Matteo, amico mio
Mentre Dario cadde per terra dolorante e con il viso ricoperto di sangue, un altro dei miei compagni s'avventò su di me, tutti gli altri urlarono spaventati e furiosi.
Afferrai colui che mi venne incontro e girandomi con forza lo spinsi oltre le scale, iniziò a rotolare sui gradini picchiando la testa e le spalle, un ragazzo di un'altra classe che le stava risalendo si fermò sul pianerottolo e istintivamente s'avvicinò chiedendogli se fosse tutto apposto.
Avrei potuto ucciderlo con quel gesto ma non mi importò più niente. La mia furia divenne incontenibile, volevo far pagare a tutti loro ogni singolo insulto ed umiliazione e in quel gruppetto notai la ragazza che mi bagnò lo zaino col cambio per la palestra.
Scattai in avanti e mentre tutti mi afferrarono io spingevo verso di lei. Avevo le lacrime agli occhi, le sentivo scivolare sul mio viso.
Mi fermai soltanto dopo l'arrivo di un professore attratto da tutto il casino che si era andato a creare.
Ci guardò atterrito mentre Dario si lamentava dolorante, il suo sangue gocciolava sulle piastrelle ed essendo accasciato in posizione fetale sembrava quasi morto.
"cosa diamine è successo qui?!" urlò avvicinandosi al ragazzo ferito, tutti i dissero il mio nome.
"è stata lei, lo ha picchiato lei!".
Io che intanto mi ero calmata tornai ad agitarmi come un'animale nonostante tre dei miei compagni mi tenessero ferma.
"avete iniziato voi, ve le siete cercate!".
Arrivarono altri due professori e nel giro di pochi minuti quasi tutta la scuola stava assistendo a quella scena.
Io fui portata nell'ufficio del preside da altri due professori, questi mi interrogavano atterriti su quanto fosse accaduto. Sembrava una scena che si ripeteva, facevo male ad un mio compagno e venivo portata via. Sentendomi sempre più sola e fredda. Iniziai a credere di non essere adatta a vivere in quel mondo, il mio risentimento divenne sempre più grande e lo provavo per chiunque.
Soprattutto quando decisero di espellermi: avevo rotto il naso ad un mio compagno e fratturato la spalla dell'altro.
Fu una giornata atroce, restai tutto il pomeriggio nell'ufficio del preside aspettando i miei genitori. Speravo tanto che almeno loro mi avrebbero capita, mi avrebbero fatta sentire meno sola. Invece erano furiosi e non mi rivolsero nemmeno lo sguardo.
Mi domandavo perché non ci fosse qualcuno che mi volesse bene, cosa diamine avevo fatto per meritare tutto ciò?
"ho sempre cercato di darti il meglio, educarti nel migliore dei modi! Sperando tu diventassi una signorina a modo!" Quando arrivammo a casa mia madre mi rimproverò per diverse ore. Ripeteva sempre le stesse cose cambiando il modo in cui le diceva ma ripetendosi di continuo.
"invece ti metti a fare le risse! Ma sei grulla?"
Presi fiato, avevo la testa bassa e non rispondevo, tanto se ci provavo mi zittiva.
"dimmi icché devo fare, vuoi finire chiusa in collegio?"
Alzai la mano come fossi ancora a scuola.
"posso parlare?" domandai con un filo di voce ma lei mi prese la mano e l'abbassò di forza.
"no fa silenzio che l'è meglio".
Respirai profondamente col naso, furiosa più che mai. Volevo soltanto alzami dalla sedia e chiudermi in camera.
"babbo, per favore, dille di farmi parlare!" mi voltai a destra cercando lo sguardo di mio padre sulla sinistra. Lui fece cenno di no con la testa.
"devi vedertela con tua mamma". Rivolgermi a lui non aveva fatto altro che farmi avere un'altra porta chiusa in faccia.
Mi alzai di scatto facendo cadere la sedia.
"sono mesi che quei bastardi mi insultano e mi offendono, ti ricordi quando hanno attivato gli irrigatori sul prato mentre camminavo? In realtà le mie compagne mi avevano messo lo zaino sotto la doccia. Oggi uno ha finto di dichiararsi, mi hanno circondata, mi lanciavano le cose contro e hanno provato a picchiarmi. Io ho risposto, non ho picchiato perché mi piace farlo! Ho soltanto risposto e se tu avessi avuto la premura di chiedermelo magari ora lo sapresti! Ma no! Certo che no! Sono sbagliata io!"
Dopo quello sfogo di rabbia me ne andai in camera nonostante mia madre mi intimava di tornare indietro. Forse ricordo male ma penso di averla mandata anche a fanculo.
In camera però ebbi l'ennesima batosta. Ogni singolo riferimento al mondo militare era sparito dalla mia camera: i poster, modellini, libri e quant'altro.
Quella notte piansi fino lo sfinimento in quella camera ormai quasi tutta vuota. Anche il sacco da boxe fu portato via.
Iniziai a colpire il muro, ogni pugno che davo mi faceva tremare la mano per il dolore ma continuavo imperterrita. Ringhiavo furente ogni volta che vibravo un colpo che via via diventavano sempre più forti. Mia madre entrò in camera, preoccupata dai continui tonfi.
"Elisa basta!" Esclamò rattristata mentre si avvicinò per abbracciarmi.
Quell'abbraccio era ciò di cui avevo bisogno ma volevo comunque mostrarmi furente.
"Vattene via!" esclamai, stavo per dare un altro pugno ma lei fermò il mio polso.
"Guarda che ti fai male così" mi disse premurosa.
"allora dammi il mio sacco, dammi tutte le mie cose! Io non sono violenta, hanno iniziato loro hai capito?! Hanno iniziato loro se la sono cercata!"
L'anno scolastico non era nemmeno a metà, quindi non fu difficile trovare un altro istituto che mi accettò.
Essere la nuova arrivata in una classe era veramente fonte di grande nervosismo, soprattutto con precedenti come i miei.
Il primo giorno mi fecero scrivere il mio nome sulla lavagna e parlare di me, dissi che non sapevo cosa dire. Non era vero, sapevo benissimo parlare di me ma mi finsi timida.
Avevo una terza possibilità di farmi delle amicizie o quanto meno di non essere presa di mira da tutti quanti e vivere in pace, preferivo quindi non mettermi in vista.
Nel corso delle prime settimane non feci nessuna amicizia; venivo ignorata e io non cercavo attenzioni. Mi andava bene così, durante le ricreazioni come sempre leggevo i romanzi con tematiche di guerra. Iniziai per noia disegnare, notando però un certo talento innato. Pensavo ad un disegno o un'immagine nella mia testa e riuscivo a riprodurlo più o meno fedelmente.
In memoria di quando ci giocavo insieme, raffiguravo Joky vestito da militare e alle prese con situazioni stupide nelle quali, puntualmente, si faceva male da solo.
Ad esempio in una vignetta metteva caricava un colpo di mortaio e questo invece di partire esplose lasciandolo a braccia in avanti completamente annerito.
Oltretutto Joky rompeva la quarta barriera, sapeva di essere un personaggio di un fumetto e quindi parlava con gli ipotetici lettori.
Un giorno stavo disegnando una vignetta nella quale, imbracciando il fucile al contrario si sparava in faccia. Stavo finendo i contorni del calcio quando sentii qualcuno alle mie spalle.
Il mio primo pensiero fu che vedendolo, quella persona avrebbe iniziato a prendermi in giro. Invece mi sorpresi di ciò che disse.
"ma sei davvero brava a disegnare!" mi girai guardandolo, un ragazzino dai capelli castani tenuti in su col gel e dai occhi verdi e grandi. Aveva le orecchie a sventola e le sue labbra erano curve in un ampio sorriso.
Quel giorno ricordo indossasse una polo rossa e dei jeans bianchi, era effettivamente vestito malissimo per questo mi restò impresso.
"Grazie" risposi decisamente sorpresa mentre lui si chinò in avanti, poggiando le mani sul mio banco. Io però chiusi nervosamente il quaderno e lui ci restò male.
"Dai, perché non me lo fai vedere?" esclamò dispiaciuto, così guardandolo aprii lentamente il quaderno.
"ma usa il fucile al contrario? Questo castoro è proprio tonto!" il commento mi fece ridere parecchio.
Così, per gioco creai un baloon dove joky gli diceva "no, tu sei tonto".
Ridemmo al unisono e da quella vignetta gli feci vedere che il quaderno era pieno delle avventure di Joky. Restò con me, curioso di leggerle tutte fin quando la campanella sancì la fine della ricreazione.
Quella fu la prima volta che interagii con qualcuno in modo pacifico, guardando il ragazzino sul suo banco pensai si essere riuscita finalmente a trovare un amico e questo pensiero disegnò un ampio sorriso sulle mie rosee labbra.
Mi convinsi che fu proprio grazie a Joky. Anche se era solo un personaggio di fantasia, mi aveva aiutata a trovare qualcuno da voler bene.
Il bambino a cui avevo fatto leggere le mi vignette si chiamava Matteo. Anche lui come me era stato tagliato fuori dal resto della classe, quindi in poco diventammo amici.
Gli piacevano tanto i cartoni animati giapponesi così ogni tanto me ne parlava chiedendomi di disegnare per lui qualche personaggio.
Essendo la prima persona che potetti considerare amica non faci obiezioni, riempii di disegni quel bambino e man mano diventavo sempre più brava. Cercando quindi di rendere i miei disegni sempre più complessi.
Un'altra cosa bella era che, al contrario dei miei genitori, trovava "fico" una ragazza a cui interessava il mondo militare.
Alle volte gli raccontavo di questa mia passione, descrivendo le armi o i mezzi che venivano adoperati. Cercavo di raccontargli cosa i soldati del passato avessero fatto: l'impegno degli alpini contro gli austriaci o quello dei soldati americani contro i tedeschi. Gli narravo fatti come il D-day o la battaglia nell'alto piano di asiago.
Interessi "strani" per una ragazzina e pure, il coraggio di quelle persone mi affascinava sempre di più, per me erano loro veri eroi e non i personaggi di cui Matteo mi parlava.
Un giorno come tanti, si avvicinò tutto contento e mi raccontò che suo padre era tornato a casa da lavoro con un fucile a pallini in regalo. mi domandò quindi se un giorno avessi voluto andare a casa sua per giocare con lui e il suo nuovo giocattolo. Istintivamente gli dissi di si.
Non credevo ci sarebbero stati problemi per mia madre se dopo scuola le avessi chiesto di restare fuori, del resto non era mai successo prima. Il punto era dirle che sarei dovuta andare a casa di un amico. Lo trovavo imbarazzante.
Evitai di chiedere il permesso quando mio padre fu presente, mia madre fu tanto felice nel sapere che finalmente ero riuscita a fare amicizia. Con un sorriso mi disse che se le avessi dato il numero della madre di Matteo e l'indirizzo della sua casa, allora mi avrebbe permesso di andare.
Così un giorno, finita la scuola, invece di tornare a casa andai con Matteo.
Sua mamma fu felicissima di vedermi, era tanto gentile e ci preparò una merenda con pane e Nutella con del succo di frutta.
Mi fece anche i complimenti per i miei capelli e le lentiggini che avevo sul tutto il viso. Probabilmente quella volta diventai rossa perché a parte mia madre, quella donna era la prima persona che mi fece un complimento simile.
Dopo merenda Matteo mi disse di aspettare lì e corse verso camera sua, sentii i suoi passi allontanarsi e tornare in fretta. imbracciava un grosso fucile d'assalto M4 nero con impugnatura, calcio e sotto canna color sabbia.
Sua madre fece cenno di no con la testa.
"Matteo, quella è roba da m..."
Dovette fermarsi a metà quando mi vide imbracciare il fucile mentre, girandolo tra le mani lo ammiravo estasiata.
Non avrei mai potuto dimenticarmi di quel giorno, perché anche se giocattolo, fu la prima volta in vita mia che imbracciai un fucile.
Tenerlo tra le mani come facevano i veri soldati mi diede un senso di profonda soddifazione, anche togliere e montare il caricatore, con quel tipico click era una sensazione bellissima per me.
Uscimmo nel cortile dove lì a turno colpivamo... o almeno provavamo a colpire, delle bottiglie.
Il suo giardino aveva una recinzione di metallo che ne delineava il confine, oltre questo alcune persone che passavano di li ci guardavano incuriosite dal suono che emetteva il fucile quando sparava.
A me veniva voglia di sparare proprio contro le persone per fare degli scherzi e lo proposi anche a Matteo che tutto spaventato si rifiutò assolutamente.
"pollo! Pollo pollo!" dicevo simulando il battito delle ali con le mani sotto le ascelle.
Non cambiò idea nemmeno sotto le mie provocazioni ma decise di lasciarmi il fucile, lo avrei fatto io senza timore.
Misi la canna tra le sbarre del recinto e prendendo la mira puntai ad un signore che stava per entrare in una macchina rossa, questo indossava una felpe nera e il suo passo era piuttosto lento.
Tenetti un occhio chiuso per mirare meglio, non volevo fare una figuraccia e sbagliare il colpo ma quando sparai sentii il suono del pallino colpire la sua felpa. Il signore si lamentò toccandosi il punto in cui lo colpii.
Essendo distante lasciai cadere il fucile per terra, nascondendolo così ai suoi occhi dietro la base di cemento del recinto.
Lui si guardò attorno adocchiando due o tre volte anche noi che lo fissavamo a nostra volta, Matteo era terrorizzato mentre io ridacchiavo e non contenta salutai il signore.
L'uomo titubante e confuso mi salutò e poi entrò in auto.
Scoppiai a ridere piegandomi su me stessa mentre il mio amico mi fissò.
"pensavo ci avesse scoperto, che paura!".
Commentò e io presi del tempo per calmarmi, ma più pensavo alla sua faccia, più mi veniva da ridere.
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