La vita al RAV
“Uniamoci, amiamoci; L’unione e l’amore rivelano ai popoli le vie del signore...” cantavo ad alta voce, colpita come ogni mattina da uno spirito patriottico che infondeva un fuoco grande e caldo nel mio petto.
Prima di arruolarmi sapevo solo una piccola parte di quello che era l’inno nazionale, la cosa mi sembrava abbastanza buffa.
Restando a prestare sevizio sentivo testimonianze dei superiori, le cose che i soldati italiani facevano all’estero erano davvero segno che il nostro paese veniva davvero sottovalutato, sia fuori che dentro. Mi dispiaceva così tanto che L’Italia fosse tanto derisa dagli italiani stesse. Un paese bellissimo, pieno di storia e cultura, che non aveva niente da invidiare agli altri. Forse era proprio l’opposto. Un bellissimo paese che via via si sgretolava per problemi come la corruzione, porcherie come la mafia che rendeva impossibile valorizzare territori altrimenti stupendi. E ancora un immigrazione sregolata e senza freni, non pensavo fosse sbagliato accogliere gente straniera, insomma non mi ritenevo fascista o simili ma ritenevo e ritengo tutt’ora che era necessario un controllo più serrato, come facevano negli stati uniti.
Mentre cantavo, come sempre i miei occhi fissavano il tricolore sollevarsi verso un gelido e pallido cielo di fine inverno.
Ore dopo mi trovavo a camminare per la città, in fila da due come fosse una ronda di perlustrazione, dovevamo semplicemente camminare e per diversi chilometri.
Dentro la divisa non faceva nemmeno molto freddo e in dotazione avevano una sciarpa, ovviamente verde militare, che copriva la gola.
Per imparare a metterla nel modo giusto feci scendere qualche santo ma alla fine, come tutto il resto diventò una cosa automatica.
Come una macchina ad ingranaggi che inizialmente ha bisogno di attenzioni ma dopo un po continua da sola e in automatico, gli ingranaggi girano e tutto fila per il verso giusto.
“mi raccomando, non state mai sovrappensiero! Guardatevi attorno, studiate l’ambiente e provate ad ipotizzare dove potreste essere attaccati! Qui non succede niente ma se un giorno qualcuno di voi andrò in Afghanistan o in Iraq e si distrae… muore!”.
Le parole del sergente Arrigoni restando al nostro fianco.
“De Tommasi, ci sei?!” urlò ancora.
“si sergente” urlò lui in una risposta immediata.
“Barilli, ci sei?!” domandò ancora e l’altro rispose.
“Mazzoli ci sei?!” quando mi sentii tirata in causa anche io risposi e lui sembro fermarsi con quello strano appello.
Di tanto in tanto mentre camminavano poneva qualche domanda teorica, sceglieva a caso e se qualcuno rispondeva in modo errato la punizione consisteva in un’altra domanda finché non avrebbe dato una risposti giusta, ad ogni sbagliata equivalevano dieci flessioni e dieci giri di corsa attorno alla base.
Quando toccò a me la domanda fu abbastanza facile ed evitai la punizione con un tanto di “brava” finale.
Quando tornammo alla base e piedi pulsavano dentro gli stivali, alcuni andarono in infermeria per delle vesciche, capitò anche a me delle volte e quando succedeva, quanto meno ci era permesso di indossare scarpe da ginnastica morbide che ovviamente sfiguravano con tutta la divisa.
Mi sentii decisamente in imbarazzo la prima volta che accadde anche a me, completamente vestita in mimetico e con delle scarpe bianche tanto appariscenti.
Seduta al tavolo mangiai in compagnia di alcuni miei compagni; un’altra ragazza come me e due ragazzi, uno di loro era quello che si fece sgridare per il modo in cui entrò nella cascina.
“oggi non finiva più” esalò tra un boccone e l’altro, mentre masticava la ragazza lo indicò con la forchetta, probabilmente gli stava dando ragione.
Io avevo così tanta fame che non perdevo tempo in chiacchiere ma comunque li ascoltavo.
“un po mi manca Milano” aggiunse il ragazzo e lei ridacchiò.
“ ti manca stare tra la nebbia quindi?” lo incalzò la ragazza. Ella aveva un fortissimo accento Napoletano, impossibile da confondere. lui la prese sul ridere ma poi rispose alla battutina.
“beh, a te non mancano i babbà? Terronaccia?” non voleva assolutamente essere un insulto.
, anzi entrambi ridacchiarono e io con loro sotto i baffi.
Sperando di non essere vista.
“ uè! Che tieni da ridere, torna a radio 105 mazzò” esclamò la ragazza campana, io stavo bevendo e quasi soffocai con l’acqua.
In quella stazione radio c’era un famoso conduttore che aveva il mio stesso cognome, ogni tanto lo ascoltavo visto che il suo programma era pieno di ignoranza e parolacce gratuite.
“aiuto… se la prima che mi dice una cosa simile” ammisi in un misto tra risata e soffocamento.
L’altro ragazzo a quel punto mi indicò scioccando poi le dita, il quarto invece sembravano non avesse interesse nel partecipare alla conversazione.
“sei toscana?! Che culo sei vicina a casa.” domandò in materia quasi retorica visto che il mio accento fiorentino era decisamente marcato. “e vedrai… non si sente?” risposi guardandolo mentre la mia testa era lievemente abbassata poi lui, divertito dalla situazione aggiunse.
“no ti prego di la cosa della coca cola” esclamò ma la mia risposta fu un bel dito medio sollevato.
Chiunque non fosse toscano ci prendeva per zimbelli col nostro “problema” della lettera c aspirata.
In alcune città come Livorno quasi non la dicevano.
Erano belli quei momenti di spensieratezza, spezzavano molto con la dura vita che avevamo scelto.
Non che questa fosse mal voluta ma di tanto in tanto avevo bisogno anche io di un momento per svagarmi. Ero prima di tutto un essere umana.
Il pomeriggio mi ritrovai sollevata a mezz’aria, un addestratore aveva fatto perno su di me e mi fece sbattere di schiena contro il morbido tappetino posto per terra.
Una volta messa in guardia provai a colpirlo con un gancio destro, poi col sinistro ed in fine mi abbassai piegandomi in avanti, così da evitare il suo colpo.
Alla fine lo afferrandolo per il braccio feci perno esattamente come lui fece qualche attimo prima con me e lo scaraventai per terra.
Ci insegnarono tutti i punti deboli del corpo umano, dove e come colpire in caso di contatto corpo a corpo tenendo conto anche di possibili equipaggiamenti che un nemico avrebbe potuto indossare.
Giorno dopo giorno vedevo coi miei occhi un costante miglioramento. Oltre che fisico anche nelle discipline in cui venivo addestrata.
Il mio corpo oltretutto stava assumendo una forma davvero tonica, questo non sfigurò la mia femminilità ma quando mi allenavo da sola il mio fisico restò magro, tonificandosi giusto un po.
Da quando ero sotto allenamento militare sul mio ventre vi era una vistosa quanto aggraziata tartaruga ben definita, anche le braccia avevano preso vigore come per i polpacci e i glutei.
Vestita apparivo semplicemente come una ragazza magra, non mi ero ingrossata poi così tanto.
Onestamente amavo il mio corpo; le curve a V verso la zona pubica, le curve dei muscoli accompagnate poi da un seno gonfio e sodo. Non che mi interessasse ma ero convinta, in pensieri narcisistici, che molti uomini avrebbero bramato una donna col mio corpo.
Il miglioramento non fu solo fisico ma anche mentale.
In vista del giuramento che avrei fatto da li a poco, dovevo essere pronta perché tutti noi saremmo stati messi alla prova un’altra volta.
Quella sera cadde la neve, non mi accorsi subito dell’evento ma una mia compagna di camerata esclamò contenta della cosa, quindi mi mossi verso la finestra.
Fuori era totalmente buio, gli alberi venivano scossi violentemente da un terribile vento e una miriade di fiocchi cadevano ad un altissima velocità posandosi sul suolo.
“io non sarei così felice, se attacca e diventa alta poi ci tocca spalarla” esalai sorridendo e la ragazza un po stizzita dal mio rovinargli quel magico momento mi diede una piccola spinta sulla spalla.
Sorrisi ignorandola mentre guardai fuori, verso il cielo cupo e privo di stelle.
Solo la fioca luce della luna trapassava di tanto in tanto quelle dense nuvole preoccupandomi davvero di quanta neve stesse cadendo.
Il mattino dopo, Castagneti, il paesino dove si trovava la base militare, si svegliò in bianco e ancora stava nevincando.
Avevamo anche K-way mimetico da indossare in caso di pioggia o neve e una volta fuori per l’appello.
I miei passi scendevano a scatti sulla neve, ne sentivo il suono ogni volta che un piede si muoveva di fronte all'altro rendendo più faticoso avanzare visto che quasi tutto il piede spariva nel bianco.
Quel giorno faticammo davvero molto. Tutta la mattinata passata a spalare neve per liberare i passaggi più importanti dove poi venne lanciato del sale per evitare che altra neve si poggiasse. Arrivai al punto in cui le mie braccia presero a bruciare da quanto usai la vanga ma ciò nonostante, la neve scendeva costantemente ad un ritmo sempre più veloce. La visibilità era ridottissime e il freddo stava lentamente intorpidendo le mie giunture.
Quando comunicava con i miei compagni il mio fiato era ben visibile in banchi di fumo denso che lentamente svaniva verso l'alto. I fiocchi di neve colpivano il mio caccuppio o scivolavano dalle mie spalle mentre il gelo mi faceva provare un forte senso di dolore al viso.
Non avevo mai faticato così tanto prima d'allora e pregavo soltanto che quella giornata volegesse al termine più in fretta possibile. A Pranzo, l'umore generale era davvero basso; poche parole nelle fretta di mangiare. Quanto meno fu piacevole restare al caldo per il tempo della pausa pranzo.
Non smise di nevicare per diversi giorni, mi sentivo davvero stremata visto che oltre i normali esercizi e le marce, doveva occuparci di spalare la neve. Come se non bastasse, il paese stava lentamente entrando in stato d'allerta visto che nevicò così tanto che quando uscimmo per la classica marcia, notai che la neve aveva cancellato completamente non solo la strada ma sotterrato alcuni garage in discesa e sepolto le automobili. Del monumento dedicato ai caduti nella seconda guerra mondiale, era rimasta scoperta solo un quarto della stele. L'elettricità quel giorno saltò e tutti gli abitanti erano usciti con ciò di cui disponevano nel tentativo di liberare le strade. Camminavano letteralmente in corridoi scavati nella neve, erano state impiegate delle ruspe e spargi sale ma la maggior parte delle strade erano ancora inagibili. Soprattutto quelle più piccole e irraggiungibili dai mezzi pesanti. Il giorno dopo ci venne chiesto di intervenire, le persone erano stremate e il blackout continuando rese le cose più drastiche. Un traliccio infatti cedette lasciando il paese a terra. Le famiglie che non avevano una stufa a legna si trovavano in una situazione ancor più critica. Sistemare la rete elettrica non sarebbe stato semplice visto che, chi di mestiere, non riusciva a raggiungere il guasto per via delle strade praticamente inagibili. Per questo motivo noi del Duecento trentacinquesimo, fummo adoperati per aiutare il paese. Tecnicamente, fu quella la mia prima missione. Niente di entusiasmante e molto, molto faticosa.
Una lunga via contornata da villette quasi tutte completamente bianche, i recinti di queste erano ormai muri di ghiaccio e quasi tutti gli accessi prima inagibili e poi scavati per permettere il passaggio.
Distribuivamo coperte e bibite calde e viveri. Non sapendo però rispondere alle domande dei civili, infatti ci chiedevano quando sarebbe tornata la corrente né quando avrebbero sistemato il traliccio. Quelle persone erano giorno dopo giorno sempre più stremate. Nel pomeriggio, raggiunta una villa molto vecchia, raggiunta da una salita resa molto pericolosa dal ghiaccio e la neve. Quando raggiungemmo la porta stavo per porgere come a tutti le coperte, una signora di mezza età mi guardò con un'aria affranta.
"la ringrazio" sussurrò lei. Proprio come tanti altri, io rispondevo come sempre che non doveva preoccuparsi e che era il mio lavoro. Qualcosa però non andava, il pavimento dell'uscio stremo è di colpo non vidi più niente. Una forza inesorabile mi travolse, vidi tutto bianco mentre sentii il mio corpo colpito da qualcosa. Non capii bene cosa mi stava succedendo fin quando tutto si calmo e mi trovai ferma. Tutto era buio e sentivo un dolore atroce alla gamba. Guardando verso il basso notai fosse incastrata tra due colonne di legno quadrate e non riuscivo a liberarmi. Respiravo a fatica ma capii immediatamente di trovarmi sotterrata tra neve e macerie di legno.
i miei occhi dopo essersi abituati a buio notarono due figure, una di queste era un militare anche se non capivo chi fosse mentre l'altra era la proprietaria della casa, trapassata da due grossi tralicci di legno. Scricchiolava tutto e temevo che cedendo, il poco spazio che avevo a disposizione per respirare sarebbe sparito. Perdere la calma sarebbe stato inutile. Urlai soltanto "aiuto, siamo qui, penso ci sia un morto" ma nessuno mi rispondeva. Visto che i miei compagni erano vicini, probabilmente anche loro erano stati travolti dalla valanga o frana, qualsiasi cosa ci avesse colpiti. Poggiando un piede sull'asse superiore tentai di spingermi lontano e liberare il piedi ma questo mi faceva un male porco. Probabilmente me l'ero rotta.
"sono qui, penso che ci sia un morto e sono incastrata! c'è qualcuno?! vi prego!" Urlai ancora restando poi in silenzio ma ancora, solo il silenzio e lo scricchiolio del legno mi rispose. Strinsi gli occhi mentre un senso di freddo mi abbracciò sempre piu forte man mano che il tempo passava.
Mi dicevo che ci avrebbero soccorsi in poco tempo ma la paura di morire in quel buco si faceva sempre più opprimente, creando in me in un senso di ansia e sgomento.
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