13. CASA DOLCE CASA

Mi precipito fuori dal Lucky House e comincio a camminare spedita, prendendo la Little Avenue.
Arrivata in fondo alla strada, finalmente mi inoltro in Baker Street.

Contrariamente alle mie aspettative, è un quartiere piuttosto carino, caratterizzato da ristoranti italiani e cinesi, piccole boutique e negozietti sparpagliati tra le vivaci abitazioni variopinte.
Peccato che sia anche il più malfamato della città.

Sto avanzando con gli occhi fissi sui numeri civici, quando sento i miei capelli, ancora scompigliati per il vento, rizzarsi sulla nuca.

All'inizio, è solo una sensazione vaga, facile da ignorare, ma con il passare dei minuti diventa sempre più insistente fino a convertirsi in certezza.

Qualcuno mi sta seguendo...

Mi volto di scatto e porto una mano nella tasca, rassicurandomi un poco al contatto freddo delle mie dita con il metallo.
Mentalmente, ringrazio mio padre per avermi insegnato a portarlo sempre con me e, soprattutto, ad usarlo.

Guardo in tutte le direzioni, il cuore che mi tamburella nel petto, ma le strade sono deserte e non sembra esserci nessuno nei paraggi.
Eppure posso percepire uno sguardo che preme su di me, vicino e sfuggente.

«Ehi, stalker, ti avviso: ho una bacchetta e non ho paura di usarla!» grido al vuoto.

Il silenzio immobile che mi giunge come risposta non fa altro che innervosirmi ancora di più.
Rafforzo la presa sul piccolo oggetto nella mia tasca, che continua a scivolarmi a causa delle dita sudate.

Il resto succede così in fretta che non posso fare altro se non reagire per puro istinto.

Una sagoma, nera e agile, sbuca fuori da dietro un cassonetto e si scaglia verso di me, talmente rapida che vedo solo una macchia indistinta.

Mi giro e mi allontano di corsa, quasi inciampando per scendere dal marciapiede, e sfilo la mano dalla tasca, il manico rosso della mia arma impugnato saldamente.

Non faccio in tempo a gettare un'occhiata alle mie spalle, per capire chi è il mio aggressore, che un dolore lancinante mi esplode al fianco e vengo scagliata in aria.

Atterro ad un metro di distanza, le braccia protese in avanti per attutire l'impatto con l'asfalto. Ho lo stomaco in subbuglio e mi sento come se i miei organi interni stessero ballando la macarena.

L'auto nera si ferma di colpo con uno stridio e la portiera si spalanca.
Quando vedo chi ne esce, provo l'impulso di alzarmi e prenderlo a pugni... se solo non avessi tutto il corpo indolenzito.

«Stai bene?» chiede Klaus preoccupato, inginocchiandosi accanto a me.

Con una serie di mugolii sofferenti, riesco a mettermi a sedere e faccio una risata sarcastica. Me ne pento subito dopo, attraversata da una fitta alla schiena.

«Certo, essere investiti è un toccasana per la salute, non lo sapevi?»

«Vuoi che ti porti all'ospedale?»

«Per carità. Mi hai appena spiaccicata sotto la tua macchina, scusa ma non ho grande fiducia nelle tue capacità di guida».

Klaus si solleva, incombendo su di me in tutta la sua altezza, e mi fissa con il suo sopracciglio spezzato inarcato.

«Beh, sei tu che facevi jogging in mezzo alla strada».

«E fra poco farò anche golf con la tua testa se...»

All'improvviso, mi ricordo cosa stava succedendo, prima che il Valentino Rossi delle quattro ruote attentasse alla mia vita.

Mi rimetto in piedi, ignorando le proteste delle mie costole ancora doloranti, e spintono bruscamente Klaus di lato.

«Ma che diavolo fai?» si lamenta seccato.

Non so cosa mi fossi aspettata, ma di certo non di vedere solo un gatto randagio dal pelo fulvo che giocherella con un bastoncino di legno.

Non ci credo... stavo scappando da un maledettissimo gatto!

«Hai visto qualcuno potenzialmente psicopatico nei dintorni?» domando a Klaus, facendo vagare lo sguardo in cerca di un segno qualsiasi che mi indichi che non ho immaginato tutto.

«A parte te, intendi?»

«Magari. Se mi avessi vista, biondino, almeno mi sarei risparmiata il giro turistico sul tuo cofano».

Klaus rotea gli occhi. «Ma se non hai neanche un graffio».

Emetto un finto colpo di tosse e indico i pantaloni strappati sulle ginocchia scorticate. «Neanche un graffio, ciccio?»

«Accidenti, potresti morire dissanguata».

«Ehi, non scherzare troppo. Stavo per diventare una bellissima polpettina blu per colpa tua» gli faccio notare indispettita.

«Aspetta, prendo l'auto e ci riprovo. Magari la seconda volta è quella buona».

«Inizio a capire perché hai avuto dei problemi con la legge».

A quelle parole, Klaus sembra diventare di marmo e una maschera indecifrabile gli cala sul volto.

«Tu cosa ne sai?» chiede con un tono così serio da incutermi un po' di paura.

«Niente».

Klaus si posiziona di fronte a me e i suoi occhi si incastrano nei miei. Le pagliuzze blu sembrano pulsare nel grigio, come un mare in tempesta pronto ad inghiottirmi.
Mi osserva per almeno un minuto, senza parlare.

«Okay...» dico lentamente, abbastanza a disagio. «Hai finito con questa cosa da macho inquietante? Avrei da fare».

Quando Klaus si avvicina, per poco non sussulto dalla sorpresa, ma poi si china e raccoglie qualcosa da terra ai miei piedi.

«Questo è tuo?»

Appena mi accorgo che ha in mano il mio amato coltellino svizzero, di un rosso fiammante, cerco di strapparglielo con un gesto repentino.

Ma Klaus è più svelto e arretra di qualche passo, portandosi fuori dalla mia portata.

«Perché te lo porti dietro?» ridacchia divertito.

«Per uccidere chi mi infastidisce. Ridammelo, così te lo mostro».

«Sei odiosa» borbotta, lanciandomi il coltellino.

Lo prendo al volo e lo faccio scivolare al suo posto.

«E tu sei idiota». Poi mi rendo conto che manca ancora una cosa. «Aspetta! Dov'è la mia bacchetta?»

«L'avrai lasciata a Diagon Alley».

La sua risposta mi prende alla sprovvista.
«Conosci Harry Potter?» replico, cominciando a perlustrare per terra.

«Ovvio. Sono cresciuto con Kal» sottolinea Klaus, come se bastasse a spiegare tutto.

«Allora hai anche un pregio! Wow, non me l'aspettavo!»

«Ne ho comunque uno più di te».

«Bastardo».

«Non è il mio peggior difetto» ribatte indifferente.

Per i folletti, quanto è dannatamente insopportabile!

La mia attenzione viene attirata dal gatto che sta mordicchiando il bastoncino con cui giocava prima e... un attimo, ma quella è la mia bacchetta!

«Garfield del demonio!» esclamo, recuperandola dalle sue grinfie e infilandola nella cintura.

Il felino miagola risentito e fugge via verso un vicoletto laterale.

«I gatti mi odiano» constato.

«Non solo i gatti, fidati».

Gli scocco un'occhiataccia e lo supero dandogli una spallata.

«Ci vediamo, fiorellino. Non ammazzare nessuno, se ci riesci» lo saluto, senza voltarmi.

Sento il rumore della portiera sbattuta e, sbirciando dietro di me, vedo Klaus che accosta la macchina al bordo del marciapiede. Poi spegne il motore, scende e si affretta a raggiungermi.

«Che cosa fai?» obietto, fermandomi.

Lui fa lo stesso. «Non è sicuro girare da soli per Baker Street. Qualcuno potrebbe tentare di...»

«Di investirmi?»

«Di farti del male» completa Klaus.

«Tu me ne hai fatto. Parecchio» affermo, accennando alle mie ginocchia.

«Te la sei proprio legata al dito, eh?»

«Domani ti passo sopra con un trattore e vediamo se mi ringrazi».

Riprendo a camminare e, com'era prevedibile, Klaus mi affianca subito.

«Smetti di seguirmi!» gli ordino stizzita.

«Non ti sto seguendo. Vado solo nella tua stessa direzione» risponde con un sorrisetto impertinente.

«Non esistono abbastanza parole per esprimere quanto ti detesti».

«La cosa è reciproca». Klaus schiva il lampione contro cui cercavo di farlo schiantare. «Perché sei da queste parti, comunque?»

«Per fare una cosa. Personale» specifico contrariata. «Quindi evapora».

«Ti dà fastidio che io ficchi il naso negli affari tuoi?» replica Klaus in un tono di sfacciata ironia. «Un po' come se qualcuno guardasse tra le tue cose, nella tua camera».

Touché.
Su questo ha ragione... ma non gli darò mai la soddisfazione di farglielo sapere.

«Te la sei proprio legata al dito, eh?»

Per il resto del tragitto, restiamo entrambi in silenzio.
Dopo dieci minuti, svoltiamo ad un incrocio e finalmente arriviamo davanti al numero 66 di Baker Street.

Nel corso degli anni, avevo immaginato spesso questo momento... anche se, nei miei sogni, c'era sempre mio padre con me, e non un ragazzo irritante che conosco da un giorno.

Ma niente avrebbe potuto prepararmi alla sensazione che mi travolge appena i miei occhi si posano su quella casa.

Credevo che mio padre l'avesse venduta, invece è chiaramente in rovina: la vernice blu scrostata, il piccolo cortile invaso dalle erbacce, il marmo del vialetto crepato, le tegole mancanti nel tetto, i vetri infranti alle finestre...

Eppure a me sembra magnifica. Perfetta nella sua imperfezione.

Posso quasi vederla nei suoi giorni di splendore.
Quelli in cui mia madre annaffiava i fiori nelle aiuole, bellissima con i capelli argentei che mi ha donato.
O quando mio padre dipingeva su un cavalletto sotto il cielo stellato, con quello sguardo di chi vede il mondo oltre le sue apparenze.

Posso quasi sentire l'eco della risata di mia madre quando papà la prese in braccio per farle varcare la soglia per la prima volta.

E percepisco il calore dei loro abbracci, la dolcezza delle loro carezze, l'amore dei loro baci durante quel ballo sotto la pioggia che papà aveva improvvisato per dichiararsi alla donna che amava, alla custode della anima, la regina del suo cuore.

Tutti i loro ricordi racchiusi tra quelle mura, scolpiti nei mattoni, impressi nella terra.
Come l'ombra di un passato che ha tradito ogni speranza e la testimone di un destino che ha infranto tutte le promesse.
Depositaria di una vita mai vissuta e di un futuro che non c'è mai stato. 

«Che cos'è questo posto?» chiede Klaus.

«Casa mia» sussurro, combattendo contro quel vuoto che mi sta lacerando. «O almeno lo sarebbe stata».

In un'altra vita, forse.

Una vita in cui ai miei genitori è stato concesso più tempo per amarsi.
Una vita in cui mia madre ha potuto stringermi tra le sue braccia e dirmi che mi voleva bene.

Mi blocco davanti al portone d'ingresso, trepidante, chiedendomi cosa abbiano provato i miei genitori nel vedere quella casa, dopo averla comprata quasi diciotto anni fa.

«Non vuoi entrare?»

La voce di Klaus mi giunge inaspettata. Mi ero dimenticata che ci fosse anche lui, e nemmeno mi ero resa conto che si fosse avvicinato a me.

«Devo aver dimenticato le chiavi» replico ironica. In realtà, non le ho mai avute. «Volevo solo vederla».

Sto per tornare indietro, ma ho fatto solo pochi passi che Klaus mi richiama, facendomi voltare.
Ha qualcosa nascosto nella mano e, in qualche modo, la porta ora è socchiusa.

«Ma sei un ladro, per caso?»

«Era aperta» risponde in tono innocente.

«No, era chiusa».

«No, era aperta».

«Certo, e io sono Rapunzel».

«Vuoi entrare o no?» sospira Klaus esasperato, porgendomi il mio coltellino svizzero con cui ha senza dubbio scassinato la serratura.

Deve avermelo rubato mentre ero distratta.

Lo riprendo e lo ripongo in tasca, di nuovo. «D'accordo, ma sappi che non mi piace l'idea di avere Lupin come vicino di stanza».

«Potresti anche ringraziarmi, Rapunzel».

«Ah, giusto».

Mi protendo verso di lui e gli rifilo un pugno alla spalla, non così forte da fargli male ma abbastanza da strappargli un'ovazione stupita.

«Non toccare mai più il mio coltello!» lo minaccio.

Klaus si massaggia il punto in cui l'ho colpito, quasi incredulo. «Certo che aiutarti dà molta soddisfazione».

«Aiutarmi? Ma se la porta era già aperta» dico con naturalezza, entrando.

Il piccolo soggiorno, ricoperto di polvere e ragnatele, ha le pareti tappezzate di dipinti storti che, malgrado la patina degli anni, conservano ancora la loro bellezza.
Presentano tutti la stessa firma nell'angolo: "Maxwell Storm".

Un divano mezzo spellato si trova di fronte ad una vecchia televisione dallo schermo rotto, separato da un tappeto ammuffito.
Sugli scaffali, accanto ad una radio a valvole dall'aria malandata, è esposta la collezione di sfere di vetro di mia madre delle varie città che ha visitato.

Non riesco a credere che loro sono stati qui, che hanno vissuto in questa casa... insieme.
Se mi sforzo, posso immaginarmi con loro.
Magari ad aiutare mia madre in un disastroso tentativo di cucinare nell'angolo cottura. O a giocare a scacchi con mio padre, seduti al tavolo, lamentandomi perché continua a farmi vincere.

«Sono molto belli» commenta Klaus, osservando uno dopo l'altro i quadri appesi ai muri.

«Li ha fatti mio padre. È un artista» dichiaro con un misto di orgoglio e malinconia.

Ricordo tutte le volte che sono sgattaiolata fuori dal mio letto per spiarlo mentre dipingeva in giardino, nel cuore della notte.
Lui si accorgeva subito di me e, anche se faceva finta di niente, un lieve sorriso si formava sempre sulle sue labbra.
Ero affascinata dalla maestria con cui tracciava ogni linea e ogni curva, dalla scioltezza con la quale muoveva il pennello, dai suoi occhi verde muschio persi a contemplare un mondo che nessun altro avrebbe mai capito.

«Anche tu sei capace?»

Mi stringo nelle spalle. «Sì, ma non sono mai stata brava quanto lui. E, comunque, ho smesso di disegnare da sette anni ormai».

Ero certa che Klaus avrebbe chiesto che cosa fosse successo a mio padre, come facevano tutti, invece non lo fa. E gliene sono grata.

Con passo esitante, mi inoltro nel corridoio e il mio cuore compie un balzo quando mi ritrovo davanti a quella che sarebbe dovuta essere la mia cameretta.

È ancora allestita per accogliere una neonata, come un guardiano devoto che attende l'arrivo di qualcuno che non arriverà mai. L'ultimo brandello di un passato ormai sepolto.

In un angolo, vicino ad una sedia a dondolo, c'è una culla di legno con un copriletto rosa, una copertina e un peluche.
Sopra pende una giostrina mobile di angeli azzurri e bianchi e, su una delle testate decorate a motivi floreali, è incisa una scritta:

"Al nostro piccolo grande tesoro".

Sul pavimento sono sparpagliati giocattoli, pupazzi e macchinine, perfino una casa delle bambole. In alcuni punti, il legno del parquet è rovinato, come se fosse stato trascinato qualcosa di pesante.

Ma è quando mi accorgo di quello che si trova sulle mensole, insieme alle statuette di legno intagliate da mio padre, che smetto di respirare.

Una foto.

La prendo con le mani tremanti e, guardandola, le ginocchia mi cedono e crollo sul pavimento, la schiena contro la culla.

È una scena semplice, normale: i miei genitori che si abbracciano, in piedi sul ponte di pietra, sullo sfondo di un tramonto che stende un velo purpureo sul fiume.
A giudicare dalla data riportata, risale a circa diciotto anni fa.

Sfioro il volto di mio padre, felice come non l'ho mai visto, desiderando di poter sentire di nuovo il suono della sua voce, il tocco delle sue carezze. Ho nostalgia perfino di quel suo profumo di borotalco per cui l'ho sempre preso in giro.

«Mi manchi» mormoro. «Tanto».

Poi passo il dito sul viso di mia madre, così simile al mio, con la testa posata sulla spalla di papà e gli occhi ambrati che lo fissano così intensamente che sembrano gridare un tacito "ti amo".

«Mi mancate entrambi» sibilo. 

"Non piangere" continuo a ripetermi, lottando contro il dolore che mi artiglia il cuore come un mostro che si dimena per liberarsi.

Quando la porta della stanza cigola, non mi muovo di un centimetro.
Con la coda dell'occhio, vedo Klaus che mi osserva per un attimo sulla soglia, poi si avvicina e si siede al mio fianco.

Avverto ancora il suo sguardo su di me, così profondo che quasi mi brucia sulla pelle.

Quando parla, le sue parole sono diverse da quelle che chiunque altro avrebbe pronunciato.

«Questa non è casa tua».

Vorrei rispondere che si sbaglia, che lo è, ma ho troppa paura che se apro la bocca tutta la sofferenza che ho dentro possa uscire.

«Se c'è una cosa che ho imparato è che "casa" è più di quattro mura e un tetto. Sono le persone che ti fanno sentire amato e protetto, che ti danno speranza anche quando il tuo mondo sta crollando e che ti aiutano a rialzarti, anche se vorresti solo rimanere a terra».

Sollevo il mento e mi volto verso di lui, incontrando i suoi occhi, stranamente vitrei e assenti. E capisco che i suoi pensieri sono lontani dal presente.

«Casa non è solo il luogo in cui vivi, perché quello a volte può essere la prigione più spaventosa di tutte».

La sua voce, così piatta e fragile, mi fa rabbrividire.

«E tu cosa ne sai?»

«Io...» Klaus punta lo sguardo fuori dalla finestra e sospira. «Niente. Ma è ciò che credo».

Rimaniamo in silenzio per un tempo che a me pare infinito.
Klaus non mi sfiora nemmeno, ma è abbastanza vicino da farmi percepire la sua presenza, come se volesse darmi la certezza di non essere sola.

«La somiglianza è incredibile» commenta all'improvviso con un tono fin troppo apatico, guardando mia madre nella foto.

«Capelli blu a parte, intendi?» ridacchio incerta. «Sì, lo so. Anche papà me lo diceva sempre. Siamo entrambe bellissime, eh?»

«Sì, è vero».

Sbatto le palpebre, stupita. «Non ho sentito. Puoi ripetere?»

«No, sei già abbastanza arrogante» afferma Klaus, strappandomi un piccolissimo sorriso. «Quello è tuo padre?»

Vorrei fare qualche battutina come mio solito, ma mi sento totalmente svuotata e mi limito ad annuire.

Klaus osserva l'immagine per un secondo, aggrottando la fronte con espressione indecifrabile.

Poi sfodera uno dei suoi sorrisetti. «Anche lui porta la maglia al contrario».

«Certo, perché ho imparato dal migliore» replico fiera.

«Giusto».

Un'altra pausa, ma questa volta sono io ad infrangerla per prima.

«Non ho mai conosciuto mia madre» esordisco con fare distaccato, quasi stessi raccontando la storia di un altro. «È morta il giorno del suo matrimonio. Non ho ancora capito come».

Non so bene la ragione per cui lo sto dicendo... forse ne ho solamente bisogno.
E, prima che me accorga, le parole scivolano fuori dalla mia bocca, quasi di loro stessa volontà.

«Era incinta. L'ambulanza non arrivava e sarei morta di sicuro anch'io, se tra gli invitati non ci fosse stata una dottoressa o una studentessa di medicina, non saprei». Faccio spallucce. «In ogni caso, mi ha fatta nascere. Con un mese d'anticipo. Credo che mia madre fosse già morta quando...»

Mi ammutolisco, sapendo che non riuscirei a finire la frase senza scoppiare a piangere.

Com'è possibile che io soffra tanto per qualcuno che non ho mai conosciuto?
Come può mancarmi una madre che non è mai stata con me?

«Mi dispiace» sussurra Klaus.

«Perché? Dubito che sia stata colpa tua».

«Intendevo che so cosa si prova a perdere una madre».

«Alizée non è...?» obietto, incapace di fermarmi.

«È mia madre, biologicamente» spiega Klaus con amarezza. «Non la considero tale, così come lei non mi considera suo figlio. Non basta mettere al mondo qualcuno per questo, ed è tutto ciò che Alizée ha fatto per me».

Dal suo tono, capisco che non intende aggiungere altro ed io non voglio insistere.
Soprattutto, non adesso.

Continuo a stringere la foto tra le dita, incapace di distogliere lo sguardo dai miei genitori. Fino a che vengo colta dalla curiosità e la giro, senza sapere bene cosa speri di trovarci.

Quando vedo che c'è una breve dedica, il mio respiro accelera e sento qualcosa agitarsi nel mio petto.
Ma, quando leggo, rimango delusa dal fatto che non sono parole scritte da mia madre, e nemmeno da mio padre.

"Al ragazzo che non credeva nell'amore e alla ragazza che gli ha mostrato quanto si sbagliasse.

Ti auguro di essere felice con lei, Max, te lo meriti.
Mi dispiace solo che non sarò con voi, ma ho commesso un errore e questo è il prezzo da pagare.

Grazie per non avermi abbandonato, ma è tempo che tu vada avanti e che pensi alla tua nuova meravigliosa famiglia... scusa se non potrò farne parte come avresti voluto".

M.W.

Non so chi sia M.W., tuttavia non posso non chiedermi se sappia che quella "meravigliosa famiglia" non ha mai avuto occasione di esistere.

D'un tratto, Klaus si alza e mi invita a fare lo stesso con un cenno.

«Andiamo. Non vorrai perderti la serata pizza, no?»

Faccio una risatina vacua e mi sollevo, mettendo la foto in tasca.

Esito un istante poi bisbiglio a fil di voce: «Klaus».

Lui si ferma sulla porta e si gira con aria interdetta, forse perché l'ho chiamato per nome per la prima volta.

"Grazie per essere rimasto" gli vorrei dire, se solo fossi una persona sincera.

Ma non lo sono.

«Se racconti a qualcuno di tutto questo, ti uccido».

Klaus mi fa un mezzo sorriso, rassicurante e malizioso allo stesso tempo, le fossette agli angoli della bocca.

«Come vuoi, ficcanaso».

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