17. ELIZABETH

«IN LIMOUSINE?!» grido a squarciagola.

Ci troviamo nell'atrio, radunati di fronte al maestoso portone di quercia, e Carol ci ha appena avvisati che l'autista ha già portato fuori dal garage quella modesta vettura.
Tutta la cucciolata degli Hallander mi fissa come se fossi pazza e perfino alcune cameriere si voltano verso di me, scioccate dalla mia reazione.

L'unico totalmente disinteressato è Edric che, in disparte, guarda dalla finestra con sguardo tetro, assorto nei suoi pensieri. Non ha pronunciato neanche una parola, da quando Alizée si è ritirata nel suo studio.

«Voi andate a scuola in limousine?» ripeto, ignorando il fastidioso nodo alla gola che mi acuisce la voce.

Eileen annuisce, perplessa. «Beh, non tutti. Liam frequenta un college fuori città, quindi prende il treno. Simon usa la moto di solito e, ogni tanto, accompagna anche me».

«Ed io preferisco la mia Porsche» completa Klaus beffardo.

«Hai diciotto anni. Perché sei ancora al liceo?» obietto con un ghigno.

«È stato bocciato» ridacchia Kal, beccandosi un'occhiataccia dal fratello.

«Mi sono fatto bocciare» puntualizza sulla difensiva.

«Sì, per fare un dispetto alla mamma» commenta Eileen ironica.

«Ti serve un passaggio, ficcanaso?» mi chiede Klaus in tono insolente.

«No, grazie». Poso una mano sul ginocchio con una falsissima smorfia di dolore. «Porto ancora i segni del passaggio sul tuo cofano».

Forse è solo una mia impressione, ma per un istante mi sembra di vedere le labbra di Simon tirarsi in un piccolo sorriso di trionfo.

Klaus rotea gli occhi, esasperato. «Mi tormenterai fino alla fine dei tempi per questa cosa, vero?»

«Ci puoi scommettere, tesoro».

Mi volto e schiocco le dita in direzione di Simon... o meglio, ci provo ma con scarsi risultati. Non sono mai riuscita ad imparare a farlo.

«Carotino, prendo la moto. Puoi venire con me, se vuoi».

«Veramente la moto è mia» obietta lui protettivo.

Emetto uno sbuffo di finta rassegnazione. «E va bene. Ti faccio guidare».

«Potreste fare un threesome pazzesco» suggerisce Kal malizioso, facendo arrossire Simon come un peperone.

«Non mi dispiacerebbe». Faccio spallucce. «Sono sessualmente aperta a sperimentare cose nuove».

«Basta, mi state facendo sanguinare i timpani». Klaus estrae le chiavi dell'auto dalla tasca. «Ci vediamo a scuola».

Non ha ancora mosso un passo verso l'uscita che Liam gli si è già parato davanti, bloccandolo.

«Meglio di no» dice in tono cortese, sfilandogli le chiavi dalle dita. «Quando vai a scuola da solo, spesso prendi una strada così lunga che non arrivi mai a destinazione».

Klaus inclina la testa di lato, fissandolo torvo. «Senza offesa, fratello, ma sei un gran rompipalle».

«Un rompipalle con le tue chiavi, per l'esattezza». Con un'espressione compiaciuta, Liam gli dà un'affettuosa pacca sulla spalla. «Ti conviene andare in limousine, fratellino».

«E quando riavrò la mia auto?»

Liam infila un costoso impermeabile beige e afferra un ombrello di raso dalla maniglia dorata, impreziosita da un grande cristallo.

«Quando riprenderai le sedute con la tua psicologa» risponde con semplicità, prima di uscire.

Nel momento in cui la porta si spalanca, il soffio di un vento spietato ci investe, piegandoci sotto le sue fredde frustate.
L'aria gelida è cullata dall'abbraccio di una nebbia fitta e cupa, trafitta da una pioggia tagliente. Ogni goccia è come un frammento di ghiaccio scagliato in faccia.
La lussuosa limousine, bianca con cromature platinate e oscurati vetri fumé, si staglia sotto il portico coperto da una tettoia. Una sagoma indistinta sospesa in una coltre scura, che spegne i deboli raggi di un sole pallido.
Il mondo sembra aver perso i suoi colori, riducendosi alle sfumature di un triste grigio.

«E va bene. Niente moto» mi arrendo a malincuore. «Non voglio morire».

Il peggior viaggio della mia vita si protrae per trenta interminabili minuti.
Durante tutto il tragitto, seduta sulle lunghe panchine in pelle, continuo a tamburellare un piede sulla soffice moquette nera, sfregando le mani sudate sui pantaloni imbottiti.

All'inizio, Simon cerca di fare conversazione con me. Quando però lo minaccio di buttare i suoi occhiali dal finestrino, decide saggiamente di rinunciarci.

Mi dispiace, ma sono troppo impegnata a combattere l'ansia che mi impasta la bocca per parlare.

La mia nuova scuola porta il suggestivo nome “Black High School” ed è considerata, secondo l'opinione pubblica, la punta di diamante della città.
Stando alle parole di Kal, che non smetterebbe di blaterare neanche sotto tortura, è stata fondata dal padre di Alizée, Jonathan Blackwood, circa un ventennio fa.

Anche se, in realtà, somiglia più ad un campus universitario che ad un liceo privato.

È formato da un complesso di edifici verniciati di bianco e marrone tra cui si snoda un intrico di larghi sentieri lastricati di pregiato marmo.
Nel cuore dell'immenso piazzale, spicca il corpo centrale: una struttura a pianta rettangolare dominata da una gigantesca cupola di cristallo massiccio dalle nervature di titanio.
Sulla collina addossata alla recinzione in legno di cedro, si sviluppa un piccolo bosco di pini e abeti. Un paradiso verde immerso nella foschia e ghermito dagli artigli del vento.

Appena la limousine si ferma, mi precipito fuori così velocemente che a stento mi ricordo di sollevare il cappuccio del giubbotto.
Sento la pioggia picchiarmi sulla nuca e sulla schiena come se stessero cadendo acini d'uva e il gelo sferzante che mi penetra nelle ossa.
Per un secondo, un lampo accecante lacera il cielo, ammantato di nubi fosche e nuvole d'inchiostro, a cui segue il rombo di un tuono che scuote il terreno.

Insieme agli Hallander, mi unisco alla sottile colonna di alunni che confluisce lungo la scalinata monumentale, scolpita nella pietra, fino a giungere al riparo all'interno della scuola.

Ci ritroviamo in un'ampia sala piuttosto confortevole, cosparsa di tavolini, panche e divanetti in corrispondenza dei punti di ristoro.
Un trambusto assordante di voci e di scalpicci di passi frenetici, mi risuona fastidioso nelle orecchie.

«Salve a tutti!» urlo al viavai di studenti. «Mi chiamo Keeley Storm, sono nuova e sono single!»

Molti si voltano verso di noi e cominciano a confabulare tra loro in un brusio incessante, allungandoci occhiate oblique o indicando un punto nella nostra direzione.
Un drappello di ragazze comincia a ridacchiare con fare civettuolo, sfoderando sorrisetti languidi.

«Mi stanno guardando tutti» commento soddisfatta.

«In verità, guardano me» precisa Klaus annoiato.

«E menomale che sono io l'arrogante» lo stuzzico.

Eileen gli sfiora gentilmente il gomito e gli sussurra, così piano che devo sforzarmi per sentire: «Si dimenticheranno di questa storia».

Klaus le scocca un'occhiata accigliata. «Io non voglio che lo facciano» ribatte tagliente.

«Eccovi finalmente!»

Senza una ragione esatta, un brivido mi scuote la colonna vertebrale al suono di quella voce, nonostante il timbro gioviale.

Alaric ci raggiunge, i capelli scuri tenuti indietro da così tanto gel che sembrano di plastica. Non appena i suoi occhi si posano su Edric, il sorriso sul suo volto si allarga.

«Ciao, amo...» esordisce allegramente, ma non riesce neanche a finire la frase.

«NO!» sbotta Edric gelido. «Lasciami in pace, maledizione!» E lo supera, dandogli una violenta spallata.

Alaric lo osserva allontanarsi in fretta e furia mentre tutto il suo entusiasmo si spegne, sfumando in un'espressione amareggiata.

«Sbaglio... oppure oggi è un po' di malumore?» chiede avvilito.

«Edric è sempre di malumore» replica Kal noncurante.

«L'ho notato anch'io» annuisco. «Credevo che questa fosse la sua versione standard».

Alaric aggrotta la fronte, corrucciato, e accenna al livido sulla guancia di Klaus. «Chi devo uccidere per quello?»

«È caduto» interviene Eileen. «Stiamo tutti fingendo di crederci».

«Farsi gli affari miei deve essere uno sport olimpico».

«Magari. Sarebbe il primo sport in cui sono brava» affermo con fierezza.

Klaus borbotta qualcosa che, curiosamente, è molto simile alla parola "ficcanaso", poi fa un cenno ad Alaric.

«Forza, andiamo. Se dovessi fare tardi a lezione, Liam potrebbe arrabbiarsi» sbuffa sarcastico. «Ci tiene tanto che io mi comporti da bravo bambino».

Si avviano entrambi lungo il corridoio adiacente in cui si susseguono file di armadietti, sparendo poco dopo in mezzo alla calca.

«Devi andare in segreteria a prendere l'orario» mi ricorda Simon.

«Ah giusto». Un senso di disperazione mi assale, ripensando alle dimensioni esagerate della scuola. «Se non doveste avere più mie notizie sappiate che starò ancora vagando alla ricerca della segreteria».

«Tranquilla, ti ci portiamo noi» si offre lui, aggiustandosi gli occhiali sul naso. «Non è lontana».

«Divertitevi. Io vado al bar» si congeda bruscamente Kal.

«Per favore, sappiamo tutti che ci vai solo per vedere Amelia» gli grida dietro Eileen, ma ormai è troppo lontano.

Dopodiché, i gemelli Hallander mi guidano per i corridoi, schivando studenti vocianti diretti alle loro classi e ignorando coppiette imboscate negli angoli a pomiciare.
Al nostro arrivo, scopriamo che la coda per la segreteria è piuttosto lunga. Durante l'attesa, non riesco ad evitare di guardarmi intorno, stupefatta per lo sfarzo che permea ogni centimetro di questo luogo.

E, quasi casualmente, mi accorgo che qualcuno mi sta fissando.

Stefan Reed è in piedi, fermo alla base delle scale che portano al piano superiore, con un piede già sul primo gradino. Indossa lo stesso trench rovinato di quando ci siamo incontrati a Baker Street, sopra un gilet sbiadito e una camicia spiegazzata.

I suoi occhi, di un azzurro talmente scintillante che sembrano brillare di luce propria, sono incollati su di me. E, appena incrocio il suo sguardo, percepisco quasi un alone di... di tristezza.

Stefan mi rivolge un saluto con la mano, abbozzando un sorriso, e riprende a salire gli scalini, la valigia consunta che oscilla al suo fianco.

«Voi lo conoscete bene?» domando, puntandolo con il mento. «Il professore».

«Stefan?» obietta Simon. «Certo. Lavora per la mamma da un paio di mesi. È il miglior insegnante del liceo».

Forse per il modo in cui continua a tirarsi nervosamente su gli occhiali, ma ho il sospetto che mi stia nascondendo qualcosa.

«E anche il più carino» aggiunge Eileen maliziosa. «Carol ha una cotta per lui».

«Che cosa?» Mi lascio sfuggire un'ovazione sorpresa. «Allora anche la nostra pudica signora Ossa ha un punto debole».

«Già, ma Stefan non è interessato alle relazioni».

«Perché no?» replico incuriosita.

Eileen si stringe nelle spalle. «So che è vedovo da molti anni. Una volta, mi ha detto che non ha più amato nessuna donna, dopo che sua moglie è morta».

La notizia mi coglie alla sprovvista, ma non ho il tempo di rispondere che arriva il mio turno allo sportello della segreteria.

Quando ritiro il foglio con gli orari delle lezioni, scopro che Alizée mi ha iscritta agli stessi corsi che frequentavo nel mio liceo a Clayton.
Non mi meraviglia che li conoscesse, dato che mi aveva avvertita di essersi informata su di me, compreso il mio rendimento scolastico.

Tuttavia rimango letteralmente esterrefatta quando leggo l'attività pomeridiana che ha scelto per me: pittura.

Ho smesso di dipingere da sette anni, da quando papà se n'è andato... quindi come diavolo fa lei a saperlo?

**

Di tutte le punizioni e piaghe divine che hanno afflitto l'umanità, nessuna è mai stata più atroce della matematica, nella mia modesta opinione.

A metà della seconda ora che trascorro sentendo parlare di strane cose chiamate disequazioni, sono afflosciata sulla sedia con la faccia premuta sul libro, le tempie pulsanti e un forte desiderio suicida.

«Che cosa stai facendo, signorina Storm?» strepita la professoressa Flich, con la sua odiosa voce starnazzante.

È una donna bassa e tarchiata, i capelli untuosi così lunghi che le arrivano al fondo schiena e una discutibile passione per il giallo.

O almeno è ciò che deduco dalla sua camicetta dai bottoncini di madreperla, dalla gonna a coste, le scarpe alte, le spille ai lati della fronte... perfino la borsa firmata.
Tutto rigorosamente color limone.

Sollevo la testa e la pagina mi rimane appiccicata alla guancia.

«Invoco gli dèi per una morte più misericordiosa» bofonchio esausta.

Tra i miei compagni si diffondono dei risolini. Al mio fianco, anche Simon sta sogghignando mentre Eileen, accanto a lui, scuote la testa a metà tra divertita e rassegnata.

In fondo alla classe, invece, Klaus e Alaric sono troppo impegnati a discutere sommessamente per sentire.

La professoressa Flich si piazza le mani sui fianchi, torreggiando davanti al mio banco.

«Ti sto forse annoiando?»

«Per il mio bene, mi avvalgo del diritto di non rispondere».

«Ecco, bene. E smetti di disturbare».

«Quindi io, dormendo, disturbo la lezione, ma loro» accenno a Klaus e Alaric, in ultima fila «che bisticciano come due innamorati da un'ora no?»

«Non ti presto la mia auto per...»

Klaus rifila un pugnetto ad Alaric per zittirlo, accorgendosi di avere addosso l'attenzione di tutti i presenti, e mi mostra il dito medio.

«Fuori dalla classe, signorina Storm. Ritorna quando avrai trovato un po' di educazione» sentenzia la professoressa.

«Meglio. Tanto dovevo andare a svuotare la vescica» borbotto, alzandomi.

Per mia fortuna, incontro un simpatico bidello di nome Dave che mi fornisce le indicazioni per i bagni più vicini.
Sto percorrendo un lungo corridoio dal soffitto alto, sorretto da robuste colonne ioniche con il capitello a volute, quando sento l'eco dei passi alle mie spalle.

Con la coda dell'occhio, scorgo un ragazzo che mi segue, riducendo a rapide falcate i metri di distanza che ci separano.
Quando lo riconosco, una vaga sensazione di paura inizia ad insinuarsi dentro di me... ma la respingo subito.

Se pensa che Keeley Storm sia una ragazzina indifesa, si sbaglia di grosso.

Svolto velocemente l'angolo e mi nascondo dietro una colonna, preparando il mio fedele coltellino svizzero.
Il cuore mi tuona in gola simile al rullo di un tamburo, così forte che quasi temo che il suo battito possa tradirmi.

Appena lui compare, lo spingo subito contro il muro e gli punto la lama sottile al petto, forando la giacchetta di pelle.

«Cazzo!» esclama stordito, senza traccia di timore. «Ma tu sei una psicopatica!»

«Oh sì. Anzi, peggio: una psicopatica con un coltello». Conficco i miei occhi ambrati nei suoi, di un cangiante verde dorato. «Dimmi cosa diamine vuoi, Ivan Drago

«Mi chiamo Jonas» puntualizza infastidito.

«Lo so! Era un riferimento al quarto film di Rocky». In risposta alla sua aria interrogativa, aggiungo: «“Io ti spiezzo in due”».

Jonas corruga la fronte. «Non so di cosa stai parlando, ma il tuo accento russo fa schifo».

«Sono più brava con l'arabo» replico sbrigativa. «Adesso dimmi perché mi stai seguendo».

«Prima potresti abbassare il tuo stuzzicadenti?»

«Certo».

Con un sorriso compiaciuto, faccio scivolare la punta del coltellino fino a stuzzicare la patta dei suoi jeans.

Lo sguardo impertinente di Jonas scompare all'istante e il suo volto si contrae.
Non sembra spaventato, ma almeno ha capito che non sto scherzando.

«Tipico degli uomini. Se minacci di ucciderli, tutto a posto, ma il salsicciotto...»

«Sei identica a lei» sussurra Jonas all'improvviso.

La sua voce, così fragile e disperata, mi scatena dei brividi in tutto il corpo, facendomi accapponare la pelle.

«Hai gli stessi occhi di... Elizabeth».

Quel nome lascia le sue labbra con riluttanza, tremante, come se pronunciarlo gli provocasse un dolore immenso.
Un dolore che lo consuma e lo distrugge a poco a poco.

Ripongo il coltellino in tasca, arretrando un poco. «Chi è Elizabeth?»

«Perché non lo chiedi alla tua nuova famiglia?» ribatte Jonas con amarezza.

«RISPONDIMI!» ordino spazientita.

«Ah giusto! Gli Hallander preferiscono fingere che non sia mai successo. Hanno dimenticato tutto, come se lei fosse polvere sotto il tappeto».

«RISPONDIMI!» grido furibonda.

«Elizabeth Reed era la mia migliore amica».

Un freddo ancestrale mi attanaglia lo stomaco mentre una lacrima solca la guancia di Jonas.
Di colpo, tutta la sua forza si è sgretolata... lasciando di fronte a me solo un ragazzo spezzato.

E, ancora prima che riprenda a parlare, so già che sta per riverlarmi una verità terribile.
Ma non avrei mai potuto immaginare quanto.

«Ed è la ragazza che Klaus Hallander ha ucciso».

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