la ragnatela sul distributore automatico


"Mi chiamo Elisa Mazzoli, ho sei anni e vengo da Firenze".

Ricordo ancora quel giorno, erano passati anni ma ogni singolo dettaglio tornava alla mia mente: Dal vestito rosa che mia madre mi costrinse a indossare, al volto della maestra; ricciolina e con un naso così aquilino da sembrare una di quelle streghe delle favole. Su di esso vi erano poggiati degli occhiali dalla montatura viola con i bordi esterni lievemente a punta.

Dietro di lei aveva scritto il suo nome sulla lavagna che nonostante fosse verde aveva uno strato biancastro di gesso. Io ero in piedi, tutti gli altri bambini mi guardavano e mentre mi presentai fui più concentrata a guardare le cartine geografiche. Sicuramente ero imbarazzata per tutte quelle novità.

Se dovessi pensare al ricordo più remoto certamente sarebbe quello.

Da quel giorno in poi, per quanto strano potesse sembrare, la violenza mi avrebbe accompagnato per il resto dei miei giorni.

Fin da piccola mostrai un carattere riservato ma anche parecchio irruento, a tratti maschile.

Dai primi giorni i miei compagni iniziarono a conoscersi e fare amicizia ed io mi ritrovai esclusa, fuori posto. Durante gli intervalli, mentre tutti giocavano tra di loro, io ero quella che dava calci ad un pallone di gomma che sbattendo contro il muro tornava da me.

Vedevo le bambine giocare con le bambole, giocare alla famiglia o ancora raccogliere fiori. Il solo pensiero di unirmi a loro mi annoiava e l'unica volta che mi proposero di giocare, secondo loro avrei dovuto fare il cane.

Invece i bambini giocavano a calcio e spesso litigavo con loro per chi dovesse avere il pallone migliore. Puntualmente io mi ritrovavo con quello sgonfio .

Alle volte invece, nonostante le maestre poi li sgridavano, giovano alla guerra con i sassi e la terra e mentre li guardavo non volevo altro che unirmi a loro.

Questa mia inadeguatezza comportò un isolamento da parte di tutti i miei compagni, era come se non esistessi. Nessuno mi sceglieva per i laboratori, tanto meno mi volevano come compagna di banco e sebbene ci restavo male, fingevo non mi importasse restando sola.

Ciò attirò le preoccupazioni delle mie maestre che consigliarono ai miei genitori, uno psicologo in grado di capire come mai non riuscivo ad integrarmi.

Sapevo che non c'era nulla di sbagliato in me ma mia madre preferì dare retta a loro anziché fidarsi di me.

Era sempre stata una donna molto premurosa ed essendo un'infermiera si preoccupava fin troppo delle mia salute, diventando però ultra protettiva e asfissiante.

Io e lei ci somigliavamo molto e a giudicare dalle sue foto da bambina, era vero.

Entrambe con la pelle molto chiara e una miriade di lentiggini ovunque, capelli rossi ed occhi blu. L'unica differenza stava nel naso di mia madre che aveva la punta bassa mentre la mia era lievemente all'insù. Oltretutto lei portava gli occhiali mentre io durante le visite oculistiche sentivo dire "complimenti sua figlia ha una vista perfetta" da ogni oculista che mi visitava. Ci andammo più volte perché mia madre voleva sentire più pareri medici.

Due volte alla settimana, per colpa delle mie maestre, vedevo una donna.

Questa parlava, parlava e parlava. Cercava di coinvolgermi facendomi riflettere sul perché non andassi d'accordo con le bambine a scuola. Cercava di capire come passavo il mio tempo a casa e cosa mi divertiva. Era un'impicciona che non sopportavo.

Con il passare del tempo le cose peggiorarono, ero così arrabbiata di essere sola che aspettai l'intervallo e quando i bambini iniziarono a giocare coi sassi imposi la mia presenza.

Inizialmente fui presa di mira.

"vai via Elisa non ti vogliamo!" Gridavano mentre venivo colpita da una pioggia di sassi.

Questo fece scattare qualcosa che ora comprendo ma in quei anni ignoravo completamente. Afferrato un sasso abbastanza grande mi avvicinai ad un compagno e lo sferrai sul suo volto, mi ero avvicinata per non sbagliare e per fargli più male possibile.

Non mi sentii in colpa, mentre attorno a me scoppiò un putiferio io restai immobile a guardare il sangue del mio compagno sgorgare tra le dita della sua mano mentre piangendo mi gridava di essere pazza.

Tutti urlavano attorno a me, una maestra mi strattonò dal polso portandomi via, un'altra prese in bracciò il bambino ferito che lacrimava come un disperato.

Sentii la maestra parlarmi, il suo tono era furioso ma io non riuscivo a sentirla. Come se improvvisamente fossi finita dentro una sfera e che questa mi isolasse da ogni suono, rendendolo ovattato. Non mi sembrò nemmeno di essere realmente lì in quel momento.

Ruppi tre denti a quel poveretto che non tornò a scuola per diversi giorni e io finii col banco affianco la cattedra, ritenuta una violenta dalle maestre.

Mia madre diede di matto quando venne a sapere che avevo fatto e mio padre mi sgridò per diverse ore.

Lui era diverso da mamma. Un uomo molto grosso e alto che però era parecchio assente per via del suo lavoro come tranviere. Cercava di fare il buon padre quando era a casa ma spesso invece che giocare con me, si addormentava davanti la televisione. Quando mi sgridava però avevo molta paura di lui anche se non mi alzò mai un dito contro. La sua voce era grossa e severa anche quando non era arrabbiato, figurati quindi quando lo facevo arrabbiare.

La mia situazione a scuola peggiorò drasticamente dopo quel disastroso evento, tutti infatti iniziarono ad odiarmi e quando il bambino da me colpito tornò tra i banchi, ogni compagno diede a lui la propria solidarietà unendosi contro il loro nemico comune che ero io.

Anche i bambini delle altre aule mi insultavano dicendomi di stargli alla larga o deridendomi. Diventai la bambina più odiata di tutta la scuola ma a quel punto capii una cosa molto importante: In realtà, ognuno di loro aveva paura di me e ciò lo capii quando iniziai a reagire fisicamente ai loro insulti. Ogni volta che qualcuno mi insultava io lo picchiavo o minacciavo di farlo e questo faceva scappare chiunque.

Andò avanti così per diverso tempo, anni!

Gli unici amici che avevo erano i libri. Leggevo così tanto che alle volte sostituivo lo studio e i compiti con la lettura di qualche storia avvincente, questo a lungo andare fu deleterio per il mio rendimento scolastico ma in quei anni non mi importava affatto.

Man mano che crescevo venivo attratta da storie sempre più complesse ma il libro che cambiò per sempre la mia vita fu quello di un soldato americano. Egli parlava dello sbarco in normandia durante l'operazione Overloard. Di come gli americani si fecero strada lungo quella spiaggia sotto l'incessante fuoco delle mitragliatrici tedesche. Dei corpi ammassassi sulla battigia e dell'eroica impresa di riuscire a vincere una battaglia che sulla carta li vedeva sconfitti.

Mi domandai quanto coraggio, quanta forza una persona dovesse avere per accettare di gettarsi a capofitto contro un nemico che molto probabilmente lo avrebbe ucciso.

Quale forte ideale spingeva quei giovani ad accettare di morire piuttosto che perseguirlo?

Volevo scoprirlo, volevo avere anche io il loro stesso ideale!

"Mamma da grande voglio fare il soldato". Lo dissi così a mia madre, tornando a casa mentre gli mostrai il libro che stavo leggendo. Sono quasi sicura che in quel momento ebbe un mancamento.

Mio padre invece prese la cosa sul ridere liquidando la cosa come un mio periodo transitorio. Si sbagliava.

I giorni scorrevano tutti uguali e nella noia creai un amico immaginario. Si chiamava Joky ed era ispirato ad un cartone abbastanza violento che però aveva come protagonisti dei teneri animaletti colorati. Infatti Joky era uno scoiattolo verde con un cappello da sergente americano.

Con lui facevo quei giochi che a scuola non potevo fare coi miei compagni, anche se mi annoiavo in poco tempo. Però mi faceva compagnia mentre leggevo o lo disegnavo.

Arrivata in quinta elementare speravo soltanto che l'anno terminasse in fretta, una volta alle medie sarei andata in un'altra scuola: nuovi compagni e nuova vita, così almeno speravo.

Quanto mi sbagliavo...

Alle medie fu anche peggio, alcuni dei ragazzi e ragazze nella mia classe si conoscevano già dalle elementari quindi da subito si formarono dei gruppeti dai quali io fui subito esclusa.

Ogni intervallo restavo sul banco, tanto non aveva senso uscire nei corridoi come invece tutti gli altri facevano. Ero diventata un fantasma che notavano soltanto per insultarmi.

"brutta carota strabica" venivo chiamata, ma le vessazioni diventavano col tempo sempre più cattive.

Se qualcuno doveva passare tra i banchi e c'ero io in mezzo, non mi veniva chiesto il permesso ma venivo spinta e derisa.

Ogni mattina all'appello, il mio nome veniva sbeffeggiato da qualcuno che spernacchiava sulla mano e in palestra, nonostante avessi i risultati migliori della classe, venivo derisa e chiamata tettona.

Le compagne mi accusavano di mettere la carta igienica nel reggiseno, tutto perché effettivamente ero la più prosperosa della classe.

Un giorno, durante l'ora di ginnastica, presero il mio cambio e lo lanciarono con lo zaino sotto la doccia che poi aprirono. Fui quindi costretta a tenermi addosso i vestiti della palestra e ovviamente tutti mi diedero della puttana lezza.

Li odiavo ma ancor di più odiavo me stessa perché non reagivo, sapevo di poter prendere a schiaffi chiunque in quella classe ma non lo feci per non dare altri pensieri a mia madre.

Ogni volta che tornavo a casa le dicevo che andava tutto bene e lei sembrava essere più rilassata.

Questo però mi stava logorando poco a poco e sentivo di non riuscire ad andare avanti in quel modo. Stavo esplodendo ed era soltanto questione di tempo.

tutte le mattine svegliavo con il desiderio di restare a letto, l'idea di mettere piede in classe mi faceva stare male, un senso d'ansia così tanto pensante che era in grado di farmi mancare il respiro.

Sfogavo tutto a casa, piangendo in segreto o tirando pugni contro un sacco da boxe che avevo appeso in camera, spacciandoli per esercizi.

Mia madre non apprezzava come avessi arredato la mia stanza:

Il sacco da boxe, libri sulla guerra e modellini di carri armati o di aeroplani, avevo un poster delle frecce tricolore attaccato alla porta.

Mi credeva lesbica e me lo chiedeva di continuo ma in verità i ragazzi iniziavano già ad interessarmi.

Presi una cotta adolescenziale per il cantante dei sum41 e dei Greenday. Infatti oltre quelli militari vi erano i poster delle due band. Mi piaceva il loro genere musicale ma non ascoltavo soltanto loro. Ad esempio impazzivo per i link in park che spesso venivano abbinati a dei video del cartone animato Dragon ball.

Passavo tutti i pomeriggio più o meno allo stesso modo; musica mentre mi allenavo o leggevo, alle volte riuscivo a combinare le tre cose insieme.

Ascoltavo musica e mentre facevo i piegamenti leggevo un libro. Una volta mia madre mi sorprese in quello stato e restò a fissarmi scioccata per cinque minuti buoni fin quando gli chiesi di andarsene.

Alcuni giorni facevo così tanti esercizi che mi ritrovavo sfinita per terra senza la forza di rialzarmi e quando accadeva ero contenta, significava che avevo dato il massimo del mio potenziale e che quindi non avevo sprecato quella giornata. C'erano volte in cui ero svogliata e non facevo niente ma la sera mi sentivo in colpa e promettevo a me stessa che il giorno dopo avrei dato il massimo.

Non lo facevo per prepararmi a qualche tipo vendetta personale ai danni dei miei compagni, tutto quell'esercizio era per un unica ragione, essere pronta per quando avrei tentato di arruolarmi.

Divenne l'unica mia ragione di vita. Fanculo gli amici, le feste e cazzate simili, io sarei diventata qualcuno e loro avrebbero fatto una vita comune, normale e misera. Accontentandosi di vivere ogni giorno allo stesso modo, sempre uguale. Pensavo a queste cose per dare sempre di il meglio.

Però, mentre io avevo imparato ad ignorare i miei compagni, loro non sembravano intenzionati a lasciarmi in pace. Tanto vero che una brutta mattina, arrivata presto in aula, mi accorsi di un biglietto nel sotto banco. Così lo afferrai tenendolo sulle cosce per non farlo vedere a nessuno.

"M che cazzo..." dissi una volta letto.

Era la dichiarazione di un amante segreto che mi confessava quanto fosse innamorato dei miei capelli e delle mie lentiggini. Aggiungendo anche che tutti gli altri erano stupidi a trattare male una bella ragazza come me.

Nei primi attimi ci cascai come una stupida, sorridendo per dei complimenti che mi fecero sentire apprezzata. In un secondo momento però, il dubbio che si trattasse soltanto di un brutto scherzo iniziò ad albergare nella mia mente al punto da convincermi che non poteva essere altro.

L'amante segreto disse che quel giorno mi avrebbe aspettata ai distributori automatici vicino le scale, così al suono della campanella presa dalla curiosità decisi di non restare in aula ma di sistemarmi la gonna e uscire nei corridoi. Questi erano dipinti di verde menta e durante l'ora di ricreazione, gli studenti lo invadevano creando un caos tra chiacchiere e risate.

A passo tranquillo percorsi la strada fino le macchinette prendendo un tè in lattina, mi guardai attorno e non feci in tempo ad aprire la spolletta che si presentò un ragazzo della mia classe.

"Hey Elisa, pensavo non mi avresti creduto." Era Dario, un ragazzo dai capelli castani che portava sempre una catena sul fianco dei pantaloni.

Risposi facendo spallucce ma poi mi spaventai quando afferrandomi per i fianchi mi premette contro il vetro della macchinetta. I miei occhi azzurri si spalancarono mentre ascoltai le sue parole.

"Mi piaci da morire lo sai?" sussurrò avvicinandosi al mio viso col chiaro intento di baciami.

Io non sapevo cosa dire e soprattutto come comportarmi.

Quindi era vero e non uno scherzo, quel ragazzo era innamorato di me. Però io non di lui e non volevo mi baciasse.

Lui però s'avvicinò al mio viso e quando fu a pochi centimetri mi prese la fronte e la picchiò contro il vetro della macchinetta.

Non fece tanto male ma mi sentii stordita e lo guardai con aria confusa mentre sul suo viso si dipinse un sorrisone soddisfatto.

"seriamente pensi che voglia baciare un cesso come te?" disse ridendo con gusto.

Guardandomi attorno in modo nervoso mi accorsi che i miei compagni di classe si erano radunati vicino le macchinette, ridevano e mi indicavano.

"Troia, devi morire" Disse qualcuno e subito dopo un crekers mi colpì sulla fronte. Venne seguito da un brick di succo che sporcò la mia maglietta finendo poi per terra.

"Andate via..." borbottai ma subito dopo esalai un verso dolorante per una lattina di coca cola che mi colpì la tempia

"Schifosa, si fa baciare dal primo che la considera".

"Sicuramente avrà voglia, una troia così non penserà ad altro!" aggiunse qualcun altro.

Abbassai la testa, stavo per piangere ma piuttosto che farmi vedere in lacrime decisi che era giunto il momento di punirli.

Il mio sguardo mutò e sollevando la testa fissai negli occhi colui che finse di baciarmi.

Tutti rimasero scioccati dal mio gesto mentre girandomi su me stessa lo feci sbattere violentemente contro il vetro del distributore.

"E se ti sbatto io?!" urlai nel suo orecchio mentre gli altri terrorizzati chiamarono aiuto a dei professori.

Lo tenetti per la nuca e la spalla iniziando a farlo sbattere contro il vetro del distributore che traballava ad ogni colpo.

"Non è divertente vero?!" Gridai, facendolo sbattere così tanto forte che udii il suono del vetro scheggiarsi ed infatti, dalla testa del ragazzo si estendevano delle scheggiature sulla superficie che ricordavano una grossa ragnatela.

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