Il potere delle parole - Approfondimento

«La parola è potere: parla per persuadere, per convertire, o per costringere

(Ralph Waldo Emerson)


Dialogo tra un novizio e il suo padre spirituale

Esempio 1 - Padre, posso fumare mentre prego?

Esempio 2 - Padre, posso pregare mentre fumo?

Inizia così questa riflessione, a metà tra il serio e il campato per aria - che io ho sempre almeno metà cervello nelle nuvole - e che ha origine dalla visione di un video Youtube dedicato alla manipolazione a cura del Dott. Roberto Ruga, psicologo e psicoterapeuta.

Il tema non è casuale.

Lo vediamo ogni giorno nei titoli di giornali, che puntano alla semplificazione sensazionale di una notizia, e che, se fai la fatica di andare a leggerti l'articolo, scopri avere la stessa rilevanza di una patata bollita rispetto al testo messo per esteso.

Le parole hanno potere perchè veicolano idee, concetti, pensieri ed è folle presupporre che la scelta dell'uno o dell'altro temine non abbia rilevanza, soprattutto quando questi sono organizzati in un testo narrativo di qualsivolgia tipo.

Partiamo, come sempre, dalla definizione.

"La parola è un'unità linguistica costituita da un insieme di suoni rappresentabili graficamente che, articolati e organizzati secondo le leggi di una determinata lingua, rimandano a un significato." (cit. Dizionario Hoepli)

Già abbiamo un punto di partenza ben delineato. La parola rimanda a un significato. Utilizzare le parole con consapevolezza, posizionarle in spazi definiti precisi, piuttosto che in altri comunque possibili, cambia il contenuto del messaggio, cambia l'accento e la prospettiva. E quindi influenza la comprensione, come se se ne definisse la traiettoria.

Riprendiamo gli esempi in apertura del novizio con il padre spirituale. Le azioni che si vogliono combinare nella frase sono le stesse. Parlare e fumare. Concorderete con me che le due frasi hanno un sottotesto e una probabile reazione da parte del superiore diametralmente opposti. Tutto per l'ordine, e quindi per la gerarchia, secondo la quale vengono presentate.

Il primo esempio sembra offrire la visione di uno scavezzacollo che profana la preghiera con l'atto di fumare, mentre il secondo fa la figura del santo che anche mentre fuma pensa a elevarsi e pregare. Eppure se leviamo tutto il contorno di interpretazione e lasciamo parlare solo i fatti, entrambi vogliono fare due azioni contemporaneamente, fumare e pregare, pregare e fumare, e cambiando l'ordine degli addendi, il risultato non cambia. Ciò che cambia nelle due frasi è la percezione dell'importanza delle azioni, che chi parla fa arrivare a chi ascolta.

Non entreremo del merito di logos e verbum, della parola che crea e tutti gli annessi e connessi (non sono né filosofa, né teologa), se non per una piccola provocazione che lascio nella vostra testa a sedimentare.

Un madre dice al figlio Stupido, ogni singolo giorno della sua vita. Pensate davvero che questa parola non avrà degli effetti sulla vita di entrambi? In psicologia si chiama profezia che si autoadempie, quel meccanismo per cui una previsione si realizza per il solo fatto di essere stata espressa. Predizione ed evento sono in un rapporto circolare, secondo il quale la predizione genera l'evento e l'evento verifica la predizione. No, non sono neanche psicologa, ma vedete che tutto nasce da una parola, pronunciata costantemente, che genera in chi la pronuncia una certa aspettativa, e in chi la riceve la messa in atto di comportamenti che finiranno per renderla veritiera.

La parola è più di un mero significato tuttavia. Vediamo qui sotto due aspetti fondamentali da tenere in considerazione quando giochiamo con le parole, ossia la denotazione e la connotazione.

La denotazione è il significato "primario" di una parola, quello generalmente condiviso, che rimanda con precisione a un referente, cioè denota, indica. La connotazione rappresenta, invece, uno o più significati aggiuntivi, di solito traslati, ricchi di allusioni e implicazioni di tipo emotivo.

Sull'interazione tra questi due aspetti si possono costruire di mondi. E si può anche partire per la tangente.

Vediamo un esempio. Sapete che io vivo di esempi, e torno di nuovo in apertura di approfondimento. I titoli di giornali e le loro semplificazioni, sono un esempio chiaro e lampante di come l'utilizzo delle parole veicoli un certo significato, che non è mai neutrale, perchè la parola non è neutra, nè assoluta; poiché la parola (come l'uomo) non è un'isola, ma è inserita in un contesto in cui viene messa in relazione con altre sue pari. La scelta delle parole messe nel titolo di un articolo, quindi, imbocca una determinata interpretazione nella testa del lettore (o almeno nella maggior parte, perchè nelle interpretazioni, come in molte altre cose, non esiste la taglia unica).

Prendiamo questo articolo sull'attrice di Hunger Games (che ha anche vinto un Oscar, ma chissene - resterà sempre quella di Hunger Games ;))

https://www.leggo.it/spettacoli/televisione/jennifer_lawrence_hunger_games_maratona_tivu-5212298.html

Il titolo recita, cito testualmente:

"Jennifer Lawrence, l'eroina di Hunger Games: «Grazie a Katniss ho smesso di chiedere permesso»"

E io, che sono vecchia e ho imparato a leggere tutto prima di farmici un'idea in testa, scorro l'articolo e trovo queste domande e risposte:

"Che rapporto ha con Katniss oggi?
«La considero un modello, una fonte d'ispirazione, una ragazza forte ma piena di compassione. Quanto vorrei essere coraggiosa, come lei!»
"

e poi:

"Lei si sente libera oggi?
«All'inizio della carriera ho patito molto il giudizio altrui e mi sentivo in colpa anche quando mi consideravano sexy. Ora ho smesso di chiedere scusa e permesso».
"

Lo vedete dov'è il problema, anzi i problemi?

Nel titolo c'è una citazione virgolettata che al lettore fa legittimamente pensare che Jennifer Lawrence abbia aperto la sua boccuccia di rosa per pronunciare le parole contenute dalle virgolette. E invece no. Leggi e scopri che lei dice che rispetto all'inizio della sua carriera ora si sente più libera - sunto dei sunti, vizioso ovviamente. Da nessuna parte è riportata la frase del titolo, da nessuna parte l'attrice riconosce il personaggio di Hunger Games come il punto di svolta della sua carriera. Forse l'ha detto al giornalista in confidenza - ammesso che i due si siano mai incontrati realmente, ma questa è un'altra storia; forse il giornalista ha estrapolato la frase da un video Youtube sul red carpet di qualche evento a caso; forse è un'interpretazione - nemmeno troppo campata per aria - di quanto detto in linea di massima nell'intervista. Forse, forse, forse. Resta il fatto, certo, che quella frase nell'articolo non c'è. Eppure viene sbattuta lì a caratteri spessi in cima alla pagina come se fosse la Verità con la V maiuscola. Ed è probabile e anche verosimile, nel suo significato, ma siccome non c'è prova scritta che lei l'abbia detto - almeno non nell'articolo che lo millanta, resta una supposizione. E questo è un esempio soft di semplificazione per sommi capi. Soft perchè che non cambia la vita alla gente.

Ma quante volte si trovano nel titolo parole che semplificano in maniera viziosa quanto detto in un articolo o pronunciato da una persona? Uno spintone diventa tafferuglio, un condizionale diventa una presa di posizione, un forse diventa un certamente e via dicendo. Non siamo proprio nell'ambito del clickbait o della fake news, si tratta di qualcosa di più subdolo. Si tratta di fornire al lettore un'interpretazione premasticata dei fatti, ovvero qualcosa che già contiene intrinsecamente un giudizio netto che prende la pancia e che farà pendere l'opinione da una parte o dall'altra. La pratica è vecchia come il mondo, la pubblicità ci campa da decenni, inutile scandalizzarsi. Ma è da stupidi ignorarlo.

Essere totalmente imparziali del resto è molto difficile. L'uomo vive di giudizi e pregiudizi, altrimenti ogni volta dovrebbe riformulare da capo millemila ragionamenti anche per affrontare la più irrilevante delle questioni. Ma qui si tratta di qualcosa di diverso.

Qui si parte da un fatto, si crea un riassunto che ha basi verosomiglianti al fatto, con, inserito sottocoperta, l'intrinseco giudizio che si intende veicolare. Come se si camminasse su una linea retta, un piede davanti all'altro, poi arriva qualcuno che da quella linea retta ne traccia un'altra e ti dice, cammina sopra a questa di linea, invece che a quell'altra. E la seconda linea assomiglia molto alla prima, ma con la piccola differnza che "pende" da uno dei due lati. Eppure è anch'essa una linea retta, non è un poligono, che male c'è? Sembra l'originale, ma non lo è. Non nell'essenza.

Una frase come "Sono maturata molto rispetto a quando ho iniziato" sarebbe stata una parafrasi molto ben più fedele alle parole pronunciate, e anche molto meno incisiva. "Katniss mi ha aiutato a smettere di chiedere permesso", suona molto, molto meglio. Ma non è vero. Solo verosimile.

La differenza sta tutta lì.

Si, va beh, due maroni. E quindi? Cosa centra con il mio triangolo amoroso ambientato alla High School Superesclusiva Pinco Panco di Vattelapesca Hills?

Ci arrivo.

Le parole hanno potere. Potere di creare qualcosa che non c'era prima. Possono falsare la nostra interpretazione della realtà, e lo fanno con il nostro consenso, se non ci prendiamo la briga di approfondire i fatti, qualora possibile. E creano immagini nella testa. Immagini che non c'erano e ora sì. E le immagini danno vita a emozioni che non sapevamo di poter sentire.

Per questo ampliare la propria competenza linguistica è un dovere di chi scrive, per non affidarsi al pressapochismo di termini triti e ritriti che sono stati scarnificati da qualsiasi contenuto di valore. Quando scegliamo una parola abusata, triviale, sentita mille mila volte, invece di un termine più centrato, anche se meno comune, e con molte più sfaccettature, non stiamo usando a pieno il potenziale che le parole hanno intrinsecamente a disposizione. Come fare i 30 Km/h con una Ferrari, capite?

Ucciso e sventrato veicolano due immagini ben diverse, e creeranno emozioni diverse nella testa del lettore. Per questo dico spesso, non sciorniate aggettivi come se fossero zucchero a velo sul pandoro. Usatene uno, ma che sia quello giusto. Sfruttate il colore delle parole, le loro sfumature di significato, il potere evocativo e quando potete, usate la strada più breve, quella che va dritta al punto.

Altra provocazione, che oggi sono in forma.

Era bella. Bella secondo i canoni di chi? Cosa vuol dire bella per me? Cosa vuol dire bella per un'asiatico, o un africano, o un abitante del Borneo Orientale? A parte i canoni estetici palesemente diversi, l'aggettivo bella è concettualmente vuoto. Fa riferimento a un probabile e indefinito apprezzamento da parte di altri (sulla base di non si sa cosa) e non dice nulla, assolutamente nulla del soggetto in questione.

I suoi capelli avevano una sfumatura ramata così particolare che più di una persona si voltava a guardarla quando passeggiava per la strada. Non ho mai detto che questo soggetto è bello/a. In realtà potrebbe anche essere un ciospo. Ma qualcosa di lui/lei suscita una reazione, qualcosa di tangibile, che in quanto tale ha effetto anche su chi legge.

Corse da lei e si precipitò da lei veicolano l'urgenza in maniera diversa. Cosa vi serve? Il primo o il secondo? Dovete sapere che la vostra scelta creerà determinate aspettative. Una persona non può precipitarsi da un'altra e poi mettersi a parlare del tempo. Non ha senso concettualmente. Se si precipita, create un'aspettativa di urgenza, che andrà soddisfatta. Altrimenti fate camminare il personaggio e poi lasciate che parli del nulla. Almeno il movimento è coerente.

Calma, però. Questo non significa che adesso vi fumate un dizionario dalla a alla z e piazzate a destra e a manca termini altisonanti e superfighi perchè fa tanto figo e ci sta sempre bene.

Non è proprio così.

Nell'economia di un testo c'è una gerarchia, di scene, di personaggi, di eventi. Tutto va gestito in maniera armonica ed equilibrata. L'uso dell'aggettivo bello/a non è sbagliato per principio. Tutto dipende da cosa volete dire e da come volete dirlo.

Non è certo un caso se i riti, le formule magiche, e le procedure per concludere o sciogliere un contratto e via dicendo si basano sulla sequenza di determinate parole messe esattamente dove stanno.

Ma ve la immaginate la formula del matrimonio che dice, "Io coso accolgo te cosa per fare insieme delle cose finchè va e poi boh." Che valore potrebbe avere una frase del genere? Non ci capisce chi, cosa e perchè e come. Non si capisce nulla. Il potere delle parole è svilito all'ennesima potenza dalla vaghezza dei termini. Chi si sentirebbe impegnato da una formula indefinita? Non molti credo.

Invece le parole hanno il potere di definire un'idea. Sono pennelli che dipingono le forme e se le mescolate senza saperle, frantumate denotazione e connotazione senza un minimo di riguardo o di metodo e finite come quelli che nella smania di mescolare troppi colori finiscono per ottenere solo il marrone. No, non credo sia un caso.

La parola va conosciuta e va rispettata. I dizionari sono grandi amici in questo senso. Perché dire qualcosa è anche non dire qualcos'altro. E all'interno di una storia questo fa tutta la differenza del mondo.

Ricordatevi che il Re dei Nazgûl faceva il fico pavoneggiandosi che nessun uomo vivente avrebbe potuto ucciderlo.

Lo sappiamo tutti com'è andata a finire.












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