22. UN BEL SOGNO

«Ma è single?»

«Ho sentito che è appena arrivato in città con sua figlia».

«Magari è divorziato».

Da dietro il bancone della gelateria, le due donne vestite con un grembiule bianco su cui è ricamato un arcobaleno stanno confabulando tra di loro.
Una ha lunghi capelli castani, lisci come spaghetti, e l'orecchio tempestato di piercing.
L'altra porta la sua folta chioma corvina raccolta in una coda di cavallo e la leggera spolverata di trucco le mette in risalto gli occhi di una tonalità di azzurro simile a quella dei lapislazzuli.

Sono entrambe piuttosto giovani e attraenti... e fissano mio padre con sguardi languidi che non mi ispirano affatto.

Per fortuna, lui non sembra essersene accorto, troppo preso da un'animata discussione al telefono che ha portato un cipiglio serio sul suo volto.

«È meglio che tu non mi stia mentendo» lo sento ringhiare a bassa voce. «Altrimenti cercherò te al suo posto. E non ti piacerà».

«È così sexy» sospira sognante la ragazza con i piercing.

Va bene, questo è troppo.

«Ehi» esclamo indispettita, seduta sullo sgabello. «È il mio papà quello che state ammirando come se fosse una torta al cioccolato!»

A giudicare dalle loro smorfie sorprese, dovevano essere così impegnate a fantasticare su mio padre che a stento si erano accorte di me.

«Che bella bambina che sei» mi dice la donna con la coda.

«Lo so».

«Dov'è tua madre?» interviene l'altra.

La nota speranzosa nella sua voce mi suscita un moto di rabbia.
«Sono stata adottata. Papà è gay».

Devo fare appello a tutta la mia volontà per non scoppiare a ridere di fronte alle loro espressioni deluse comparse alla mia rivelazione.

Mio padre torna da me, riponendo il telefono in tasca, e mi scompiglia i capelli argentei.
È un gesto che ho sempre amato.

«Scusa, principessa». Anche se cerca di nasconderlo, capisco subito che è piuttosto turbato. «Allora, hai deciso che gusti vuoi?»

Sbircio con sospetto le due donne e, quando mi accorgo che ancora lo guardano bramose, gli stringo forte una mano e lo tiro verso di me, marcando il territorio.
Nel cuore di papà c'è spazio solo per me e la mamma. Adesso lei è in cielo, quindi siamo rimasti solo noi due.
E non ci serve nessun altro.

«Ho cambiato idea. Andiamocene» sussurro diffidente, strattonandolo verso la porta. «Qui non sei al sicuro».

«Cosa?» chiede confuso. «Ma io volevo un gelato».

Lo ignoro e continuo a trascinarlo mentre lui allunga il braccio per riprendere la valigia, adagiata sul pavimento, incespicando sui propri passi.

«Comunque, sappia che siamo assolutamente favorevoli all'adozione per le coppie omosessuali» gli grida la ragazza con i piercing, un attimo prima che usciamo.

Papà aggrotta la fronte, perplesso, ma poi il suo sguardo si posa su di me e un sorrisetto gli spunta all'angolo della bocca.

«Key, perché la gelataia credeva che fossi gay?»

Sfodero la mia migliore espressione innocente. «Non lo so, papino».

Sebbene siamo giunti a Clayton solo da poche ore, sono state sufficienti a capire che non ha neanche la metà del fascino di New Orleans.
La mistica perla della Louisiana, avvolta dalle tradizioni e dalle leggende, trova in Frenchmen Street il suo cuore palpitante di arte e in Boubon Street la sua anima vibrante di musica.
Con i suoi tour serali, organizzati nel Quartiere francese, per dare la caccia agli spiriti creoli, le usanze della misteriosa "città dei morti" e i riti dei praticanti del voodoo... tutto è permeato di magia.

Clayton, invece, è solo la fredda dimora di giganti di vetro e mattoni, assediata da un esercito di alberi imponenti corazzati di armature verdeggianti.
La sua unica bellezza è una vegetazione prospera che però, come una moglie capricciosa, litiga con le moderne costruzioni umane, prive dell'alone incantato del tempo e della storia, che invece impreziosiscono New Orleans.
No, questa non sarà mai la mia casa.

«Non è che sei gelosa?»

«Non gelosa» preciso. «Protettiva».

«Sei proprio la mia eroina».

«Intendevo protettiva verso di me». Incrocio le braccia sul petto. «Non voglio sentire rumori sconci di notte».

Papà emette una risata divertita. «Le donne non resistono al mio fascino. Non è colpa loro».

Purtroppo, è vero.
Con i suoi folti capelli biondo cenere, il fisico tonico e scolpito, i lineamenti netti e marcati tra cui sono incastonati un paio di profondi occhi color muschio, Maxwell Storm dimostra meno dei suoi trent'anni.
E, se a ciò si aggiunge il suo carattere disinvolto ed eccentrico, è inevitabile che attiri l'attenzione.

«Ma tu sei solo mio, vero?» obietto allarmata.

«Ovvio, principessa».

Si china e mi prende in braccio, reggendo la valigia con la mano libera, e subito vengo inebriata dall'aroma di borotalco emanato dalla sua pelle.
Mi aggrappo al suo collo e lo stringo forte, le mie gambe che lo cingono intorno alla vita.

«Key, mi stai soffocando».

Allento un po' la presa e sollevo la testa dalla sua spalla in modo da poterlo vedere in viso. «Credi che ti basterà per due mesi?»

Papà si ferma sul ciglio del marciapiede in attesa che il semaforo diventi rosso.
«Non saprei» replica dubbioso. «Forse mi servirà un'altra dose di affetto, come scorta».

«Hai ragione». Gli deposito un bacio sulla guancia, poi un altro. «Meglio?»

Annuisce e, dopo aver attraversato la strada, percorre un breve tratto lungo un vicolo ed entra in uno dei grandi palazzi che si ergono verso il cielo terso.
Appena varcato il portone, mi deposita sulla liscia superficie di granito e si dirige in direzione dell'ascensore.

Rimango ferma sulla soglia dell'atrio, cercando di imprimere nella mia memoria ogni dettaglio di questi ultimi attimi insieme.

All'improvviso, due mesi mi sembrano tremendamente lunghi.

Come posso sopportare di stare così tanto senza i suoi abbracci, il suo sorriso e le sue favole della buonanotte?
Con chi mi eserciterò a dipingere o farò infinite maratone di serie tv, mangiando le pizze più improbabili di sempre?

Accorgendosi che non lo sto seguendo, papà si volta e gli basta un'occhiata per cogliere i miei sentimenti. Non ha bisogno né di parole né di gesti.
Perché è l'unico al mondo che riesce a capirmi davvero, come io sono la sola che comprende lui.

«Non voglio che tu vada via» sussurro timidamente, giocherellando con i lembi della mia maglietta al contrario, proprio come la sua.

Si avvicina e si inginocchia di fronte a me, accarezzandomi con dolcezza. «Lo so, tesoro. Ma ricorda: il Lupo Bianco ulula nel nostro angolo di cielo, soltanto per noi».

Al nome della nostra costellazione segreta, un piccolo sorriso sorge spontaneo sulle mie labbra.
Per chiunque altro non avrebbe nessun significato... ed è questo che lo rende così speciale.

«Perché non posso venire con te? Sono un'ottima compagna di viaggio» ripeto per l'ennesima volta.

«Ci sono due cose che un genitore deve fare per potersi definire tale, Key: amare i suoi figli... e proteggerli» risponde in tono triste. «Ecco perché non posso portarti».

Aggrotto la fronte. «Non ho capito».

«Non importa». Mi scosta una ciocca dagli occhi, rivolgendomi il suo sorriso speciale riservato a me. «Starai bene con zia Moira».

«Non mi conosce neanche. E se non mi volesse?»

Per un secondo, il suo volto si rabbuia e mormora con voce distante: «Fidati, ti vorrà».

Il loft si trova al terzo piano, in fondo ad uno stretto corridoio poco illuminato e invaso di ragnatele.
Papà comincia a bussare e, insieme, canticchiamo una versione personalizzata di qualche classico italiano. "Il pescatore", per la precisione.

«Ma chi diamine...»

La porta si spalanca e compare una donna vestita con un top sportivo che le lascia scoperta una cicatrice pallida sulla gola.
Non somiglia molto a papà: ha capelli scuri e mossi, occhi verdemare che ricordano il colore dell'oceano, il fisico minuto e un viso allungato su cui è spuntata un'espressione sorpresa.

«Max?» sibila incredula, quasi preoccupata.

«Ti ricordi il favore che mi devi, sorella?» ribatte mio padre, marcando bene l'ultima parola. «Sono venuto a riscuotere».

Una fitta lancinante alla testa mi strappa al mio sogno, facendomi mugolare.
Oltre ad un'atroce emicrania, ho lo stomaco ridotto ad un nodo ingarbugliato e un forte senso di nausea.
Con gli occhi chiusi, mi sforzo di richiamare i ricordi della scorsa sera, ma mi balena solo la vaga immagine di un locale sfarzoso. La Taverna, ecco.

«Chi sta suonando dei tamburi nel mio cervello?» bofonchio con voce rauca, sbadigliando.

Prendo un lungo respiro, cercando di reprimere un conato... ed è allora che percepisco un peso lieve sul mio petto.
Di malavoglia, sollevo una mano per controllare di cosa si tratta e le mie dita si immergono tra quelli che sembrano soffici capelli.

«Sapevo che prima o poi sarebbe successo».

Pregando di sbagliarmi, sbircio tra le palpebre e mi lascio sfuggire un'ovazione di stupore.

Sparrow sta dormendo acciambellata sul mio torace, il suo lungo manto cinereo che imprigiona gli esili artigli di luce che filtrano dalle tapparelle.

Piccola creatura parassita!

Sto ragionando sul modo migliore per liberarmene, quando avverto un movimento brusco al mio fianco e un verso soffocato simile ad un rantolo.
Esitante, piego il capo di lato e il mio cuore manca un battito di fronte alla magnifica statua greca distesa al mio fianco.

Non esiste proprio definizione più adatta.
Infatti, i muscoli rigidi del suo corpo, imperlato di sudore, e la sua posizione rannicchiata, quasi fetale, rievocano le pose tese delle sculture della classicità.
E le ciocche bionde che aderiscono alla fronte bagnata, unite al fisico snello e flessuoso, fasciato dalla felpa fradicia che ne evidenzia gli addominali, gli conferiscono anche la stessa assoluta perfezione.

Sarebbe una visione degna di estatica contemplazione, se non continuasse a contorcersi debolmente nel sonno.
Il suo volto è contratto in un'espressione fragile, le labbra dischiuse da cui scaturiscono lamenti sommessi.
La sua mano sinistra ghermisce nervosamente la coperta, la pietra d'onice del suo anello che scintilla di bagliori freddi e cupi.

«No» farfuglia, agitandosi con frenesia. «Ti prego, no». E si raggomitola sempre di più, scosso dai tremiti.

Mi protendo verso di lui, posando la testa sul suo cuscino, attenta sia a non toccarlo che a non ribaltare la gatta. La fragranza di acqua di colonia è ormai svanita, ma ancora permane l'odore del suo shampoo, un misto di cocco e cannella.

«Tranquillo» gli sussurro all'orecchio. «Non sei solo».

Klaus si accoccola contro di me, come in cerca di protezione, e sibila spaventato: «Non voglio».

Ripenso a ciò che mi ha raccontato Alan, quando sono andata a casa sua, riguardo alle voci su suo zio e su come abusasse di lui... è questo l'incubo che lo tormenta?

«Ci sono io» lo rassicuro, depositando il mento sulla sua nuca. «Nessuno ti farà del male».

Forse è solo una coincidenza o magari ha percepito la mia presenza, eppure inizia lentamente a rilassarsi. A poco a poco, il suo respiro torna costante e un'aria serena affiora sul suo viso, facendolo apparire pacifico e vulnerabile. E più bello che mai.
Un angelo caduto e dannato a cui sono state strappate le ali.

Per un attimo, sono tentata di sfiorare il livido giallognolo sulla sua guancia o di seguire i contorni della cicatrice sull'occhio.
Dopotutto, non lo saprebbe mai...

Nonostante il desiderio pungente, il pensiero di poterlo intimorire di nuovo mi trattiene.
Con uno sbuffo, mi trascino sul mio lato del materasso e una domanda improvvisa mi assale.

Ma perché diavolo lui è nel mio letto?

Mi tiro a sedere di scatto; l'atto repentino mi provoca un dolore pulsante e fa balzare Sparrow sul tappeto, soffiando.

«Per tutti gli dèi!» urlo sconvolta. «Non avrò mica estirpato il fiore della tua purezza?!»

Con una serie di borbottii, Klaus si rovescia sulla schiena e dischiude gli occhi, di un grigio limpido velato dalla stanchezza.

«Che?» biascica assonnato.

«Dimmi che non ho violato la tua innocenza!» insisto, dandogli un pugnetto.

Ignorandomi, si gira su un fianco. «Basta. Lasciami dormire ancora cinque minuti, mamma».

Sul serio mi ha appena scambiata per Alizée?

«Sono Keeley e potrei aver preso la tua verginità».

«Keeley?» Impiega qualche secondo ad assimilare il concetto, poi rilascia un sospiro. «Oh no».

«Abbiamo davvero fatto sesso, allora!»

Klaus si volta, lo sguardo puntato sul soffitto, e si passa una mano sulla faccia stremata.

«No. Devo essermi addormentato mentre ti stavo...» Si zittisce di colpo, poi aggiunge: «In ogni caso, non abbiamo fatto niente».

Mi massaggio le tempie mentre tento di fare luce sugli eventi della precedente notte che, sbiaditi e scialbi, guizzano nella mia mente.

Sono andata alla Taverna e ho litigato con l'omone di guardia che non voleva farmi entrare, va bene.
Ho cominciato a blaterare con il barman e ho bevuto. Molto.
Su quello che è successo in seguito ho molti dubbi, però sono abbastanza certa di essere stata cacciata dal locale.
Klaus mi ha accompagnata alla villa fino alla mia stanza e mi ha raccontato la favola di una principessa che sposava un mostro... no, non era così.

Maledizione, l'ho dimenticata!

«Sicuro? Perché credo di aver baciato qualcuno...»

«L'hai fatto» ridacchia Klaus. «Una ragazza. Era anche molto carina».

Scrollo le spalle, noncurante. «Oh beh, non è la cosa più strana che ho fatto da ubriaca».

«Ne sono sicuro».

Preceduta dal fruscio della porta, Arianne entra nella camera e subito si affretta a sollevare le serrande, permettendo ai raggi del mattino di inondare l'ambiente con un mantello dorato.

«In piedi, signorina...» Appena si volta, rimane a bocca aperta, esterrefatta. «Hallander?»

«No. È ancora presto per il matrimonio».

Klaus mi fulmina con lo sguardo e rotea la testa verso Arianne, che dardeggia senza sosta gli occhi da me a lui, ma non ha il tempo di parlare.

«La colazione è pronta, scusate il disturbo» afferma la ragazza con sarcasmo, prima di precipitarsi fuori.

«Fantastico! Alizée mi ucciderà» commenta Klaus.

Si alza e si sfila la felpa, impregnata di sudore, restando solo con una canotta bianca a maniche corte, il cui scollo a V lascia intravedere alcuni dei segni tondi che gli segnano il petto.
È talmente bagnata che il tessuto gli avvolge il busto come una seconda pelle, pertanto non posso evitare di ammirarlo, seguendo con lo sguardo le pieghe dei suoi addominali.

«Dov'è il mio braccialetto?» chiede corrucciato, tastandosi il polso intorno a cui, di solito, porta la striscia di cuoio rovinata. «Ce l'avevo quando sono venuto a prenderti».

«Come faccio a saperlo? Ero quella ubriaca, ricordi?»

Klaus si piega per coccolare Sparrow, che si è stesa ai suoi piedi con il ventre scoperto. Tuttavia ho l'impressione che stia perlustrando il pavimento in cerca dell'oggetto smarrito.

«Lo avrai perso al night club» suggerisco con semplicità. «Era importante?»

«No» risponde seccato, recuperando la sua felpa.

Con un'espressione tetra, Klaus si infila le scarpe, attraversa rapido la camera e afferra la maniglia. Si ferma e mi scocca un'occhiata profonda da sopra la propria spalla.

«Hai fatto un bel sogno?»

Increspo le sopracciglia, colta alla sprovvista dalla sua domanda. «Ehm sì... perché?»

«Curiosità. Perdonami, ficcanaso, ma ora devo andare a fare la doccia».

Non riesco a proferire parola che solleva un indice, interrompendomi. «E no. Non la faremo insieme» specifica in tono serio.

«Neanche se giuro di non toccarti?»

Senza rispondere, Klaus apre la porta ed esce, seguito da una felina ombra grigia.

Dopo una ventina di minuti, finito di lavarmi e cambiarmi, mi trascino giù per le rampe di scale, stringendomi la pancia.
Appena arrivo in soggiorno, Carol mi consegna prontamente un'aspirina e un bicchiere d'acqua.

«Mangia la frutta per colazione, niente dolci» ordina con un sorriso comprensivo.

Annuisco, anche se la sola idea di ingerire qualsiasi cosa mi fa torcere le viscere ancora in subbuglio.

«Ah, giusto!» Carol prende dalla tasca un post-it giallo su cui sono scarabocchiati dei numeri e me lo porge. «Stavo per scordarmi di dartelo».

«Cos'è?» sbuffo, prendendolo.

«Ieri sera, ha chiamato una donna che voleva parlare con te, ma eri già andata via. Non mi ha detto il suo nome, però si è raccomandata di lasciarti questo per richiamarla».

Sbatto le palpebre, sbadigliando. «Deve aver sbagliato. Non conosco nessuno a parte voi e Alan. Ma l'ultima volta che l'ho visto era un uomo».

«Ne dubito. Ha chiarito che cercava una ragazza chiamata "Keeley Storm"».

«Mmh, va bene».

Riprendo a camminare, rigirandomi il foglietto di carta tra le dita. Non ho idea di chi possa essere, ma adesso gli unici problemi dei quali posso occuparmi sono i postumi da sbronza.

Quando arrivo nella sala delle colazioni, Klaus è già seduto al tavolo rotondo e continua a toccare il punto in cui portava il braccialetto.
È talmente assorto tra i suoi pensieri che neanche mi saluta.

Alla vista del sontuoso buffet imbandito, il mio stomaco sembra capovolgersi, dunque mi limito a prendere una tazza di tè verde al bergamotto.

«Eccoli i nostri piccioncini!» esclama Kal, entrando poco dopo insieme a Simon.

Sprezzante come sempre della temperatura esterna che rasenta lo zero, indossa una leggera t-shirt color malva e pantaloncini a pois.
I suoi occhi neri brillano di malizia, valorizzati da uno sfumato ombretto magenta e un eyeliner glitterato lungo le ciglia.

«Non gridare» lo ammonisco, colpita da un'altra fitta al cranio.

«È vero che avete dormito insieme?» soggiunge Simon torvo.

A differenza del fratello minore, si è imbacuccato in un pesante dolcevita di lana verde in armonia con gli smeraldi delle sue iridi, che scintillano dietro le lenti storte con uno sguardo piuttosto imbronciato.

«No» dice Klaus.

«Sì» lo correggo. «Voi come fate a saperlo?»

«Scherzi?» Sogghignante, Kal si getta un muffin in bocca. «Strepitavi per tutto il corridoio di volerti ricoprire di pomodoro. Mi sono affacciato e vi ho visti».

«Ma nello stesso letto?» prosegue Simon impallidito.

«Basta con i pettegolezzi». Eileen spunta dal corridoio con irruenza, marciando verso di noi. «Abbiamo una missione».

«Oh no» geme Kal, sbattendo la fronte contro il muro.

«Oggi è il compleanno di Edric e non gli abbiamo ancora comprato niente!»

«È nato ad Halloween?» Bevo un sorso di tè, godendomi la sensazione del liquido caldo che mi scivola nella gola arrossata. «Ecco perché è così inquietante».

«Volevo prendergli alcune camicie, così smette di vestirsi solo di grigio, o magari un profumo, ma forse sono troppo banali. La mia prima idea era stata una macchina, dato che compie sedici anni, però di sicuro ci ha già pensato papà». La voce di Eileen è venata di esagerata disperazione. «Allora, cosa gli regaliamo?»

«Un po' di buonumore?» propone Kal.

Faccio spallucce. «Io non faccio parte della famiglia, perciò decidete voi».

Eileen mi rivolge un'espressione ferita. «Keeley, so che sei arrabbiata con me...»

«Non è vero. Sono indifferente».

«So di aver esagerato» prosegue con rammarico. «Mi dispiace».

Esito per un secondo, poi faccio un gesto vago con la mano. «Non importa, non hai detto nulla che già non sapessi».

«Perfetto, allora verrai con me a fare shopping... e a prendere il regalo per Edric, certo».

È uno scherzo, vero?!

«Ritiro tutto. Non ti ho perdonata» mi affretto a dire.

Sia Klaus che Kal scoppiano in una fragorosa risata, che però si spegne nel momento in cui Eileen puntualizza: «Mi servirà anche il giudizio di un maschietto».

Kal si dà uno schiaffo in fronte. «Accidenti, mi sono appena ricordato che giocherò tutto il pomeriggio a Bloodborne. Che sfortuna».

«Io devo studiare per il test di filosofia» afferma subito Simon.

Klaus inarca un sopracciglio, ironico. «Pensavo ne avresti approfittato per stare con la tua donzella».

«Sei tu che hai dormito con lei, mi pare» ribatte risentito.

«Lo so che sono fantastica, ma non serve litigare per me» ammicco. «C'è abbastanza Keeley per tutti».

Eileen si avvicina a Klaus e gli dà un bacio sulla guancia. «Tu lo farai per la tua sorellina, giusto?»

«Assolutamente no».

«Preferisci che chiami uno dei miei tanti amici?»

Klaus piega la testa di lato, fissandola truce. «Ti detesto».

«No, fratellone». Eileen gli scompiglia i capelli biondi. «Tu mi adori».

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