19. POSSO SOLO FERIRTI
Come un signore annunciato dal suo devoto vassallo, il pomeriggio si presenta cupo, corteggiato da nubi dense e scure che assediano il sole, bianca corona di un cielo spento e fosco.
Crudeli ballerine bagnate danzano in balia di un vento gelido, flagellando i tetti e le strade della città, avvolta dalle tenebre che divorano il tenue chiarore del giorno.
La fitta coltre di nebbia popola il mondo di ombre grigie, lacerata da fulmini che riempiono l'aria di boati minacciosi.
Il riflesso perfetto della tempesta di sentimenti che infuria dentro di me.
Se qualcuno mi chiedesse come mi sento, in questo momento, non saprei rispondere.
Cosa dovrei provare esattamente?
Confusione? Molta.
Rabbia? Anche.
Delusione? Probabile.
Paura? Forse.
E, in una bufera di dubbi, ho una sola certezza.
Devo parlare con l'unica persona che può sciogliere l'intrico di domande annidato nella mia mente.
Dato che non ho idea di dove possa essere, comincio a vagare per i corridoi ormai deserti.
Probabilmente, la maggior parte degli studenti devono aver già iniziato le loro attività pomeridiane.
Ricordo che Simon mi aveva detto che Alizée costringeva tutti i suoi figli a sceglierne almeno una, tra gli sport o i corsi organizzati dalla scuola.
Ignorando il pensiero che anch'io dovrei essere a pittura, mi ritrovo ad esplorare la biblioteca.
Per quanto grande, appare abbastanza modesta in confronto a quella della villa.
Un gruppetto di ragazzi è raccolto in religioso silenzio intorno ai tavoli, il naso ficcato tra le pagine di tomi imponenti.
Alcuni, stravaccati sui divanetti, stanno discutendo di argomenti filosofici o avvenimenti storici, animati da una strana passione.
Ad essere onesta, per me stanno parlando una lingua sconosciuta.
Da solo, appartato in una piccola sala studio, vedo un ragazzo dai capelli nerissimi che sta leggendo un libro giallastro.
Edric.
Non si è accorto di me, ma non credo che sia perché è troppo preso dalla lettura.
Scorre rapido le righe di inchiostro sbiadito, mordicchiando il cappuccio della penna con aria assente.
Sembra assillato da pensieri lontani di cui non riesce a liberarsi... come me.
Sto per andarmene e continuare la mia ricerca altrove, quando sento una voce famigliare che mi strappa un sussulto.
«Tregua?»
Edric solleva la testa di scatto e un'espressione rassegnata si dipinge sul suo volto.
«Si dovrebbe usare una bandiera bianca» borbotta con una punta di ironia.
Accompagnato dal lieve crepitio del parquet, Alaric spunta da dietro gli scaffali ed entra nel mio campo visivo.
Osservandolo, la solita vaga sensazione mi stuzzica il cervello, come il ronzio fastidioso di una zanzara invisibile.
Ma, prima che possa cercare di capire cosa mi stia sfuggendo, vengo folgorata da un'idea.
Lui potrebbe sapere dov'è Klaus...
«Devo averla dimenticata a casa. Non sapevo che sarei andato in guerra» risponde, sventolando un fazzoletto.
La scena è così comica che, malgrado tutto, devo attingere ad ogni briciolo della mia forza di volontà per non ridere.
Anche Edric cerca invano di reprimere un sorriso, che però si forma comunque sulle sue labbra.
È la prima volta che lo vedo sorridere, da quando lo conosco.
«Perché sei qui?» borbotta, affrettandosi a tornare serio.
«Tranquillo, farò finta di non averlo notato» ridacchia Alaric.
«Notato... cosa?»
«Il tuo sorriso».
Le guance di Edric si tingono di un intenso rossore e balbetta con fare agitato: «Io... non... non ho...»
«Certo, certo».
Alaric si siede sul bordo della scrivania, il ginocchio che sfiora la mano di Edric adagiata sul bracciolo.
Quest'ultimo, come scottato da quel contatto, si scansa subito e trascina indietro la sedia di diversi centimetri, con uno stridio metallico.
Una parte di me, mi sta gridando che dovrei andarmene... o almeno interromperli.
Invece mi nascondo meglio nell'angolo, lasciato in penombra dalla luce esile e lattiginosa che penetra dalle finestre a sesto acuto.
«Mi dispiace» esordisce Alaric all'improvviso.
Edric corruga la fronte, confuso. «Per cosa?»
«Ho esagerato con te, non avrei dovuto. A mia discolpa, di solito quando ci provo con un ragazzo, o una ragazza, non devo insistere molto». Emette un sospiro melodrammatico. «Ammetto di adorare le sfide e non sono abituato ad essere respinto come hai fatto tu».
«Certo, perché io non sono gay» dice Edric, torturandosi nervosamente le dita.
Alaric lo fissa con un'espressione carica di dolcezza.
«Non ci sarebbe nulla di male» replica comprensivo. «A prescindere da ciò che pensa tua madre».
Per un attimo fugace, il ghiaccio nello sguardo di Edric si scioglie, facendolo apparire più solo e indifeso che mai.
«Non lo sono» taglia corto in tono scontroso. «Che diavolo vuoi, Alaric?»
«Diventare tuo amico. Nient'altro».
Edric aggrotta la fronte, studiandolo con diffidenza. «Non voglio amici».
«Ma ne hai bisogno. Dopo il tuo litigio con Daniel, penso...»
«Ti sbagli» sibila rabbioso, balzando in piedi.
Con un gesto repentino, Alaric lo afferra per un gomito e accosta il viso al suo, tanto che i loro nasi quasi si toccano.
Edric deglutisce e abbassa la testa, guardando il pavimento come se si vergognasse, ma non si ritrae.
«Accetta di uscire con me. Una sola volta, non chiedo altro. Come amici» ribadisce speranzoso. «Faremo tutto alle tue condizioni, promesso. Nessuno lo saprà se non vorrai».
«Smetti... di fare...» lo implora Edric tremante, stentando a trovare le parole. «Tu... tu mi confondi».
Alaric gli posa un dito sotto il mento e, con estrema delicatezza, lo costringe a sollevare il volto.
«Per favore, dammi una chance».
Segue un lungo silenzio, ornato dallo scroscio della pioggia e dal fragore dei tuoni.
Edric si agita irrequieto, fremendo sotto il suo tocco, mentre dardeggia gli occhi in tutte le direzioni... fino a conficcarsi nei miei.
«No».
Senza aggiungere altro, si libera dalla sua presa e si allontana tra gli scaffali, lasciando Alaric da solo in mezzo alla sala.
Muovo qualche passo verso di lui, schiarendomi la gola abbastanza forte per segnalare la mia presenza.
Mi saluta con un distratto cenno della mano. «Ciao, Keeley».
«Possiamo saltare la parte imbarazzante in cui fingo di non aver origliato tutto?»
«Ottima idea» mormora sconsolato.
«La strategia per sfinimento non ha funzionato, eh?» chiedo ironica.
«Gli Hallander sono maledettamente testardi».
Alaric si getta sulla sedia e giocherella con la penna abbandonata sulla scrivania, accanto al libro ancora spalancato.
«Dovrebbero cambiare il loro stemma, dal leone al mulo» propongo, strappandogli una risatina.
Per qualche ragione, una morsa di gelo mi investe, facendomi accapponare la pelle, e l'istinto mi spinge ad indietreggiare.
«Stai bene?» chiede, accorgendosi della mia reazione.
«Io sto sempre bene». Scrollo le spalle con forzata indifferenza. «Restando in tema di Hallander, ne sto cercando un altro. Biondo e con una cicatrice sull'occhio in stile Anakin Skywalker, non puoi sbagliare».
«Klaus si sta esercitando al piano».
«Ne apprezzo l'ironia» borbotto con amaro sarcasmo.
«Vuoi che ti accompagni?»
Scuoto la testa. «No, ragazzo gelloso. Devo parlargli da sola».
Anche seguendo le sue indicazioni, impiego una ventina di minuti per raggiungere l'aula di musica.
Essendo situata in uno degli edifici separati dalla struttura centrale, devo inoltrarmi lungo una stradina di marmo, piegata dalle sferzate del vento che continua a calarmi il cappuccio.
Intorno a me, c'è solo una desolazione di campi da football su cui rotolano dei palloni dimenticati.
Tutto è immerso nello spesso mantello di foschia che fluttua sopra il terreno, offuscandomi i sensi.
Quando entro nell'immenso atrio, il giubbotto è fradicio e il tessuto bagnato dei pantaloni aderisce alle gambe.
Nonostante ciò, non posso che rimanere affascinata dagli arazzi di seta che impreziosiscono le pareti o le statue di bronzo che si ergono sulla lucida superficie di granito chiaro.
Man mano che procedo lungo il corridoio, una dolce melodia inizia a cullarmi.
Prima è solo un eco lontano, ma ad ogni passo diventa sempre più nitida e profonda.
A poco a poco, scivolo nell'abbraccio malinconico di quelle note e il testo della canzone emerge nella mia mente.
“Sono al limite e sto urlando il mio nome a squarciagola, come uno stupido.
A volte quando chiudo gli occhi
faccio finta di stare bene ma non è mai abbastanza, perchè il mio eco è l'unica voce che ritorna.
La mia ombra è l'unica amica che ho”.
Le dita affusolate di Klaus sfrecciano sulla tastiera, inesorabili e delicate, gli occhi chiusi e le labbra increspate in un sorriso triste.
È vestito completamente di scuro, come sempre. Un angelo nero accarezzato dalla solitudine, tormentato dallo spettro di un passato mai sepolto.
L'ho uccisa io.
Ma perché avrebbe dovuto uccidere qualcuno che cercava di aiutarlo? Una ragazza che era innamorata di lui?
“Vorrei solo sentirmi vivo e riuscire a vedere il tuo viso di nuovo, ancora una volta, ma qui c'è solo il mio eco e
la mia ombra, l'unica amica che ho”.
Quelle parole penetrano nel mio cuore e sfiorano le corde della mia anima, legandola alla sua in un intreccio indissolubile di dolore e nostalgia.
Sente la voce di Elizabeth nel suono della musica come io vedo il sorriso di mio padre nella luce delle stelle?
L'ho uccisa io.
Ma allora per quale ragione avrebbe riportato il suo corpo al falò? Senso di colpa?
No, c'è dell'altro. Qualcosa che Jonas non sa. Qualcosa che non ha rivelato a nessuno.
Deve esserci.
Forse non era consapevole mentre lo faceva, magari è stata un'azione meccanica...
Dopo l'incidente, avevo raccontato al dottore dell'uomo che aveva sparato a mia zia.
Dunque, lui mi ha spiegato che un "cervello traumatizzato" cerca automaticamente di proteggersi.
Ad esempio, ha aggiunto, viene spesso compromessa la corteccia prefontale, responsabile del pensiero razionale. O anche quella parte legata alla regolazione delle emozioni.
Tradotto: quando una persona è sotto shock, può prendere decisioni assurde senza un motivo logico.
Ma il suo trauma è stato quello di aver assistito ad un omicidio... o di averlo commesso?
All'improvviso, l'incantesimo si spezza e l'armonia si affievolisce fino a sparire, lasciando un senso di vuoto dietro di sé.
«Hai bisogno di qualcosa, ficcanaso?» domanda Klaus, ruotandosi sullo sgabello.
Rimango disorientata per un secondo, poi mi riscuoto e spalanco la porta socchiusa da cui lo sbirciavo, richiudendola alle mie spalle.
«Non sei male» commento in un tono più teso di quanto avrei voluto.
È una bugia, e lo so benissimo. Suona in maniera incredibile, unica, come se si creasse un'unione tra lui e il suo strumento, e il piano fosse il suo quinto arto.
Ma non lo ammetterei mai.
Klaus arcua un sopracciglio, perplesso. «Mi hai appena fatto un complimento?»
«Ehi, biondino, non ti allargare. Non ho mica detto che sei Mozart».
«Ecco, appunto».
La risata che scaturisce dalla sua gola mi fa mancare un battito e devo scuotere la testa per impormi di rimanere concentrata.
L'ho uccisa io...
«Ho parlato con Jonas».
Quella breve frase è sufficiente a trasformare il suo viso, baciato dalle ombre, in una maschera indecifrabile.
L'argento fuso nei suoi occhi, puntati su di me, si oscura in un grigio freddo e duro, congelando il fuoco fatuo delle sue pagliuzze blu.
«Lo sai» sentenzia gelido.
Il bagliore di un lampo sventra la cortina di nubi e la sua cicatrice scintilla sulla carnagione perlata, mettendo in risalto i suoi lineamenti precisi, la forma sottile del mento e la curva morbida della mascella.
Per la prima volta, il suo fascino mi appare quasi inquietante. Una bellezza letale che lentamente ti trascina nell'oblio.
«Bene. Non aveva senso nascondertelo».
Klaus si gira e riprende a suonare una nuova armonia che non conosco.
Lenta e strascicata, sembra infusa di nostalgica urgenza, come il pianto di un bambino che nessuno è disposto ad ascoltare.
«Tutto qui?» sbotto frustrata.
La sua risposta giunge secca e imperiosa, remota come il gorgoglio prolungato del tuono che esplode nel cielo.
«Cosa vuoi che ti dica?»
«Non saprei». Batto la punta dell'indice sul mento, fingendo di rifletterci. «Quest'estate, hai ucciso qualcuno che mi somigliava, per caso?»
Calmati, Keeley.
Prendo un lungo respiro, invocando la mia già scarsa pazienza.
Klaus rimane in silenzio, le sue mani che continuano a danzare tra i tasti e i piedi che si alternano sui pedali.
Il ritmo della canzone accelera, facendosi rapido, frenetico e irrequieto.
E, tra quelle note, vibra tutta la sofferenza che lo sta lacerando, il lamento di un cuore ferito che grida senza voce.
Tutta la mia rabbia si dissolve, sostituita dalla compassione di una consapevolezza che Jonas ha dimenticato.
L'ha persa anche lui... e gli fa male.
Avanzando con esitazione, lo raggiungo e mi siedo al suo fianco sullo sgabello, investita dal suo fragrante profumo muschiato.
«Voglio la verità, Klaus».
Nonostante l'espressione impassibile, il suo sguardo adombrato tradisce un sentimento senza nome. Troppo intenso per essere semplice tristezza, troppo logorante per essere mero rimorso.
È una sorta di paura, un terrore ancestrale e atroce, così lancinante che sembra stremarlo mentre riversa la sua agonia nel canto bisognoso di quella melodia immortale.
Si lascia sfuggire un singulto e mormora ansimante: «Non posso dartela».
«Perché?»
«PERCHÉ NON POSSO!» grida con foga, richiudendo di scatto il piano.
Nella sua voce non c'è rabbia, solo la stessa disperata fragilità riflessa nel suo volto.
Klaus serra le palpebre, tentando di soffocare le lacrime, solleva il pugno e lo abbatte con forza sul polpaccio. Emette un singhiozzo sommesso e si colpisce di nuovo, poi lo fa un'altra volta, e ancora, come se avesse bisogno di punirsi.
Quando gli afferro il braccio, bloccandolo, mi accorgo che trema come una foglia.
«Basta» sussurro con dolcezza, sentendo tutti i suoi muscoli irrigidirsi al mio tocco.
Lo attiro lentamente verso di me e, con mia grande sorpresa, non oppone resistenza. Si arrende, docile, lasciando che appoggi la mia fronte sulla sua.
I nostri respiri si mescolano, bruciando l'aria tra di noi, unendoci in un legame palpitante di dolore.
Due anime diverse ma affini, ugualmente distrutte dalle proprie cicatrici.
Elizabeth voleva guarire le tue ferite, invece senza volerlo ha scavato la più profonda di tutte.
Provo l'impulso di accarezzare i suoi capelli biondi e di stringerlo, sussurrandogli all'orecchio che starà bene, anche se so che non è vero.
Perché questo è ciò che avrei voluto che qualcuno facesse con me.
Ma non sono sicura che me lo permetterebbe e non voglio spaventarlo ancora di più, quindi mi trattengo.
«Me lo merito, Keeley» sibila in tono esile. «Merito l'odio di Jonas, di Stefan, dei miei fratelli... di mia madre»
Sua madre.
Prima d'ora, non aveva mai definito Alizée in quel modo.
«Stefan non ti odia. E neanche i tuoi fratelli». Abbozzo un debole sorriso, pur sapendo che non può vederlo. «Beh, forse Edric sì, dopo stamattina».
Un gemito spontaneo lascia la bocca di Klaus, come una debole risata affogata dall'angoscia.
«Tu non capisci. Loro sarebbero stati meglio senza di me».
«Anch'io sarei stata meglio senza la pizza all'ananas, però l'hanno inventata» replico seria. «E sai la cosa incredibile?»
Una lacrima fuggitiva scivola dalle sue ciglia e si deposita sulla mia guancia, delicata come un bacio.
«Della pizza all'ananas?» ripete confuso.
«A molte persone piace».
Gli sfioro con delicatezza una guancia, la sua pelle morbida e calda contro le mie dita ancora intirizzite. Ritiro subito la mano appena lo sento fremere spaventato.
«Troverai sempre qualcuno che ti ama, anche se non capisci cosa veda in te».
Gli occhi di Klaus si dischiudono e si incatenano ai miei, così fragili e vulnerabili. Una foschia nebulosa luccicante di zaffiri in cui mi perdo.
«Devi starmi lontana, Keeley. Posso solo ferirti» bisbiglia, scansando una ciocca di capelli blu dal mio viso.
Senza volerlo, anch'io adesso sono scossa dai tremiti, travolta da una scarica elettrica che parte dal punto in cui mi ha toccata.
«Abbiamo una cosa in comune, allora».
Klaus trae un sospiro profondo, che sembra ardere passando dalle sue labbra alle mie.
Quando parla, la sua voce è esausta, distrutta. «Non lo so».
Uno spasmo scuote tutto il suo corpo fino a riverberarsi nel mio, trasmettendomi il suo stesso strazio, la sua stessa immensa solitudine.
«Mancava un solo proiettile. Le mie impronte erano sulla pistola. E sulle mie mani c'era polvere da sparo».
Mi succede di rado di rimanere senza parole; questa è una di quelle occasioni. Perciò non dico niente, lasciando che si prenda tutto il tempo che vuole per proseguire.
«Non posso dirti se sono stato io. Non posso dirlo a nessuno» ansima tormentato.
«Perché non mi ricordo nulla di quella notte».
Bạn đang đọc truyện trên: AzTruyen.Top