1. Benvenuta a Blackcross

Ci vogliono tre ore e cinque minuti per volare da Roma a Edimburgo su un aereo di una qualsiasi compagnia low cost.

Trentatré minuti per spostarsi dall'aeroporto alla stazione di Edimburgo Waverly.

Un'ora e trentadue minuti per percorrere la distanza tra Edimburgo e New Lanark, la cittadina più importante del Lanarkshire, e altri venti di bus per raggiungere l'entrata di Blackcross.

Contando anche i momenti di attesa, istante in più istante in meno, impiegherei cinque ore e trenta minuti per tornarmene a casa.

E Dio solo sa se non rifarei questo viaggio tutto daccapo, nella direzione opposta, solo per rivedere un angolo del cielo azzurro della mia città eterna.

«Mi era mancato tutto questo».

Con la coda dell'occhio osservo mio padre socchiudere gli occhi e inspirare a pieni polmoni l'aria umida e fredda della Scozia.

«Papà, tu vieni da Londra, lì c'è più inquinamento che a Roma» gli ricordo a mezza voce, cercando in tutti i modi di smettere di mordicchiarmi le labbra.

Lo faccio sempre quando sono nervosa.

In risposta, lui sorride e si volta verso di me, con gli occhi azzurri che risplendono di gioia.

«Darling, sono british. Mi sentirei a casa anche in mezzo alla brughiera più scura e sperduta. L'importante è respirare l'aria della mia terra».

William Hathaway.

Inglese da generazioni intere.

Professore di letteratura per vocazione.

Emigrato in Italia per amore di mia madre. Rimastoci per amore mio.

Mio padre è sempre stato un brillante esempio di patriottismo inglese, probabilmente per colpa dei miei nonni, che hanno fatto di tutto per renderlo british fino alla punta dei capelli.

Il nostro cognome è lo stesso della donna che sposò il celebre William Shakespeare, quindi il suo nome di battesimo non poteva che essere un tributo a lui.

Come se non bastasse, mio nonno ha fatto di tutto per convincerlo a seguire le sue orme e a diventare un rinomato professore di letteratura, come da tradizione in famiglia. E, ovviamente, mio padre ha deciso di diventare non solo un grandissimo docente, ma anche uno dei più importanti esperti di William Shakespeare dell'intero continente.

Nomen omen.

Un nome, un destino.

Così direbbe mia madre.

«Allora? Non hai ancora detto una parola. Cosa ne pensi?» mi incalza dopo qualche istante, indicando con un gesto della mano l'ampia facciata della Blackcross University.

Sospiro appena e sposto la mia attenzione sull'architettura gotica e imponente, spettrale e alquanto minacciosa dell'edificio principale. La struttura è realizzata seguendo i canoni dello stile baronale scozzese, che imita quello degli antichi castelli medievali; l'ho letto sulla home page del sito dell'università prima di venire qui. Il corpo principale è immenso e contiene il rettorato, le aule più grandi e tutti gli uffici amministrativi, nonché la mensa e la biblioteca. Le altre classi e i dormitori sono sparsi in tutto il campus, adornato da un enorme parco verdeggiante.

È un posto stupendo e una parte di me lo sta ammirando con sguardo adorante, pensando che finalmente sto vivendo il mio sogno di frequentare un prestigioso e oscuro college inglese, ma c'è comunque qualcosa che non va. Nel profondo del mio petto c'è una morsa che si sta stringendo sempre di più e a cui non so dare un nome.

Quando sei mesi fa, appena prima di laurearmi, feci domanda per entrare nel Master di Scrittura Creativa della Blackcross University, ero elettrizzata. Si tratta di uno dei corsi migliori dell'intero continente, celebre per aver accolto e istruito scrittori rinomati e bestselleristi da capogiro, nonché per il suo tasso d'accettazione vergognosamente basso. Studiare qui è stato il mio sogno sin dai tempi del liceo, quando ne sentii parlare per la prima volta da un amico di mio padre, aspirante scrittore che aveva tentato di entrarci per ben tre volte.

Ho passato notti insonni e giornate infinite nell'attesa di un'e-mail che decretasse il mio destino.

E quando, finalmente, è arrivata, tutta la mia vita è finita sottosopra.

«È esattamente come la immaginavo» dico, cercando di sorridere.

Lo sguardo di mio padre indugia per qualche istante sul mio viso, e sono certa che abbia colto al volo il mio bluff, ma preferisce fare finta di nulla e afferrare la maniglia del mio enorme trolley nero.

«Direi che è ora di raggiungere il tuo dormitorio. Sai già dove si trova?».

Annuisco appena e sblocco il telefono, ricontrollando le informazioni che mi sono state fornite dalla segreteria prima di arrivare qui.

«Si chiama Harris House, qui dice che si trova subito dopo la White Hall, l'edificio della facoltà di filosofia» mormoro, scandagliando velocemente il testo dell'e-mail «Dobbiamo superare il corpo principale, continuare dritti fino alla White Hall e poi girare a destra».

«Let's go, then» mi incalza mio padre, precedendomi di qualche passo, carico di valige come un povero mulo da soma.

Con un sospiro, mi incammino dietro di lui.

Man mano che ci addentriamo nel campus, cominciamo a vedere sempre più studenti; alcuni sono nel mezzo del trasferimento proprio come me, e sono alle prese con scatoloni e bagagli di ogni tipo, altri passeggiano tranquillamente in compagnia dei propri amici, godendosi gli ultimi attimi di pace prima della cerimonia di inizio anno che si terrà domani.

Sembrano tutti così emozionati e felici, sicuri che questo sia il loro posto nel mondo al momento; le mie spalle curve e la mia espressione impassibile devono sembrare così in contrasto con le loro risate e i loro sguardi ardenti.

Arrivati alla fine del viale che taglia a metà il parco del campus, ci troviamo davanti alla candida struttura della White Hall, sulle scalinate della quale alcuni studenti leggono o si fumano una sigaretta.

Dopodiché, svoltiamo a destra e percorriamo un viottolo più stretto e ombroso, affiancato da due file gemelle di alberi, fino ad arrivare di fronte a un edificio più piccolo, con le imposte dipinte di verde brillante. Una targa appesa a destra della porta principale, lasciata aperta per facilitare il passaggio degli studenti, recita "Harris House, costruita in onore di Charles Harris, noto poeta e scrittore che studiò qui tra il 1832 e il 1836".

Una volta entrati, veniamo subito accolti da rumori e voci di ogni tipo, che si rincorrono tra un piano e l'altro, scivolando lungo i corridoi e giù per il corrimano della scala in legno. Il piano terra ospita un grande ambiente, composto da numerosi divani e poltrone, un imponente caminetto spento, tavoli per lo studio e librerie straripanti che coprono quasi ogni parete. I mobili e i pavimenti sono realizzati in legno scuro, mentre le tappezzerie sono tutte sui toni del verde. Una porta con su scritto "Cucina" si trova a sinistra della scala, mentre a destra c'è un'altra lasciata aperta.

«Aspetta un attimo qui» dico a mio padre, abbandonando le valigie accanto a lui, che è fin troppo incuriosito dal mobilio per badare a me.

Mi dirigo verso la stanza di destra, un piccolo ufficio ben illuminato, e busso leggermente sulla porta. La donna seduta alla scrivania alza la testa dalla tastiera del suo computer e mi rivolge un ampio sorriso.

«Prego, cara. Entra pure» mi dice, incitandomi con un gesto della mano.

Mi sforzo di ricambiare il suo sorriso e mi avvicino alla sua scrivania.

«Io sono Mary Collins, la responsabile di Harris House. E tu sei?».

«Laverna Violet Hathaway, studentessa del Master in Scrittura Creativa» rispondo, sistemandomi una ciocca di capelli dietro all'orecchio.

«La nostra studentessa italiana!» esclama, e mi stupisco del suo entusiasmo «È un piacere averti qui con noi a Harris House. Molti degli altri studenti che vivono qui frequentano il tuo stesso master, compresa la tua vicina di stanza Jacqueline».

Annuisco e sorrido, non sapendo come altro comportarmi; essendo per metà italiana, sono abituata ad avere a che fare con persone rumorose ed espansive, ma non mi aspettavo di trovarne anche qui in Scozia.

«La tua stanza è la numero nove, si trova al secondo piano. La cucina è in comune per tutti gli studenti della casa, se vuoi mangiare qui e non in mensa, il cibo nelle credenze e in frigorifero deve essere sempre etichettato con il tuo nome. Il bagno, invece, è privato e si trova in camera. Per qualsiasi dubbio o richiesta, mi trovi qui tutti i giorni dalle otto alle sei, dal lunedì al venerdì. Nelle ore notturne e nei weekend c'è il mio sostituto, Lucas» elenca velocemente, tano che faccio quasi fatica a seguirla «Ora mi devi solo firmare un paio di scartoffie e poi sei libera di andare».

Dopo aver fatto quanto richiestomi e aver scambiato qualche altra breve battuta con Mrs. Collins, torno da mio padre e insieme iniziamo a salire le scale.

«Oh Lord, sono troppo vecchio per queste cose» ansima lui non appena arriviamo sul pianerottolo del secondo piano. Annuisco, trovandomi pienamente d'accordo; non sono mai stata una persona sportiva e portare tutti questi bagagli su per due piani di scale non è stata una passeggiata di salute.

«Mrs. Collins ha detto che...» comincio a dire con la voce rotta dal fiatone, prima che un urlo spezzi il silenzio.

Spalanco gli occhi, colta di sorpresa, e abbandono subito le valigie a terra. Mi volto verso mio padre, anche lui con un'espressione interrogativa in volto, ma ancora fin troppo provato per dire alcunché; con un gesto della mano mi indica il corridoio, come a incitarmi ad andare a dare un'occhiata.

Non me lo faccio ripetere due volte.

Svolto velocemente l'angolo, per poi dirigermi nella direzione dalla quale mi sembra sia venuto il suono, trovando una porta aperta.

«È tutto ok?» domando trafelata, afferrando saldamente la cornice dell'uscio.

La camera all'interno è un'esplosione di oggetti e colori, vestiti lanciati alla rinfusa e libri ammucchiati in ogni angolo. C'è una ragazza dai tratti asiatici in piedi sul letto, con un volume stretto tra le mani e un'espressione estasiata sul volto.

«È successo qualcosa?» insisto, capendo che non mi ha sentito.

La sconosciuta si volta lentamene verso di me e mi guarda come se fossi un'aliena appena scesa da una nave spaziale.

«La scena della sauna. Finalmente sono arrivata alla scena della sauna!» esclama con un sorriso estasiato, indicando il libro che ha davanti con l'indice.

Per la prima volta da quando ho messo piede su suolo inglese, un vero sorriso mi incurva le labbra e quasi non scoppio a ridere.

«Corrupt, vero? È il primo volume della Devil's Night di Penelope Douglas» dico, piegandomi leggermente per cercare di vedere la copertina.

L'espressione sul viso della ragazza muta, fino a quando la sua bocca non forma una "o" perfetta.

«Non ci posso credere!» esclama saltando giù dal letto, per poi raggiungermi sull'uscio con il libro stretto al petto «La conosci?».

Stavolta non riesco a trattenermi e mi lascio sfuggire uno sbuffo divertito, mentre annuisco e mi sposto i capelli da davanti al viso.

«Non l'ho ancora letta, ma è nella mia tbr» spiego, osservando la copertina e riconoscendola nelle sue tinte scure e sanguigne.

«Te la presto io! Tutto pur di avere qualcuno con cui parlarne» esclama la ragazza, subito prima di porgermi la mano «Io sono Jacqueline, comunque, frequenterò il Master in Scrittura Creativa».

Ricordando le parole di Mrs. Collins, sorrido e gliela stringo.

«Io sono Laverna, ma puoi chiamarmi Lav. Sono la tua vicina di stanza, anche io frequenterò il Master in Scrittura Creativa».

Cogliendomi nuovamente di sorpresa, Jacqueline squittisce e mi abbraccia, saltellando felice nel frattempo. Gli angoli della copertina del libro mi si imprimono dolorosamente nella carne, ma sono troppo stupita per reagire.

«Una nuova amica che legge i dark romance, non potevo chiedere di meglio» dice, per poi liberarmi finalmente dalla sua poderosa stretta.

«In realtà leggo prevalentemente fantasy, ma non disdegno qualche libro un po' più... hot, ogni tanto» le spiego.

«Già ti adoro e ci conosciamo solo da due minuti».

Ridiamo entrambe di quest'affermazione, e nel frattempo mi prendo un attimo per osservarla meglio. I suoi capelli sono neri come l'ebano, adornati da due ciocche bianche che le incorniciano il viso ovale, su cui spiccano i grandi occhi marroni dal taglio allungato.

È bellissima.

«Cos'è successo?».

Voltandomi, trovo mio padre ad attendermi nel mezzo del corridoio; sta cercando di trascinarsi dietro anche le valigie che stavo portando io, ma senza successo. Corro subito in suo soccorso e gli faccio segno di lasciare tutto a terra.

«Papà, lei è Jacqueline, la mia vicina di stanza e futura compagna di studi» gli spiego, indicando la ragazza ancora in piedi sull'uscio.

«È un piacere conoscerti, Jacqueline, spero che tu e mia figlia potrete prendervi cura l'una dell'altra» dice, dopo avermi rivolto uno sguardo emozionato.

«Lo faremo di certo, non si preoccupi» lo rassicura Jacqueline, e per un istante la sua aria da lettrice sfegatata di romanzi per adulti svanisce nel nulla.

Dopo aver chiacchierato ancora per qualche minuto, ci congediamo, ma non prima che Jacqueline mi abbia fatto cenno che riparleremo presto di Corrupt mentre mio padre è distratto. Sorrido e scuoto il capo, sicura che con lei accanto sarà difficile annoiarsi.

E forse anche dormire, se urla così ogni volta che incappa in una scena del genere.

La mia camera è alla fine del corridoio, a un paio di metri da quella di Jacqueline.

Usando la chiave fornitami da Mrs. Collins, apro la porta, rivelando un ambiente piccolo ma accogliente. Ci sono un letto, un comodino, una scrivania con la sua sedia, l'armadio e un paio di scaffali appesi al muro; quest'ultimi non conterranno mai tutti i libri che mi sono portata e che acquisterò durante il mio soggiorno qui, ma sono pur sempre meglio di nulla. Il pavimento è coperto dallo stesso parquet scuro del piano inferiore e le pareti sono tinteggiate di verde, che ormai ho capito essere il colore distintivo di Harris House. Accanto alla grande scrivania, affacciata su una coppia di finestre che danno sul giardino del campus, c'è la porta del bagno.

«Mi sembra molto carina, no?» dice mio padre entrando e posando un borsone sulla sedia.

«Sì, mi piace» dico, sentendo l'entusiasmo accumulato grazie all'incontro con Jacqueline scemare velocemente.

«Forza, allora, mettiamo un po' in ordine e poi ce ne andiamo a cena al pub» esclama papà, spalancando le ante dell'armadio.

Sorrido mestamente e annuisco, preparandomi a disfare le valigie, seppur sia l'ultima cosa che vorrei fare; riempire questa stanza delle mie cose, renderla mia a tutti gli effetti, significa che non potrò più tornare indietro, che la mia presenza qui è reale e definitiva.

E sento l'aria mancarmi al solo pensiero.

«È un bel posto, you'll feel at home here» mi rassicura mio padre nel suo tipico mix di italiano e inglese.

«Speriamo» mormoro, mentre sul fondo del mio petto qualcosa inizia a stritolarmi l'anima «Speriamo».

Quella che trovate qui è una demo. Trovate il libro per intero con il titolo "Redamancy - Scrivi la tua storia" in preorder su Amazon (link in bio) e ufficialmente in libreria a partire dal 9 aprile 🫶🏻☕️

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