12. BAKER STREET

Chiusa nella solitudine della mia camera, faccio scorrere un dito sulla superficie ruvida dello scrigno, posato sul fondo del letto.

Lo osservo con attenzione, notando sempre gli stessi particolari: le scheggiature del legno, gli angoli smussati, la ruggine della serratura, la chiave sbeccata...

Aprilo quando sarai pronta, principessa” aveva detto mio padre, consegnandomelo, il giorno del mio settimo compleanno.

Ma il momento giusto non era arrivato... e dubito che succederà mai.
Non senza papà che mi stringe la mano, sussurrandomi che lei sarà ancora con me, anche dopo averlo aperto.

Non posso farlo. Non oggi, e non da sola.
Non posso dire addio alla mamma ancora.

Poso delicatamente il mento sullo scrigno e chiudo gli occhi, perdendomi nel lieve ticchettio che viene dal suo interno.
Lento, regolare, rassicurante, come il battito di un cuore. Il suo cuore. Quello che si è fermato per dare al mio la forza di cominciare a battere.

«Ehi, Keeley, ci sei?»

Alzo la testa di scatto, rendendomi conto che qualcuno sta bussando alla porta con esitazione.
Riconosco subito la voce.

Mi schiarisco la gola, soffocando il dolore che mi grava nel petto come un macigno.

«Entra pure». Poi, appena sento la maniglia abbassarsi, aggiungo urlando: «Sono nuda. Non è un problema, vero?»

Simon richiude la porta così rapidamente da far tremare le pareti, biascicando una debole protesta.

Con un ghigno soddisfatto, mi alzo e nascondo di nuovo lo scrigno dietro uno dei cassetti dell'armadio. Poi vado ad aprire, trovandomi davanti un Simon piuttosto torvo.

«Scommetto che non eri nuda» borbotta, guardando i miei vestiti che sono gli stessi di stamattina.

«Non è colpa mia se sei prevedibile, pomodorino» ammicco, forzando un sorriso per scacciare la tristezza che mi attanaglia.

Simon mi fissa per un secondo da dietro le lenti, storte come al solito.
«Stai bene? Mi sembri...»

Lascia la frase in sospeso, forse perché definirmi "strana" sarebbe piuttosto ironico.
Dopotutto, lo sono sempre.

«Sono stata svegliata quasi all'alba di domenica» marco bene la parola. «Non posso stare bene».

«Giusto, scusa» ridacchia lui, poco convinto.

«Ti inviterei ad entrare in camera, ma ho paura di farti svenire per l'emozione».

«Divertente» commenta Simon sarcastico. «In realtà, volevo proporti... ehm...»

Noto che sta stropicciando un lembo del maglione per il nervosismo e decido di soccorrerlo.
Beh, più o meno.

«Prima di chiedermi di venire a letto con te, almeno offrimi da bere».

Ovviamente, Simon sgrana gli occhi e comincia a balbettare frasi come "io non intendevo... non lo farei..."

«Calmati, stavo scherzando».

«Smetterai mai di prendermi in giro?» chiede imbronciato.

«Non finché è così divertente». Faccio spallucce. «Allora, cosa volevi?»

«Ah, giusto». Simon prende un lungo respiro, come per farsi coraggio. «Ti va di farci un giro insieme? Potrei mostrarti la città, così impari ad orientarti meglio e magari...»

«Sai dove si trova Baker Street?» lo interrompo.

Fin da quando ho saputo che la donna che mi aveva adottata abitava a Sunset Hills, la città in cui sono nata, due pensieri hanno cominciato a tormentarmi.

Il primo è stato: “che sfiga”.

Il secondo, invece, quello che non mi ha ancora abbandonata... è andare a Baker Street.

«Beh sì, ma è in una brutta zona. Meglio evitarla». Simon aggrotta la fronte, interdetto. «Tu come la conosci?»

Ignoro la domanda. «Va bene, allora».

«Cosa?» obietta, lasciandosi sfuggire un'ovazione di stupore.

«Va bene, andiamo. Fammi vedere le bellezze di Sunset Hills». 

Simon si aggiusta gli occhiali mentre un'espressione a metà tra incredula e felice affiora sul suo volto.
«Oh, sì. Wow. Bene. Perfetto».

«Ma ho una condizione» lo avverto. «Mi devi mostrare Baker Street».

«Ma perché...»

«Prendere o lasciare» impongo categorica.

Simon spalanca le braccia in segno di resa. «Okay, come vuoi».

«E un'altra cosa» aggiungo, strappandogli un sospiro esasperato.
«Niente macchina, oppure fai guidare me. Una delle due».

Un ampio sorriso spavaldo si forma sulle sue labbra. «Tranquilla, non avevo nessuna intenzione di prendere l'auto».

***

Una moto.

Una magnifica moto di un nero lucido, tempestata di piccoli diamanti che brillano alla luce dei raggi che filtrano tra i rami nodosi della quercia.
Non è difficile capire che deve valere parecchio, perfino per chi come me non sa nulla in materia.

«Forse, me la potrei permettere anch'io, se vendessi un rene... anzi, un polmone».

Simon ridacchia, continuando a fissare la moto come se fosse la sua amante.
«Me l'hanno regalata i miei fratelli con la complicità di mio padre» spiega soddisfatto. «Ma so che l'idea è stata di Klaus».

A quel nome, una scarica elettrica mi attraversa il corpo. Il ricordo di ciò che è accaduto stamattina si riaffaccia alla mia mente.

Il diario segreto, la Walker Agency e quei nomi cancellati...
La sua reazione quando ho cercato di toccargli la cicatrice...
È tutto collegato?

«Voglio guidarla!»

«Assolutamente no». Simon monta sulla moto e la sfiora quasi con tenerezza. «Non la faccio guidare a nessuno».

Roteo gli occhi. «Capisco. Hai perso la verginità con lei?»

«Piantala» sbuffa Simon imbarazzato. «Già Kal mi rompe sempre e mi ruba le chiavi perché dice che gli piacciono le mie "scenate di gelosia", come le chiama lui. L'ha fatto anche l'altro giorno».

«Ah, ecco perché urlavi come un matto quando mi hai fatta cadere» esclamo. «A proposito, spero che tu sia più bravo a guidare che a correre. Sai com'è, vivere mi piace molto».

Simon accende il motore e il suo ruggito mi si ripercuote fin dentro le ossa.
Si infila il casco e ne passa un altro a me. «C'è un solo modo per scoprirlo, no?»

Aggancio il casco sotto il mento e salto in sella dietro di lui, cingendolo con le braccia. Posso sentire i suoi addominali ben definiti sotto il maglione, ma anche il brivido che gli percorre la schiena al mio tocco.

E poi partiamo, schizzando rapidi lungo il vialetto del giardino, oltre la fontana e il cancello spalancato.
Il vento pungente mi frusta la pelle, entrando sotto i vestiti, e getta all'indietro i miei lunghi capelli blu.
L'aria gelida mi fa bruciare i polmoni ad ogni respiro, rilasciando nuvolette di vapore dalle narici.

Ma tutto ciò è spazzato via dall'euforica sensazione di libertà che mi assale, facendomi dimenticare quei pensieri, quei ricordi, quelle domande che mi assillano senza tregua.

Il mio cuore comincia a battere così forte che potrebbe esplodere, pompando tanta adrenalina nelle mie vene che non riesco a trattenermi dal lanciare un urletto di gioia.

«Mi sembra di capire che ti piaccia» grida Simon per sovrastare gli ululati del vento.

«È una gran figata!» strepito, eccitata come un bambino a Natale. «Accelera, carotino!»

«Meglio non esagerare, altrimenti non vedrai niente della città».

Gli stringo più forte la pancia, percependo i suoi muscoli contrarsi, e mi guardo attorno.

Stiamo frecciando come ombre nere nel traffico rumoroso che affolla le strade nel tardo pomeriggio.
La nostra prima tappa è il parco, una grande distesa di erba falciata e ghiaia, perfetto per i picnic, con canestri da basket, altalene, panchine e un laghetto pieno di anatre e cigni.

Proseguiamo fino alla piazza circolare, assediata da imponenti edifici slanciati verso il cielo e dominata da una cattedrale gotica con guglie, torri e vetrate istoriate.
E poi passiamo per il mercatino allestito lungo una sponda del fiume, tra bancarelle ben assortite che vendono di tutto, dai vestiti e i libri fino a talismani portafortuna e gadget di varie saghe.
C'è anche un banco in cui sono esposte le bacchette di Harry Potter e Simon, accorgendosi del mio entusiasmo, me ne compra una.

«Potremmo prendere una cioccolata calda, ti va?» mi propone Simon poco dopo, fermandosi al semaforo.

Ignorandolo, continuo a sventolare la bacchetta contro i passanti dalla moto.

«Crucio!» grido ad una donna dai tacchi altissimi, che mi fa una smorfia come se fossi un criceto parlante.

«Keeley, potresti...»

«Accio pupazzo!» urlo, indicando con la bacchetta una bambina con un orsacchiotto in mano.

Lei strattona la manica dell'uomo che la tiene per mano e piagnucola: «Papà, quella ragazza sta usando la magia per rubarmi Pongo!»

«Smettila, tesoro. La magia non esiste».

«Come osi, babbano?!» esclamo indignata, puntandogli contro la bacchetta. «AVADA KEDAVRA!»

L'uomo scuote la testa perplesso e Simon, paonazzo in volto, si affretta a mormorare: «Ci scusi», per poi ripartire.

«Sbaglio o hai detto "cioccolata", prima?» chiedo interessata.

Annuisce. «Conosco un posto, non distante da qui, che...»

«Zitto e guida. Voglio la cioccolata».

«Gia, lo immaginavo» ridacchia Simon.

Una decina di minuti dopo, arriviamo ad un grazioso bistrot in stile retrò, con rivestimenti in legno, tavoli rustici, archi di pietra e divani di pelle.
La luce soffusa delle lanterne cinesi appese al soffitto crea un'atmosfera intima e raccolta, anche grazie alla musica dolce che proviene da un vecchio jukebox nell'angolo.
L'insegna in grandi lettere d'ottone recita: "Lucky House".

«Casa fortunata?» leggo, varcando poi la porta saloon simile a quelle dei film western.

Il tepore del locale mi avvolge, sciogliendo la morsa di gelo che mi intorpidisce la schiena e le mani.
L'aroma fragrante di caffè e il profumo di cioccolata e noci mi fanno venire l'acquolina in bocca.

All'interno ci sono almeno una trentina di persone, tra famiglie con bambini piccoli e gruppi di ragazzi che parlano, mangiano e si sbaciucchiano in una cacofonia assordante di suoni, grida e voci.

«Buon pomeriggio, stranieri!» urlo entusiasta.

Al nostro passaggio, molti si voltano per lanciarmi occhiate stranite a causa della felpa al contrario che si intravede sotto il giubbotto aperto. Alcuni sghignazzano e mi indicano, ed io rivolgo loro dei sorrisi compiaciuti e degli occhiolini.

Simon mi affianca, togliendosi i guanti. «Si dice che se qualcuno viene qui spesso avrà grande fortuna in amore. Più giorni vieni, più fortuna avrai».

«Lo eviterò come la peste, allora. Non voglio rischiare di incontrare la mia anima gemella».

«Tranquilla, io ci vengo da otto anni ormai e sono ancora single».

Ci sediamo ad un tavolino davanti alla finestra, dal lato opposto rispetto al bancone curvo su cui sono esposte molte varietà di dolci, come brioche, crêpe e torte decorate. Dietro alle vetrine dei congelatori, intravedo anche gelati e ghiaccioli.

Non lontano da noi, si trova appesa una bacheca su cui sono affisse, con puntine a forma di cuore, decine di foto di coppie innamorate che si abbracciano o si baciano, sorridendo come ebeti.

«Sono le persone che si sono conosciute qui e che poi si sono messe insieme». Simon si stringe nelle spalle. «La chiamano "Bacheca di Cupido". Serve a dimostrare che il Lucky House porta davvero fortuna».

«Non sembra proprio un posto per ricconi» commento, ruotando la testa da una parte all'altra del locale.

«Non lo è, infatti. Essere ricchi non significa per forza essere snob» replica Simon sulla difensiva. «So che anche mia madre ci veniva, da giovane».

Sbatto le palpebre, incredula. «Sei stato adottato anche tu, allora. Perché non puoi riferirti a Crudelia! Quella donna ha più diamanti addosso che sangue nel corpo».

«Non ti piace molto mia madre, vero?»

Mi stringo nelle spalle. «Non prendertela. A me non piace nessuno e basta».

«Non ti credo» afferma Simon, pulendosi gli occhiali appannati per lo sbalzo di temperatura.

«Invece sì. È questione di equilibrio. Neanch'io piaccio agli altri» ribatto con noncuranza.

«Questo so per certo che non è vero».

«E perché?»

Simon mi dedica uno sguardo colmo di dolcezza. «Perché a me piaci».

Una ragazza dai corti capelli color paglia sporca e grandi orecchini rotondi, con un grembiule bianco legato alla vita, si avvicina al nostro tavolo, interrompendoci prima che io possa rispondere.

«Ciao, Simon!» lo saluta allegra, posandogli una mano sul gomito.

Wow, quanta confidenza!

«Ciao Kara» replica con un tono tutt'altro che entusiasta.

Mi schiarisco la gola il più forte possibile. «Grazie per avermi considerata, Miss Paglia».

«Ci sono anche i tuoi fratelli?» chiede la ragazza speranzosa, continuando a non accorgersi di me.

Simon le scansa delicatamente il braccio, guardandola con velata amarezza. «No, Klaus non c'è».

«Io ci sarei, invece» esclamo indispettita.

Ignorandomi di nuovo, Kara emette un sospiro melodrammatico mentre sul suo volto si dipinge un'espressione affranta.

«Ah, peccato» borbotta delusa. «Come sta? Deve essere un brutto periodo per lui, poverino, con tutto quello che sta passando...»

Aggrotto la fronte, senza capire... quello che sta passando?

Ricordo che anche Alizée, a cena, aveva accennato a qualcosa che era successo per la quale stava per cacciare via Klaus... è a questo che si riferisce?

«Già, ehm, sta bene, grazie» taglia corto Simon, piuttosto a disagio. 

Non posso fare a meno di notare che mi sta sbirciando con la coda dell'occhio con fare quasi nervoso.

Inizio ad agitare in aria la bacchetta per spostare l'attenzione su di me.
«Ehi, sono diventata improvvisamente invisibile e nessuno mi ha informata?»

Kara mi osserva con i suoi occhi acquosi, storcendo il naso. «E la tua amica chi sarebbe, Simon?»

«L'amica ha le orecchie per sentire e la bocca per parlare» specifico ironica. «Comunque, sono Keeley Storm. E il piacere è tutto tuo».

«Ci porteresti due tazze di cioccolata calda, per favore?» si affretta a dire Simon, fiutando il pericolo.

«Certo». La ragazza mi scocca un'occhiata torva, prima di allontanarsi.

«È la fidanzata di Klaus?» chiedo subito.

Ovviamente non mi interessa, è semplice curiosità... anche se quell'ipotesi mi provoca una stretta alla bocca dello stomaco, accompagnata da una strana sensazione di...

Gelosia?” suggerisce una vocina dai meandri della mia mente.

No!
Non è gelosia, è più... repulsione, ecco.

Simon esita un secondo, come se ci stesse pensando, poi scuote la testa fissandomi con aria rassegnata.

«No, però le piacerebbe».

Devo lottare contro me stessa per fingere che questa notizia non mi faccia nessun effetto.

«Qualche mese fa, si è addirittura messa con Liam solo per tentare di avvicinarsi a Klaus».

Annuisco. «Già avevo capito che fosse una stronza. E, sentiamo, cosa ha combinato quel poverino» pronuncio la parola con sarcasmo «di Klaus?»

Simon si agita inquieto sulla sedia, chiaramente in difficoltà.

«Beh, lui... diciamo che ha avuto dei... dei problemi». Poi aggiunge in un soffio, forse sperando che non lo senta: «Con la legge».

«Wow». Faccio un fischio ammirato. «Per cosa? Rissa? Atti osceni in luoghi pubblici? Scommetto che ha fatto una lap dance per strada!»

«Cosa? No...» obietta lui confuso. «In verità... non posso dirtelo. Mia madre non vuole che ne parliamo. Soprattutto non in giro».

A giudicare da come Simon si guarda intorno, quasi per accertarsi che nessuno stia origliando, deduco che sia qualcosa di molto serio.

Forse, è questo lo scandalo a cui ha accennato Alan, ieri sera. Ho anche provato a cercare su internet, ma non ho trovato nessuna informazione a riguardo.
In compenso, ho scoperto che ci sono moltissimi articoli di giornale dedicati alla famiglia Hallander, ma riguardano quasi tutti l'attività della loro azienda o eventi a cui hanno partecipato.
Niente di importante, insomma.

«Ma non devi preoccuparti» mi rassicura Simon. «È stato solo un errore. Klaus non c'entrava nulla con quella storia».

Quando Kara ritorna con le nostre tazze fumanti di cioccolata, lascio cadere l'argomento.

Finisco la mia in meno di tre minuti, ritrovandomi con dei baffetti marroni sotto il naso che fanno ridere a crepapelle Simon.
Allora mi pulisco con un tovagliolo e, per vendetta, glielo lancio in pieno petto, ma questo sembra divertirlo ancora di più.

«Vado un attimo in bagno e pago il conto. Offro io, ovviamente» precisa Simon, alzandosi.

«Non che tu abbia molta scelta. Non ho un soldo in tasca al momento. Al massimo potrei pagare in natura» faccio notare.

Un lieve rossore tinge le guance di Simon. «Non... non voglio sapere cosa intendi con "natura"».

«Bravo, sorridi e annuisci» commento con orgoglio. «È lontana Baker Street da qui?»

«No, basta prendere la Little Avenue ed è in fondo alla strada. Mezz'ora al massimo. Non capisco però perché ne sei tanto ossessionata».

Scrollo le spalle. «Cosa vuoi farci? Sono un meraviglioso enigma».

Simon abbozza un timido sorriso e si allontana verso il bagno.
Aspetto che sia scomparso dietro la porta e scatto subito in piedi.

Individuo un uomo seduto al tavolo vicino che sta scrivendo sulla sua agenda e mi protendo verso di lui.

«Signore, ho bisogno di un prestito» dico, sfilandogli la penna dalle mani.

Prendo il tovagliolo di Simon e ci scarabocchio sopra: “Scusa, non puoi venire con me. Devo farlo da sola. Non aspettarmi, ci rivediamo alla villa”.

Sto per restituire la penna, ma prima sento il bisogno di fargli sapere una cosa.

Grazie. È stato il pomeriggio meno brutto dei miei ultimi quattro mesi”.

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