Il fante Mazzoli Elisa

Una ad una; ci vennero fornite le divise con le giuste taglie, un paio di scarponi neri, e la toppa col nostro cognome da apporre sulla destra del petto mentre sulla sinistra c'era quella con scritto "esercito".
Da quel momento non sarei più stata Solo Elisa ma il fante Mazzoli elisa.
I primi servirono soltanto a darci un inquadratura generale di quello che significava condurre una vita come quella.
Tutto aveva una regola, completamente schematico e già "preconfezionato" da altri. Il saluto all'altezza del sopracciglio quando si indossava il cappello, lo sbattere il tallone in terra o perfino i modo di presentarsi ad un superiore.
Era importante l'ordine in cui si dicevano le cose e peri primi giorni mi ritrovai a fare le prove insieme alle mie compagne di camerata.
"fante, Mazzoli Elisa, seconda compagnia, primo plotone, decima squadra" dissi stringendo i denti nel tentativo di ricordarmi tutto quanto e quando ci riuscii esultai sbracciando.
Tra le varie cose che fui costretta ad imparare alla svelta, la più difficile era fare il cubo.
Farsi il letto infatti si diceva "fare il cubo" perché bisognava togliere lenzuola e coperte, piegandole insieme sulla parte del letto in modo tale da creare un perfetto cubo con le lettere "E.I" esercito italiano. In bella vista.
Dovetti impiegare un po di giorni per imparare a farlo senza essere rimproverata ma alla fine non era la cosa peggiore. I regimi di allenamenti ovviamente erano serratissimi così come le fasi della giornata, scandite precisamente orario dopo orario.
Ogni giorno ci si svegliava alle sei e mezza e la colazione veniva servita alle sette in punto, questo significava una mezz'ora di tempo per sistemare le proprie cose, lavarsi e presentarsi in mensa altrimenti si stava a stomaco vuoto.
Dopo quaranta cinque minuti per poter mangiare bisognava già essere nel cortile principale per l'adunata pre alza bandiera e quando questa avveniva tutti insieme, divisi per squadre e ancora in plotoni. Si cantava l'inno nazionale con la mano sul cuore. Era bello stare tra tutti quei ragazzi e ragazze col viso lievemente verso l'alto in segno di orgoglio. Ogni mattina i miei occhi seguivano la bandiera alzarsi lentamente.
Seguivano quindi 4 ore di allenamenti e addestramenti; inizialmente erano semplicemente esercizi fisici, soprattutto per le prime settimane.
Per quanto fossi allenata, nel primo periodo stavo faticando molto ma quello che proprio non mi aspettavo fu di trovarmi amica con i componenti della decima squadra. Mi aspettavo di trovare un terreno pieno d'astio e competizione ed invece mi resi conto che più tempo passava e più diventavamo uniti.
Questo perché alla fine dei conti tutti eravamo nella stessa barca, ognuno poteva capire l'altro perché i trattamenti di favore non esistevano.
Il sergente ed il caporale ci martellavano in continuazione anche per il minimo errore.
Duri e severi ma tremendamente giusti, di tanto in tanto, specialmente durante le corse qualcuno dicevano una battutina in generale e a loro andava anche bene, ridevano con noi ma a patto che la cosa si sarebbe fermata subito.
Giusto per smorzare il clima di tanto in tanto, quando succedeva mi sentivo investita di forze nuove, stare con loro mi dava oltretutto lo stesso effetto. Un giorno Pioveva così tanto che il percorso cittadino previsto per la corsa, era così tanto fanghiglioso che una ragazza scivolò prendendosi una storta così tanto grave che inizialmente si pensò ad una frattura.
Io e un altro ragazzo le porgemmo le nostre spalle e seguite dal Sergente la riportammo alla base.
Parlo proprio di questi gesti quando ti dico che tutti aiutavano tutti, una grande famiglia che mai pensavo di poter trovare in quel posto.
Avevamo anche delle ore libere d'uscita che ironicamente chiamavano "ore d'aria", queste andavano dalle quattro e mezza fino le cinque e mezza e poi dalle sei di sera fino le undici di sera.
Si doveva assolutamente ritornare in orario per il contrappello e poi si andava dritti a dormire.
Non aveva nemmeno molto senso tardare visto che comunque la sveglia era il mattino presto e tutto il ciclo riprendeva fine.
Nemmeno mi accorsi che passò un mese, le giornate erano si scandite da una pesante routine ma mai noiosa. Un tantino rigida ma strinsi i denti, ero davvero motivata ad andare avanti, perseguire quel mio cammino.
Tornare a casa significava darla vinta a mia madre e metaforicamente anche a tutti quelli che da piccola mi insultavano e deridevano.
Venne finalmente il giorno in cui feci conoscenza di una cara amica che non smetterò mai di amare:
quattro, settecento trenta chilogrammi per novecento novantacinque millimetri di morte assicurata ad un ipotetico nemico. Amavo da impazzire la Beretta AR 70/90. Se mi sentisse qualcuno mi ucciderebbe ma diciamo che di forma è simile al fucile d'assalto m4 americano, anche lui monta un caricatore "STANAG" da trenta. All'inizio, prima che mi mandarono a fare la tiratrice scelta, fu la cosa più bella che vidi in vita mia.
Ci dissero che ognuno di noi avrebbe dovuto accudire il proprio fucile come un figlio ma io già allora non avevo avuto bisogno di sentirmelo dire, lo avrei fatto comunque.
Tu mi conosci Cheese, sai quanto tengo ai miei fucili, quindi immagina all'ora il mio viso.
Se lo avessi visto probabilmente non faresti altro che prendermi in giro tutte le volte perché probabilmente i miei occhi brillavano di luce propria.
Per quanto possa sembrare assurdo all'inizio facevo fatica, il fucile era pesante e le pose imbracciandolo sfiancavano alla lunga.
Quindi le mie prime sessioni al poligono non erano delle migliori.
Sapevo di poter dare di più ed era frustrante vedere la faccia del caporale piegarsi in dissenso, cercavo di non pensarci e invece che scoraggiarmi provai sempre di più. "beh ho capito che non sarò un cecchino" pensavo "mi faranno fare altro".
Quelli erano i miei pensieri, la cosa più importante era non essere preclusa in magazzino o cose simili, ringraziai di non aver fatto l'alberghiero altrimenti la cucina mi avrebbe chiamato a se come l'anello richiama Sauron.
Tra tutti c'era un esercizio che amavo da impazzire, nel farlo sorridevo e nemmeno sentivo la fatica poiché nonostante lo affrontavo con il massimo della serietà, sembrava quasi un gioco.
In un grosso spiazzo erboso disponevamo i nostri zaini uno a debita distanza dall'altro, questi sarebbero stati come dei checkpoint.
Il sergente ci insegnò che per prendere bene la mira , si stimava che un uomo avesse bisogno di almeno tre secondi, quindi lo scopo dell'esercizio era quello di raggiungere lo zaino avanti a noi in quel lasso di tempo per poi stendersi. Ci preparammo in diverse file e il primo corse gettandosi quando il sergente gridò "mira 3".
una volta in terra, iniziò a gridare ripetutamente "fuoco" quello indicava che stava fornendo fuoco di copertura e che quindi, il secondo della fila doveva raggiungere lo zaino dove si trovava il compagno e poi "conquistare" quello più avanti nei tre secondi.
A quel punto lui avrebbe urlato "fuoco" e quello dietro doveva semplicemente emularne il processo.
Un giorno mentre feci quell'esercizio feci la più grande figuraccia di tutto il mio percorso d'addestramento.
Infatti mentre il sergente dava i tempi, il caporale ci controllava per sistemare la nostra postura da distesi, qualora non fosse corretta.
Urlavo "fuoco" in continuazione e ad un tratto lo sentii urlare il mio cognome.
"ma fuoco cosa?! Non vedi che hai dimenticato di togliere la sicura? Svegliarsi!" mi rimproverò.
Quel giorno se avessi potuto avrei aperto un varco nel terreno e mi ci sarei buttata dentro.
"mi... mi scusi caporale" borbottai imbarazzata mentre rimossi quindi la sicura.
Probabilmente diventai paonazza e con un tono strozzato, almeno all'inizio, ripresi a gridare il consueto "fuoco" fin quando non fui raggiunta da un mio compagno di squadra.
Durante la domenica a quelli che abitavano più vicino alla base, veniva data una licenza per andare a casa, io non avevo voglia di prendere un treno per firenze e stare con la fretta di tornare indietro in tempo.
Anche perché ritardare da una licenza significava disertare e non mi pareva proprio il caso di iniziare la mia carriera in quel modo.
Quindi Spiegai a mia madre che per quei tre anni non ci saremmo visti, eccezione fatta se lei mi avesse raggiunto ad ascoli.
La verità? Non mi mancavano, certo volevo bene ai miei genitori ma non ne sentivo la mancanza.
Così presa dal migliorare me stessa in quella base, a vivere quello che sempre avevo voluto che stavo troppo bene.
Non avevo bisogno di altro.
Cambiai perfino la mia opinione su quale strada avrei intrapreso dopo il "RAV".
Ovviamente non avrei scelto io ma la mia mira diventava via via sempre più precisa e pulita ed in poco tempo nella mia squadra fui riconosciuta come quella con più mira di tutti.
Questo venne probabilmente notato dai miei superiori, infatti iniziarono a darmi ostacoli più distanti e nonostante ciò riuscivo benissimo a colpire con estrema precisione, mi veniva naturale.
Era motivo di orgoglio per me, non mi vantavo ma per una volta non ero l'emarginata ma un tassello importante nel gruppo dove mi trovavo.
Per la prima volta nella mia vita ero al centro dell'attenzione in modo positivo e tutti mi trattavano con rispetto.
Quelle cose mi convinsero maggiormente del fatto che mai scelta fu più giusta di quella dell'arruolarsi.
Una cosa che non mi piaceva ma che non piaceva a nessuno del resto, era il piantone.
La guardia, poteva essere in qualsiasi fascia oraria, il che significava che sostituiva al cento per cento l'attività che ne corrispondeva, fosse stata il dormire o il mangiare.
Un incubo per i fanti, soprattutto per quelli che lo facevano dalle quattro alle sei e poi dovevano affrontare il resto della giornata come tutti gli altri.
Mi capitò poche volte quel turno visto che veniva assegnato maggiormente a quelli più "deboli" per tentare di motivarli o distruggerli del tutto.
Perché si, il RAV descritto come addestramento era in realtà "una crudele scrematura" di quelli che effettivamente sarebbero andati avanti o si sarebbero fermati.
Un metodo per individuare gli anelli deboli e dare a loro maggior peso, molti infatti iniziarono a viverla in maniera del tutto negativa, non facendo altro che lamentarsi e piagnucolare di non farcela più.
Alcuni in verità si erano anche ritirati sotto richiesta domale, io davvero non li capivo.
Fare richiesta per entrare non era poi così semplice visti i documenti e tutto il resto, anche i bandi oltretutto non si mostravano così affabili.
Magari qualcuno di davvero motivato non era potuto entrare per dare spazio ad un altro non meritevole.
Una fredda mattina mi trovavo lievemente sovra pensiero all'interno di un BVM Freccia.
Un corazzato italiano per il trasporto delle truppe, questo aveva una postazione per la torretta e un portellone posteriore oltre le normali porte dell'abitacolo.
In mezzo i miei piedi avevo un sacchetto azzurro che contenevano; tre scatole di simmental, un panino, una bottiglia d'acqua e delle posate di plastica.
Avevamo da poco lasciato la base dopo l'appello e sapevamo già che quell'esercitazione avrebbe significato tanto.
In America lo chiamano il "CQB" ed indica il combattimento in spazi ristretti.
Io mi trovavo in prossimità del portellone quindi sarei stata la prima a scendere e gli altri mi avrebbero seguito.
Per l'esercito ogni scusa era buona per un addestramento, infatti una volta che il portellone s'abbassò, sganciai la cintura ed uscii rapidamente guardandomi attorno col mio Beretta, conscia ovviamente che non c'era anima viva nell'arco di chilometri, mi inginocchiai restando alla sinistra del mezzo, mi inginocchiai continuando a coprire ciò che potevo vedere dalla mia visuale.
Un mio compagno mi sorpassò facendo la stessa cosa ma qualche metro più in la.
Quando tutta la squadra uscì dal Freccia ci dirigemmo, seguendo il sergente, verso una grossa cascina dismessa.
Avremmo dovuto percorrere il tragitto preparato, sparando ai bersagli mentre usavamo le tecniche imparate sia con la pratica che con la teoria.
Molto tempo passai sotto gli appunti, avvinandomi a materie complesse come la topografia o lo studio di tecniche e strategie per il combattimento. Spesso sacrificavo le mie ore libere proprio sugli appunti, non mi regalavo nemmeno un po di tregua, per questo quasi tutte le notti crollavo non appena mi appoggiavo sul letto.
Arrivati in prossimità della cascina il sergente ci spiegò come avremmo dovuto muoverci, non importava se lo diceva ogni volta, lui ribadiva che più volte lo diceva e meglio sarebbe entrato nelle nostre teste.
Decidemmo come formare la squadra, ci dividemmo in due gruppi e io mi sarei mossa seconda nel secondo gruppo.
Prendendo un lungo respiro mi poggiai alla destra di una porta aperta e al via, attesi che il mio compagno entrasse ma come lui si mosse il sergente urlò un forte "stop".
"cristo santo, Andreotti! Devi avvisare che entri, altrimenti il fante Mazzoli è costretto ad immaginarselo dai tuoi movimenti, rifai!" urlò.
Lui si scusò e tornammo in posizione, il ragazzo mi guardò e io gli fece cenno di si con la testa.
"aprire e liberare" ordinò il sergente ad alta voce.
"entro" a quel punto disse il ragazzo, andando alla destra della stanza, io subito dopo di lui mi fiondai all'interno sulla sinistro, incrociandomi col mio compagno.
Notai quattro bersagli posti agli angoli, quelli in basso avevano forma umana mentre quelli alti, dei semplici cerchi.
Colpii rapidamente i primi due in testa e mentre sparavo, sentii dietro di me un altro compagno colpire quelli in alto.
Quando si entrava in una stanza era necessario innanzitutto incrociarsi, chi si poggiava a destra entrava a sinistra e vice versa. Oltre questo, il terzo e il quarto dovevano entrare rapidamente col primo ed il secondo per mirare in alto così che in quattro potevamo tenere a bada una stanza intera di modeste dimensioni.
"libero" gridai, lo fecero anche gli altri in ordine dal più lontano fino al più vicino rispetto la porta e così il resto della squadra entrò rapidamente.
Dovevamo bonificare l'intero piano terra nel meno tempo possibile quindi ci muovevamo piuttosto in fretta.
La cascina era riverso in uno stato pietoso, i muri marci e pieni di graffiti facevano solo da contorno ad un pavimento logoro e ricolmo di macerie.
Notai con disgusto anche dei preservativi srotolati durante gli esercizi.
Dopo la sala in cui ci trovavamo vi era un corridoio quindi il primo si poggiò contro l'angolo e fornendomi copertura mi permise d'avanzare.
Sulla destra c'era una porta.
"entro" gridai e aprendo vidi un bersaglio che colpii all'istante per poi gridare "libero".
Nel frattempo il terzo mi aveva già sorpassato e aveva fatto la stessa cosa con la porta poco più avanti così che il primo potette avanzare rapidamente sotto la protezione del terzo.
Avanzammo esattamente come l'allenamento con gli zaini ritrovandoci poi difronte un grosso stanzone dove si trovavano le scale per il piano superiore.
Questo però era davvero molto pericolante quindi l'entrata ai gradini era stata delimitata da un nastro rosso e bianco.
Nella stanza vi erano diversi obbiettivi che abbattemmo rapidamente, notai che sulla testa di una sagoma qualcuno aveva dipinto il simbolo della pace. Aveva usato una bomboletta verde acido molto evidente sul nero, la cosa divertente fu che colpii l'obbiettivo proprio dove le quattro linee di quel simbolo si incrociavano.
I colpi rimbombavano pesantemente nella stanza, fu difficile all'inizio non sbattere gli occhi ogni volta che se ne sentivano alcuni.
Poi ad un tratto da fuori si sentirono dei colpi ripetuti ed un urlo, mi spaventai a morte ma restai pietrificata sul posto mentre il sergente corse fuori dalla cascina quasi bestemmiando.
Quando tutti gli altri si mossero anche io decisi di seguirli e raggiungendo il cortile esterno sembrava non fosse successo niente, solo un ragazzo stava risollevando il suo fucile.
"cosa succede ragazzi? Non posso lasciarvi soli un secondo" urlò così il caporale, rimasto fuori con gli altri si mise sugli attenti per chiedere parola e quando gli fu concesso spiegò.
"il fante De Tommasi, dimenticandosi di mettere la sicura al suo fucile ha accidentalmente sparato dei colpi sul terreno, nessuno si è fatto male" spiegò.
La cosa fu alquanto buffa visto che De Tommasi fu lo stesso che inserendo il caricatore al contrario si sorprese quando il suo fucile smise di sparare.
"Fante De Tommasi, estragga immediatamente il suo caricatore e conti i colpi mancanti" urlò indiavolato il Sergente Arrigoni.
Si vedeva che quell'uomo aveva dato la vita all'esercito.
Un uomo sulla trentina dagli occhi verdi e profondi e capelli nero corvino. Non era nemmeno brutto come uomo se non fosse per quella ridicola fossetta sul mento.
Ero sicura che si avessimo paragonato le nostre altezze, la mia fronte avrebbe raggiunto la sua gola.
Quando il fante De Tommasi tirò fuori il caricatore dopo qualche secondo urlò.
"Sergente, ne mancano tre".
Il suo tono era più dispiaciuto che mai mentre la paura gli si leggeva chiaramente in faccia.
"sergente mi dis..." venne bruscamente interrotto.
"non te ne vai da qui finché non me ne fai trecento e per tre giorni di fila monterai picchetto dalle quattro fino le sei del mattino, così ci penserai non due ma tre volte a non badare alla sicura" la sua sentenza fu tanto severa ma mi trovai a ridere sotto i baffi per la battutina che disse rimproverando il povero De Tommasi il cui volto si sciolse in una rassegnata tristezza e disperazione.
Iniziò quindi a fare le flessioni.
Mi sentii stronza ma l'idea fu piacevole l'idea che per tre giorni avevo la certezza di non dover stare sveglia la notte.
Gli allenamenti andarono avanti mentre il poveretto dovette stare tutto il tempo a fare flessioni, mi raccontarono che gli permisero di barare visto che non sarebbe mai arrivato ai trecento, probabilmente nemmeno io ci sarei riuscita, magari facendoli a tranche ma pensare di farli tutto d'un fiato era un suicidio per le braccia.
Dopo cena non avevo voglia di andare fuori, quindi andai in camera a stendermi sul letto che avevo appesa sistemato per la notte.
Avevo poggiato il cuscino sullo stipite così da non sentirlo sulla zona lombare, mentre testa e spalle si poggiavano sul muro.
Stavo leggendo degli appunti con le cuffie a basso volume che riproducevano un vecchio brano intitolato "stan" di Eminem insieme alla cantante Dido.
Quella canzone mi dava un senso di malinconia e tristezza ma allo stesso tempo era rilassante e mentre studiavo andava più bene.
Oltretutto era uno di quei rari momenti in cui mi trovavo sola al di fuori di quando facevo la doccia e i bisogni.
Le mie cinque compagne erano uscite tra di loro, mi avevano invitato ma con la scusa della stanchezza scelsi di restare in camera.
Questa Aveva il minimo e dispensabile; pareti bianche con un pavimento composto di ampie piastrelle marroni.
I letti e gli armadietti erano tutti in legno con parti di plastica blu scura, gli angoli dei letti o le maniglie degli armadi, ad esempio.
Stavo indossando una tuta blu con una t-shirt grigia, i piedi scalzi erano dentro le calde coperte e in pace leggevo beatamente.
L'indomani mi svegliai al solito orario e dopo la colazione mi trovavo nel cortile centrale, in posa rigida affianco a tutti gli altri miei compagni.

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