21. LA FAVOLA PT.2

Appena il suo indice ruvido sfiora la mia guancia, avverto un brivido spiacevole e mi ritraggo di scatto.
Non è il suo tocco che voglio.

«Ci provi con me perché sono ubriaca?» lo canzono. «Sei un orrendo cliché... oppure solo ridicolo. Una delle due».

Jack controlla che il barman sia ancora impegnato con un altro cliente, allora mi afferra il polso e mi attira verso di sé.
La sola cosa che provo, premuta contro i suoi pettorali scolpiti, è repulsione.

«Sei una piccola impertinente, eh?» mi bisbiglia all'orecchio.

«E tu sei un grande verme» interviene una voce con un forte accento inglese.

Jack non riesce neanche a voltarsi che qualcuno lo ha già staccato a forza da me, spintonandolo all'indietro. Arretra barcollando, chiaramente brillo, fino a che posa una delle sue costose scarpe in una pozza di vomito sul pavimento.

«Fanculo, Hallander» ringhia disgustato. «Erano nuove».

Klaus si posiziona di fronte a me, quasi a farmi da scudo. I suoi occhi grigi sono duri come l'acciaio e nelle pagliuzze blu divampa una rabbia che non gli ho mai visto prima.

«Se te la vuoi prendere con me, va bene» sibila furioso. «Ma se tocchi lei, mia sorella o chiunque altro della mia famiglia, te ne farò pentire».

«E cosa fai? Uccidi anche me?»

Jack avanza con passo deciso, la sua stazza robusta che incombe minacciosa sulla figura snella di Klaus, che serra i pugni ma non si muove.

«Dov'era tutto questo spirito eroico con Elizabeth?» lo provoca, fissandolo intensamente. «Jonas non c'era, ma io sì. Ho visto il senso di colpa sulla tua faccia, ho visto il corpo della mia amica... lo sogno ancora, sai?»

L'atmosfera si carica di una tensione nervosa e alcuni ragazzi intorno a noi si stanno già preparando a filmare l'eventuale rissa con i loro lussuosi telefoni.

Klaus sostiene il suo sguardo, senza reagire. Nessuna emozione trapela dalla sua espressione, diventato gelido e marmoreo in un modo che mi ricorda Alizée.
Nonostante ciò, so che il dolore lo sta dilaniando in silenzio. Lo percepisco.

«Mi commuove essere l'oggetto della vostra contesa» esclamo alzandomi. «Ma tra i due litiganti, il terzo gode».

E, in un attimo, mi giro e stampo un bacio sulla bocca alla ragazza di colore accanto a me, che mi guarda esterrefatta.

Le faccio l'occhiolino. «Da questo momento diventerai lesbica, lo so».

«Veramente, lo sono sempre stata...»

Sia Klaus che Jack sono rimasti letteralmente basiti per il mio gesto e una risatina si spande nell'accerchiamento di pubblico che si è creato. 

«Non ho capito chi sta con chi, ma non voglio problemi» urla il barman, dall'altra parte del bancone. «Tu con la cicatrice e tu con i capelli blu, fuori

Klaus mi prende per il gomito e, scambiando un'ultima occhiata ostile con Jack, mi trascina in mezzo alla folla, riprende il mio giubbotto dall'armadio e usciamo dal locale.

Al contatto improvviso con l'aria frizzante della notte, comincio a tremare e fiotti di vapore scaturiscono dalle mie narici.
Klaus mi lascia subito il braccio, ma continua a sbirciare nella mia direzione per accertarsi che riesca a sorreggermi.

«Pomodoro! Mi serve del pomodoro!» grido eccitata. «Voglio ballare nuda coperta di pomodoro!»

Accorgendosi che sto davvero per spogliarmi, Klaus mi blocca la mano con fermezza. Le sue dita sono morbide e delicate... e capisco che è questo il tocco che cercavo.

Mi fermo e, agguantandolo per le spalle, lo sospingo con la schiena contro il muro della Taverna, cogliendolo di sorpresa.

«Che... che cosa fai?» sussurra nervoso.

Porto il viso abbastanza vicino da sentire il suo buonissimo profumo muschiato e il calore del suo respiro accelerato che mi investe.
Per un attimo, i nostri cuori sono in perfetta sintonia, pompando sangue con palpiti rapidi e frementi.
E tutto ciò che vorrei è scoprire il sapore delle sue labbra... se solo i suoi occhi dilatati, incatenati ai miei, non tradissero terrore allo stato puro.

«Tranquillo». Faccio un mezzo sorriso ironico. «Sarai tu a darmi il nostro primo bacio».

Non appena mi allontano, i muscoli del suo corpo, tesi come corde di violino, tornano rilassati e la paura sul suo volto viene sostituita dalla diffidenza.

«Non succederà mai, ficcanaso».

«Mai dire mai».

Riprendiamo a camminare lungo il marciapiede deserto, rischiarato dai lampioni o dalle luci nei giardini delle enormi ville.

«Liam non ti ha ancora restituito le chiavi della Porsche. Sei venuto a piedi solo per me, tesoro?»

Klaus intuisce cosa voglio insinuare e mi fulmina con uno sguardo torvo. «Ero nei paraggi».

«Certo, come no» ammicco beffarda.

«Piuttosto, da chi hai avuto il mio numero?»

«Io non ho il tuo numero» ribatto allibita.

Klaus piega la testa di lato con fare sardonico. «Sarebbe più credibile se tu non mi avessi mandato un messaggio per dirmi dove fossi».

«Questo è inquietante».

«Perché?»

Mi stringo nelle spalle. «Perché io non ti ho mandato nessun messaggio».

D'istinto, entrambi esploriamo la strada con lo sguardo, studiando con sospetto ogni ombra danzante al chiarore della luna, regina solitaria di un cielo nero come l'inchiostro.

«Torniamo a casa» ordina Klaus inquieto. «E tu stammi vicina».

«No, tu stammi vicino. Sono io quella con il coltello».

«Wow, lo spaventerai a morte allora».

«Ah beh, tu invece con i tuoi... ci arrivi a settanta chili, almeno?»

Klaus si acciglia e borbotta cupo: «Zitta e andiamo».

Contrariamente ad ogni nefasto pronostico, riusciamo a raggiungere la villa in una decina di minuti.
Dopo avermi accompagnato in camera, Klaus respinge ogni mio tentativo di convincerlo ad aiutarmi a mettermi il pigiama.

«Sei noioso» sbuffo, infilandomi nel letto, ancora vestita ma senza scarpe.

Klaus osserva perplesso i miei piedi sul cuscino. «E tu sei strana».

«Grazie».

«Buonanotte, ficcanaso» mormora, spegnendo la lampada sul comodino.

«Raccontami una favola» dico in un soffio.

Klaus, che già si stava dirigendo verso la porta, si volta verso di me con fare incredulo. «Cosa?»

«Papà lo faceva sempre, prima che sparisse». Emetto uno sbadiglio esausto. «Magari così faccio un bel sogno».

La sua espressione si ammorbidisce e un sorriso dolce si dipinge sul suo volto.

«E va bene». Si siede sul bordo del materasso. «Che favola preferisci?»

«Ne voglio una triste, altrimenti mi addormento».

«Non è quello lo scopo?»

Mi rannicchio meglio sotto le coperte, stropicciandomi gli occhi. «Sì, ma alla fine. Non durante».

«E va bene».

Klaus porta un cuscino sul fondo del letto e si distende, posandoci la testa sopra. «Tanto tempo fa...»

«Si inizia con "C'era una volta"» lo ammonisco. «Chi te le raccontava le favole? Topo Gigio?»

«Nessuno» taglia corto. «Comunque, c'era una volta, una principessa...»

«Era bella?»

«Vuoi sentirla oppure no?» mugugna irritato.

«Sì, ma tu dammi i dettagli, fiorellino».

«Sei impossibile».

Klaus tira un lungo sospiro e poi riprende: «C'era una volta, una principessa bellissima, ma molto triste. Suo padre, il re tiranno, l'aveva obbligata a sposare un principe che non amava in nome di un matrimonio vantaggioso per entrambe le famiglie».

«Che re bastardo» commento.

Annuisce. «Sì, lo era. Da quell'unione, nacque un maschietto, l'erede al trono. La principessa sapeva che il suo cuore non sarebbe mai appartenuto a suo marito, tuttavia amava suo figlio con tutta sé stessa. Ma poi tutto cambiò».

Apro la bocca, incuriosita. «Perché?»

«Un mostro, che un tempo era stato spasimante della principessa, attaccò il castello, geloso che colei che amava, pur non ricambiato, avesse sposato un altro uomo» prosegue Klaus con voce distaccata. «E quella gelosia corruppe il suo amore, portandolo a commettere un'azione terribile».

«Quale?»

Esita per un secondo, perso tra i suoi pensieri. «Entrò di nascosto nella camera della principessa... e la violentò».

Mi lascio sfuggire un verso indignato. «Che schifo. Spero che il principe lo abbia ucciso».

«No... la principessa lo fece».

A questo punto, mi accorgo che c'è qualcosa di strano in questa favola e nel suo modo di raccontarla.

«Ma ormai il mostro aveva piantato il seme del male dentro di lei... e il frutto di quello stupro fu un bambino».

Malgrado l'oscurità che avvolge la stanza, distinguo i contorni del suo volto, gli occhi che scintillano come argento lucido.

«La principessa sapeva che non avrebbe mai potuto amarlo... lo odiava con tutta sé stessa. Guardava lui, e vedeva solo il mostro».

In ogni parola che pronuncia è impressa una tristezza infinita, profonda, che sembra stremarlo.

«E abbandonò il bambino, dandolo alla famiglia del mostro». La sua voce si incrina, intrisa di sofferenza. «La principessa ebbe molti altri figli, ma non dimenticò mai ciò che aveva subito. E divenne sempre più fredda, più crudele, consumata dal suo dolore. Non visse per sempre felice e contenta... ma visse».

«E il bambino?» lo incalzo.

«Il bambino... morì. Moriva ogni giorno in quella prigione che era la sua casa» risponde Klaus, tremando leggermente. «Ogni tanto, saliva in terrazzo e si sedeva sulla balaustra, sognando di volare via come gli uccelli che solcavano il cielo, finalmente libero».

«Si chiedeva come potesse nel mondo esserci del bene, quando lui riceveva solo del male. E l'uomo cattivo gliene faceva molto, ogni giorno». La voce di Klaus è esile, fragile. «Il bambino credeva fosse colpa sua. Faceva il bravo e obbediva, sempre, perché sperava di renderlo felice... ma non ci riuscì mai. E sarebbe morto, distrutto da una vita che aveva estirpato ogni speranza».

Le mie palpebre si fanno pesanti e, mentre i miei occhi si chiudano, vedo una lacrima rigare la sua guancia.
Cerco di lottare per non scivolare nell'abbraccio del sonno, ma il dispettoso Morfeo ormai mi sta già cullando.
Non prima, però, che senta il finale della favola.

«Ma poi un uomo buono lo salvò... e il bambino cominciò a vivere».

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