la valigia... come se non fosse una scusa banalissima per non farmi assistere a quella che lui ha definito una "noiosa conversazione da adulti".

Chissà perché, ma tutti sono convinti che essere piccoli significhi essere stupidi!

«Max, perché sei qui?» chiede Moira corrucciata.

«Non te l'ho ancora detto?» Apre il frigo ed emette uno sbuffo frustrato. «Che razza di mostro non ha neanche un ghiacciolo in casa?»

La smorfia irritata che si dipinge sul volto della donna, accompagnata da un sonoro sospiro, sembra una minaccia di morte. «Avevo dimenticato che soffri di deficit dell'attenzione».

«Non è colpa mia se mia madre beveva come una spugna e fumava come una turca durante la gravidanza». Lui si stringe nelle spalle, continuando a rovistare tra i ripiani pieni di bottiglie di latte, confezioni di yogurt e verdure. «Se fossi dislessico, potrei pensare di essere un mezzosangue».

«Un... cosa?»

«Chiaramente, non hai letto Percy Jackson» replica con disapprovazione. Prende una ciotola di macedonia a base di uva, meloni e banane, e la annusa storcendo il naso. «A fame estrema, estremi rimedi».

«Cosa diavolo vuoi da me, Max?!» La voce della zia è incrinata da una nota di intensa... paura.

Per la prima volta, ogni traccia di ilarità è sparita dal viso di papà, sostituita da una cupa serietà.
«Che ti prenda cura della persona più importante della mia vita».

Il pensiero che nel suo cuore ci sia spazio solo per me mi porta un sorriso appagato sulle labbra.
Sono la sua principessa, come la mamma era la sua regina, e nessuno potrà mai cambiarlo.

Moira sbatte le palpebre, come se non fosse certa di aver sentito bene. «Assolutamente no!» Un lampo d'orrore balena nei suoi occhi verdemare. «Non le farò da baby sitter!»

«Da zia, non da baby sitter. Mica ho intenzione di pagarti» la corregge in tono mellifluo. «E non dovrai adottarla... solo tenerla per qualche settimana. Un paio di mesi, al massimo».

«No! Non posso!» insiste con foga. «Sapevi che sarebbe stato pericoloso! Non avresti neanche dovuto portarla con te, fin dal principio!»

«A differenza tua, io non abbandono coloro che amo... da quant'è che non lo vedi, eh?»

Quelle parole la colpiscono con la violenza di uno schiaffo, tanto che deve appoggiarsi al bracciolo del divano per non cadere.

«Non ho avuto scelta» sibila in tono mesto. «So che è colpa mia, Max...»

«Infatti, tu me lo devi!» dice mio padre con uno sguardo gelido che non gli ho mai visto. «Perché nonostante quello che avevi fatto, ti ho aiutata! Oppure non ricordi come ti sei fatta quella cicatrice

Moira si sfiora la gola in un gesto quasi involontario. «Avevi detto che l'unica cosa che volevi, in cambio, fosse non vedermi mai più».

Le rivolge un sorriso amaro, prima di gettarsi un acino d'uva nera in bocca. «Beh, ho avuto dieci anni per cambiare idea».

«Non capisco». C'è qualcosa di disperato nel modo in cui pronuncia queste parole. «Perché adesso? Cos'è successo?»

Per un secondo, papà lancia un'occhiata nella mia direzione e mi ritraggo di scatto, il cuore che mi tamburella nel petto, pompando adrenalina nelle vene.

È strano.
Anche se mi beccasse, so che non si arrabbierebbe.
Una volta, ho rovesciato un secchio di vernice su un critico che stava valutando di acquistare uno dei suoi dipinti migliori, facendo -ovviamente- saltare una proficua vendita.
E, invece di sgridarmi, mi ha difeso sostenendo che la mia fosse arte contemporanea.

Allora perché ho paura? E di cosa?

«È meglio che tu non lo sappia, fidati».

Moira si solleva dal divano con un movimento fulmineo e gli si avvicina a passo spedito. «Qualsiasi cosa tu voglia fare, Max, non farla. Non puoi cambiare il passato: dimentica. Dimentica e basta».

Un fremito scuote il corpo di mio padre e la rabbia divampa nelle sue iridi come un fuoco color smeraldo. «Ho perso la donna che amavo. Mia figlia è cresciuta senza una madre... e tu pretendi che dimentichi?»

Percepisco il dolore e il disprezzo che marchiano la sua voce, la sua anima straziata da un'agonia atroce e profonda.
In questo momento, vorrei solo poter dare un bacino sulle sue ferite per guarirle, come faccio ogni volta che si taglia o si fa male.
Odio quando papà è triste...

«Se non vuoi che cresca anche senza un padre, sì» lo incalza gelida, provocandomi una stretta allo stomaco.

Si sbaglia.
Lui tornerà presto, me lo ha promesso.
Ha addirittura giurato toccandosi il naso, e questo è un vincolo sacro.

«Elaine non tornerà in vita, Max».

Il suo nome riecheggia nel silenzio, creando una barriera tra noi e il resto del mondo. Un nome che per tanto tempo è rimasto sepolto.
E, sebbene siamo lontani, io e papà siamo più in sintonia che mai, legati dallo stesso filo invisibile dell'amore per qualcuno che non tornerà mai.
La mia mamma...

«Voglio giustizia».

Moira arcua un sopracciglio con atteggiamento di sfida. «Giustizia o vendetta?»

«In questo caso, sono la stessa cosa».

Si fissano per un lungo, infinito istante in un modo intenso, quasi intimo, come se stessero comunicando in una lingua che non posso comprendere... quella del passato.

«Due mesi, Max. Non rimarrà qui un giorno di più».

***

«Sei silenziosa» sentenzia Kal incredulo. «Tu non sei mai silenziosa».

Lo ignoro e continuo a piluccare con la forchetta i pancake annaffiati di sciroppo d'acero, cercando di scacciare dalla mia mente il sogno che ho fatto stanotte.
Di recente, i ricordi dell'ultimo giorno che ho passato con papà tornano spesso a visitarmi nel sonno.
E più ci penso, più mi chiedo quanti segreti mi abbia nascosto colui che ho sempre considerato il mio eroe, il mio esempio da seguire.

Cosa mi dirà Gladys Turner su di lui?
Qual è il posto di quella sconosciuta, nel puzzle scomposto che è la mia vita?

«E non mangi». Kal mi tira appena una ciocca blu, stranito. «Se stai morendo, mi lasci la tua camera con il balcone?»

Quando sposto lo sguardo dal mio piatto, mi accorgo che Simon mi sta ancora osservando con un'espressione abbattuta, accentuata dal segno violaceo che gli cerchia l'occhio sinistro.
Si affretta subito a chinare il capo, imbarazzato, e si concentra sul legno del tavolo con grande interesse.

«Non ho ancora capito perché tu fossi a Baker Street!» esclama Eileen scandalizzata, toccandogli il livido. «Lo sai che è un brutto quartiere, maledizione!»

Con una smorfia di dolore, Simon si ritrae leggermente. «Volevo solo farmi un giro, mi dispiace» mormora in tono mogio.

«Se scopro chi è stato, giuro che lo alleggerirò di due pesi nelle parti basse».

Klaus ridacchia insieme a Kal, ma poi nota che non mi sono unita a loro e aggrotta la fronte.
Si sporge verso di me sulla sedia, mormorando con il suo suadente accento inglese: «Stai bene, ficcanaso?»

Sbaglio, o è preoccupato?
No, impossibile. Non ne avrebbe nessun motivo.

Abbozzo un sorriso forzato. «Vuoi darmi un bacio per consolarmi?»

«Quando la smetterai di flirtare con me?» commenta rassegnato.

«Non sono io che ti invio messaggi sdolcinati, zuccherino».

«Io non...» Un vago rossore si propaga sulle sue guance, ben visibile sulla carnagione chiara. Non credevo che anche a lui potesse succedere.

«Ti odio» borbotta immusonito, tornando composto.

«Anch'io».

All'improvviso, Kal lancia un fischio di apprezzamento «Fratellone, ti è piaciuta la tua prima esperienza da vero adolescente?»

Massaggiandosi le tempie, Edric entra nella sala delle colazioni a testa bassa, seguito da Liam che appare in tutta la sua tipica eleganza: la camicia di Armani, i pantaloni di velluto a coste e l'immancabile pochette nel taschino della giacca.

«Ah, eccoti!» lo accoglie Klaus torvo con una fetta di crostata in mano. «Ladro di Porsche!»

«Per l'ennesima volta, non te l'ho rubata». Liam prende la tazzina di caffè che gli sta porgendo Arianne, rivolgendole un piccolo sorriso di gratitudine. «L'ho confiscata a tempo indeterminato».

Eileen spalanca le braccia, esasperata. «Ragazzi, è una settimana che fate così, ormai. Risolvete questa cosa e basta».

«Smetterò quando lui mi avrà restituito la mia auto!»

«Lo farò quando tu andrai dalla tua psicologa».

Klaus gli scocca un'occhiata carica di ironia, pulendosi le dita sporche di marmellata. «Per andare dalla mia psicologa mi serve l'auto».

«Sembrate due bambini infantili e testardi» li rimprovera la sorella.

Edric si abbandona pesantemente su una sedia libera ed emette un sospiro sofferente. «Nel mondo c'è troppo rumore». Posa la fronte sul tavolo e intreccia le dita dietro la nuca. «Ed io non voglio mai più bere in vita mia».

«Pensavate davvero che non l'avrei scoperto?»

Forse per il timbro argentino e pacato della voce o per la sua figura che si impone sulla soglia, Alizée è più terrificante del solito.
Avvolta in un abito di seta color verde bottiglia, abbinato ad orecchini d'oro a cerchio e alla collana con l'aquila d'argento, la sua bellezza si sposa con il suo sguardo gelido in un fascino sinistro.

Kal ripone il croissant che stava per mangiare. «Mammina» la saluta con incerto entusiasmo. «Lo sai che ti vogliamo tanto bene, vero?»

«Sono tornata all'una e mezza di notte e ho trovato la casa quasi vuota. Carol era convinta che foste usciti a cena insieme. Per fortuna, ho chiamato Oliver Hale, che mi ha confermato che eravate a quella stupida festa». Arriccia il labbro, guardandoci freddamente. «Avete idea di quanto mi sia preoccupata?»

Corrugo la fronte, restando piuttosto sorpresa dalle sue parole.
Considerato il suo atteggiamento ben poco materno, non avrei mai creduto che Alizée potesse preoccuparsi per i suoi figli.
Arrabbiarsi perché le hanno disobbedito, sì. Ma questo...

«Siete tutti in punizione». Alizée solleva l'indice inanellato per zittire le proteste di Kal ed Eileen. «Tu, Edric, più degli altri».

«Cosa?» replica lui, sollevando la testa. «Perché?»

«Non solo ti sei ubriacato, ma hai ballato davanti a tutta la scuola con quel ragazzo da cui ti avevo ordinato di stare lontano».

«Stai scherzando, vero?» ribatte Eileen furibonda.

Il volto di Edric impallidisce, perdendo di colpo il suo colorito. «Io ho... ballato...» Non riesce a terminare la frase.

«Oh sì» sogghigna Kal. «Ed è stata una scena fantastica».

«Non... non è stata colpa mia, mamma!» si difende preoccupato. «Mi dispiace! Non ero in me!»

«E sarebbe questo il problema?» intervengo, scrollando le spalle con noncuranza. «Da ubriaca, ho baciato una ragazza che neanche conoscevo. È normale».

«Ah già! Quanto a voi due,» Alizée indica me e Klaus come se fossimo dei fastidiosi insetti di cui non riesce a liberarsi, «le vostre stanze sono separate per una ragione!»

«Chi fa la spia, non è figlia di Maria» rinfaccio ad Arianne.

«Infatti, mia madre si chiama Karen».

«Se cerchi così disperatamente una ragazza, Klaus, trovatela fuori da qui» aggiunge Alizée gelida. «E adesso andate a scuola». Si volta e si allontana lungo il corridoio.

«Io non mi sono mosso» obietta Liam interdetto.

Klaus sfodera un ghigno malizioso, facendo un chiaro cenno verso Arianne. «E chissà perché, fratellone».

Il mese dei morti fa il suo esordio con una mattina dal cielo nebuloso, sormontato da un sole pallido, e una lieve spolverata di neve dispersa per la città da un vento gelido e pungente.
Munita di sciarpa e guanti, mi sono imbacuccata nel mio pesante giubbotto e, in compagnia del mio coltellino, sto aspettando con impazienza alla fermata.

Ho detto agli Hallander che li avrei raggiunti a scuola con il bus, dato che -come sanno- detesto viaggiare in limousine. In realtà, il mio odio è per le auto in generale, ma ho preferito non specificarlo.
Nonostante ciò che è successo fra noi, Simon si è comunque offerto di accompagnarmi in moto, sebbene sia abbastanza certa che sperasse in un rifiuto. La sua premura, tuttavia, non ha fatto che acuire i sensi di colpa nei suoi confronti. Per questo, probabilmente, avrei declinato l'invito anche se il liceo fosse stato davvero la mia reale destinazione.

Facendo avanti e indietro per non congelare, sento il crepitio ovattato dei miei stivaletti sul sottile strato bianco che riveste l'asfalto.
I miei pensieri sono altrove, rivolti al passato. E vagano tra i ricordi delle nostre interminabili sfide a palle di neve, dei nostri angeli o altre forme strane sul manto candido, delle nostre gare per creare il pupazzo più alto possibile... che finivano sempre con noi che rubavamo la carota messa al posto del naso.

Riguarda tuo padre... mai avrei pensato che tre semplici parole potessero essere tanto potenti.

Dal momento in cui quella donna le ha pronunciate, le domande hanno cominciato ad assillarmi.
E, dentro di me, sono attanagliata da un miscuglio di paura e ansia che potrei sopportare, se non fosse nutrito dal sentimento più pericoloso di tutti... la speranza.

È venuto a prendermi?
Mi porterà via e torneremo finalmente a New Orleans, a casa?
O magari è nei guai e dovremo fuggire insieme in stile agenti segreti?

Una volta, queste ipotesi sarebbero state perfette: solo io e lui, non mi serviva altro.
Ma adesso mi chiedo se mi mancherebbero gli Hallander. Kal è diventato mio amico ormai. E anche Simon, ammesso che non mi odi, dopo che gli ho spezzato il cuore.
E Klaus... no, non voglio pensare a lui. È troppo complicato.

L'unica cosa che mi importa è scoprire cos'è successo al mio papà e... beh, rivederlo.

Sono così assorta nelle mie fantasticherie che impiego qualche secondo ad accorgermi della sagoma imponente vicino al cancello di una villa in stile liberty. Un uomo massiccio, sepolto in una specie di largo pastrano con un cappuccio foderato di pelliccia che gli copre il volto, puntato nella mia direzione.

Mi fermo, come paralizzata, il sangue tramutato in ghiaccio liquido, e la mia mano trova il manico freddo e duro nella tasca, accanto alla foto dei miei genitori che porto sempre con me.
Quando lo vedo sollevare un braccio, arretro di scatto e l'impatto della mia schiena contro qualcosa mi fa girare così velocemente che scivolo a terra, sbattendo il sedere.

«Dove stai andando realmente, ficcanaso?»

Sollevo la testa e vedo Klaus che torreggia su di me, le braccia incrociate sul petto e un sorrisino impertinente sulla faccia. Ma riesco a cogliere una velata apprensione imprigionata tra i suoi lineamenti.

«Sul serio, tu hai bisogno di una visita dall'oculista» borbotto, alzandomi.

Getto un'occhiata nervosa alle mie spalle, ma l'uomo sembra essersi dissolto nel nulla. C'è solo una vecchietta che passeggia con il suo cagnolino, infilato in un vestitino giallo con un tutù e un collare di diamanti. È la stessa che avevo incontrato con Alan mentre andavo alla villa... e deve ricordarsene anche lei perché, appena mi riconosce, devia in una viuzza laterale per evitarmi.

«Non hai risposto» puntualizza Klaus sospettoso.

Mi pulisco i jeans dalla neve che, sciogliendosi, inizia a bagnare il tessuto, appiccicato alla mia pelle. «Vado a scuola, come ogni ragazzina diligente della mia età».

«Non ti aspetti che io ci creda, vero?»

Faccio spallucce e, appena il bus si accosta al marciapiede, salgo al suo interno.
Senza esitare, Klaus fa per imitarmi, ma lo spingo fuori dalle porte.

«Scordatelo, biondino. Non mi serve una guardia del corpo» lo ammonisco.

«Non so di cosa stai parlando». Mi sospinge di lato per farsi spazio tra la calca in piedi nella corsia tra i sedili. «Andiamo nello stesso liceo, ricordi?»

«Devo farlo da sola, Klaus».

Lui incrocia il mio sguardo, i suoi occhi grigi che scavano nei miei, come se potessero leggere la fragilità racchiusa in quella richiesta.
In qualche modo, sembra che abbia il potere di capire quanto siano profondi i tormenti e i dubbi che mi lacerano l'anima... e il bisogno di avere le risposte che possono rimarginarla.

L'unica altra persona al mondo che ne fosse in grado era mio padre.

«Va bene» si arrende infine. «Ma lascia che ti accompagni, per favore».

Esito per un secondo, poi mi rendo conto che non solo la sua presenza non mi infastidisce, ma mi infonde quasi un senso di tranquillità.
La verità è che io voglio che rimanga con me.

«D'accordo, ma se apri la bocca giuro che ti scaravento fuori dal vetro d'emergenza».

Il bus si immette in strada e controllo l'ora sullo schermo del telefono, avvertendo una fitta al cuore.
Tra mezz'ora esatta ho un appuntamento con Gladys Turner, e con la verità.
O, almeno, è ciò che spero...

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