In uno dei tanti libri che ho letto, si narrava di una losca figura dalle grosse fauci e artigli affilati che si aggirava tra i boschi. Le sue zanne impregnate del sangue di innocenti e il suo aberrante fetore avvertito attimi prima che la morte giungesse ad accogliere lo sventurato passante. Agiva in agguato durante le notti prive di luna dove l'oscurità predominava, in cui solo un nittalopo aveva la capacità di inoltrarsi nel cuore della natura riuscendo a focalizzare, senza minimo sforzo, ogni cosa attorno a sé. Io non avevo mai creduto a simili nefandezze. Eppure, forse, avrei dovuto farlo. Perché quel mostro, senza saperlo, ero proprio io.
Rinchiuso dentro quattro mura di quella cella maleodorante da ben undici anni, ho convissuto ogni mese, ogni giorno, ogni ora con il peso della mia colpa. Mi lacerava le viscere, mi sconquassava dall'interno, a volte rendendomi persino difficoltoso respirare. La notte sognavo i suoi occhi imploranti pietà, il suo sguardo spaurito e rassegnato al destino che le attendeva. Sognavo le ultime lacrime attraversare il suo volto mentre le mie mani stringevano con aitante forza l'impugnatura della pistola, cercando di mantenere saldamente il mirino puntato contro l'anziana signora di quel negozio. Ma oltre il passamontagna, che copriva quasi interamente il mio volto, i miei occhi cinerei erano fissi nei suoi e, nonostante l'indice fosse in posizione di fuoco, era come atrofizzato, incapace di premere quel grilletto. La sirena di una volante della polizia all'esterno mi risvegliò dall'intorpidimento momentaneo e, per un grosso scherzo del destino, anche la mia mano sembrava aver ripreso il suo normale funzionamento. Sparai un solo colpo, che finì dritto in mezzo agli occhi della donna, privandola della sua anima e della sua vita. Rimasi paralizzato sul posto, ai piedi del corpo esanime e insanguinato della vecchia signora. In quel momento la maschera che indossavo non mi era servita solo a occultare la mia identità, ma anche a celare il terrore, il disgusto per ciò che avevo fatto.
《Che cazzo fai?! Dobbiamo andarcene subito!》
Ricordo la voce intimidatoria del mio compagno che aveva notato il mio smarrimento, ma io non avevo la forza di scollarmi da lì, o anche solo di deglutire.
《Fanculo》aveva poi esordito con colorita espressione e voce rabbiosa, che io avvertivo solo come un flebile lamento, dandosela a gambe e lasciandomi solo.
Su quel lettino sudicio e cigolante mi svegliavo spesso con le convulsioni, madito di sudore e frastornato. A poco servivano le sedute settimanali con lo psichiatra; la mia mente era sempre lì, ancorata a quell'attimo prima della morte.
Perché in quel frangente non avevo solo privato una persona della sua vita, ma anche fatto a pezzi la mia anima in mille frammenti.
Mosso da chissà quale pensiero contorto, tormentato dal desiderio costante della droga, che di giorno in giorno alimentava il mio cuore appassito e arido come il deserto sotto il sole cocente.
Ho passato anni a chiedermi cosa avrei potuto fare per eliminare quel pressante macigno che mi gravava sui pensieri. La verità è che non c'era redenzione nel mio gesto; avrei potuto pregare, prostrarmi ai piedi di un Dio immaginario e implorare perdono ma a nulla sarebbe servito.
Perché la verità è che io non mi ero mai perdonato per la mia colpa, non lo avrei mai fatto.
E non è nemmeno vero che il tempo aiuta a dimenticare, a rimarginare le ferite. Il passare degli anni aveva solo aggravato i miei terrori, fatto riemergere le mie debolezze e mi aveva reso un uomo ancor più vigliacco.
Trascorrevo le giornate a scrivere. Scrivevo per tentare di rimanere aggrappato alla realtà, e restare lucido evitando di perdere la ragione.
Annotavo, sotto consiglio degli psicologi, i miei stati d'animo, i timori, i pensieri positivi e negativi, al fine di "scacciare i miei mostri interiori".
Scrivevo lettere a mia moglie, alla mia famiglia. Sapere di avere ancora loro al mio fianco era l'unica cosa che mi tratteneva dall' impazzire del tutto.
Ma si sa, il passare del tempo cambia le cose. Le visite erano diminuite, tutti mi avevano abbandonato. Ma io non portavo rancore, perché sapevo che meritavo il loro risentimento.
Mi isolavo dal resto dei miei compagni di carcere, nonostante alcuni di loro tentassero di rendermi partecipe alle attività di gruppo che regolarmente ci obbligavano a esercitare.
Odiavo quell'uomo e ciò che mi aveva portato a fare, odiavo me stesso per ciò che ero arrivato a fare.
Il mio riflesso allo specchio mutava senza che me ne rendessi conto, la barbetta sistemata si era trasformata in un boschetto incolto a causa della mia non curanza. Le rughe d'espressione al fianco degli occhi aumentavano di spessore e profondità così come quelle ai lati della bocca, segnando l'età che avanzava inesorabile fino a decretare la mia fine.
La mia fiorente chioma castana era cosparsa da lucenti capelli perlacei come fili d'erba bagnati dalla rugiada del freddo mattino.
Spesso mi capitava di ripensare alla mia esistenza, a domandarmi come sarebbe stata se quel giorno avessi agito diversamente, se avesse prevalso la compassione e la misericordia alla viscerale smania di ottenere quel danaro sporco del sangue di una vittima.
Il motivo per cui avevo deciso di sparare era incomprensibile anche a me, almeno fino a oggi, in cui tutto mi è chiaro come acqua cristallina.
Probabilmente a causa della luce del sole che riscalda il mio viso e acceca il mio sguardo assuefatto all'oscurità e alla cupidigia di quel tugurio.
O forse al cielo terso che, fuori da quel maledetto stabile, appare ai miei sensibili occhi come una distesa pullulante di luminosità, espressione di libertà, di ossigeno puro per un'anima lercia come la mia.
Inspiro a pieni polmoni la brezza piacevole d'Aprile, mentre faccio ingordigia di ogni bellezza la mia vista riesca a cogliere. Dalle chiome degli alberi sempreverdi smosse dal vento, al profumo del pane croccante appena sfornato proveniente dal panificio adiacente, al rombo delle automobili che attraversano la strada a velocità moderata, creando file di traffico come fosse orario di punta.
Ogni cosa mi sembra una nuova scoperta, come se la vedessi per la prima volta, e tentassi di memorizzarla tra i ricordi come fosse l'ultima.
Mi scortano fino all'uscita dell'imponente cancello ferroso, lasciandomi finalmente libero e in balìa di me stesso e di ciò che resta della mia vita.
Ma oggi tutto mi è più chiaro; limpido come la vastità di questa volta celeste che, imponente, si staglia su di me, come il canto delle allodole alle prime luci dell'alba e il mare impetuoso durante una tempesta. Chiaro come il bagliore di un fulmine che squarcia il cielo oscurato da nubi pregne di pioggia.
Non c'è più posto in questo mondo per un misero uomo come me. Ho scontato la mia pena, ma la mia anima non accenna a volersi liberare da quella macchia di putridume, di impurità che l'ha corrotta irrimediabilmente.
Probabilmente brucerò all'inferno, eppure nulla potrebbe mai essere peggio del senso di oppressione che questa vita mi ha arrecato fino a oggi, costretto a vivere sopportando una colpa che so di avere e che continuerà a tormentarmi in eterno.
Un passo dietro l'altro, in un lento vagare ma dritto verso la meta.
Consapevole che ormai non mi resti più nulla a cui ancorarmi per riprendere in mano la mia esistenza, cammino tra la confusione del Martedì mattina, in cui il solito mercato settimanale riunisce donne, uomini, famiglie, sotto il sole cocente di mezzogiorno.
Passo davanti alle bancarelle di vestiti e di alimenti, facendomi spazio tra la folla totalmente ignara di avere tra loro un ex carcerato, un assassino.
Attraverso la strada e mi ritrovo davanti alla Chiesetta del paese, e mi domando se valga la pena farmi sollevare dai miei peccati dal momento che io stesso non riesco a redimermi dalle mie vili azioni. Decido di proseguire accantonando presto il pensiero, giungendo in prossimità del ponte da cui si estende un paesaggio stimolante e impressionante per chi, per anni, l'unico ambiente che si è trovato a osservare sia una stanza formata da mura cementate e scorticate.
Mi appoggio alla ringhiera, sporgendomi per ammirare al meglio ciò che i miei occhi bramano con tanto ardore. In lontananza scorgo le vette delle montagne ricoperte dai pochi sprazzi di neve rimasti, rigogliose colline verdi e boschi in piena vita.
La primavera è rinascita, e chissà se non lo sia anche per me.
Mi arrampico sul ciglione del ponte, sedendomi sull'estremità, mantenendo le mani appoggiate lungo il cornicione e le gambe a penzoloni nel vuoto.
Le automobili sfrecciano alle mie spalle e qualcuno strombazza violentemente con il clackson, ma non me ne curo. Chiudo gli occhi e respiro per l'ultima volta l'aria di questa Terra. Sorrido e per un attimo la vita mi passa davanti come una vecchia amica per un ultimo saluto. Ruota in tondo vorticosamente come lancette impazzite di un orologio, riportando alla memoria ricordi lontani e nostalgici. Ma ormai il suo tempo è giunto al termine e si allontana lentamente senza più voltarsi indietro. La morte cammina a pari passo con i suoi piedi e ciò che brama di più è prenderla a braccetto e andarsene con lei.
I miei silenzi assordanti vengono spezzati dalle urla chiassose e allarmate della gente che mi intimano di scendere e non fare "pazzie", ma non presto attenzione a nessuno. Ciò di cui non sono a conoscenza è che la vera pazzia per me sarebbe abbandonare il mio intento. Il mio sguardo, ora assorto, è rivolto esclusivamente alla vista dinnanzi ai miei occhi. Occhi che risplendono come un caleidoscopio di immagini colorate, un'esplosione di luci incandescenti che afferrano la mia anima riportandola in superficie.
Un'anima che per troppo tempo è rimasta incatenata nel buio e privata del suo splendore, infettata dal marcio di un cuore e una mente malata. Ma adesso è pronta a riappropriarsi della sua integrità, della sua libertà.
Uno slancio e precipito nel vuoto; un vuoto rassicurante, pacifico, che sa di vita vera.
Un vuoto che non è più così nero.
Forse, adesso, potrei anche perdonarmi.
•••
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Seguitemi se vi va❤
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