CAPITOLO 52
"Malgrado passi le giornate da solo
E passa anche il silenzio
Ma lo sento parlare
Vorrei morire."
La vita di Aron Nowak era sempre stata un alternarsi costante di alti, bassi e cose da gestire ad ogni costo. Era legato al potere e al controllo quasi più di Klaus, solo che non lo dava a vedere. Sapeva come fosse la vita di chi non riusciva ad arrivare dove era arrivato lui, quanto poco ci volesse a perdere tutto.
Insicuro, era la parola più giusta per descrivere l'animo del polacco. L'instabilità emotiva che si portava dietro era inevitabilmente legata al terrore del suo passato, lo rincorreva sempre, anche se sapeva che Klaus non l'avrebbe mai abbandonato, anche se sua madre c'era anche troppo, nella sua vita. Lo tormentava ancora la fame, i crampi allo stomaco e la paura di non sapere che fine avrebbe fatto nella vita. Poi si svegliava e non ricordava neppure che cosa ci facesse, in mezzo a delle coperte calde. Pensava che la realtà fosse il sogno e non sapeva piú cosa fosse vero o creato dalla sua testa.
Ci metteva sempre un po' prima di ricordarsi chi fosse diventato, e a volte, anche quando realizzava che fossero tutte allucinazioni, si metteva seduto e si domandava se davvero si meritasse tutto quello, si chiedeva come ci fosse arrivato. A volte pensava che non si sarebbe mai liberato degli incubi del suo passato, del terrore di essere come suo padre, quel mostro di cui non sapeva niente, ma che aveva osato distruggere sua madre.
Si svegliò, anche quella notte, chiedendosi dove diavolo fosse, credendo d'essere altrove. Da quando era tornato in Polonia i suoi incubi erano decisamente peggiorati, avere sempre nelle orecchie i suoni della sua infanzia, gli odori, era difficile. Dormiva poco e cercava sempre dei modi per distrarsi. La distrazione di quella sera si chiamava Dana, e dormiva di fianco a lui da qualche ora. Aron non riusciva ad addormentarsi, odiava avere qualcuno accanto a se, nel letto. Però gli dispiaceva anche mandarla via, di notte, da sola. Si tirò lentamente via dalle coperte calde e camminò nel buio fino allo studio. In questa casa aveva deciso di dedicargli proprio una stanza separata, era la sua preferita. Tutta bianca, il tavolo era di cristallo e le sedie trasparenti. Il divano era scomodissimi, fatto per non passarci troppo tempo, per fare in modo che nessuno si sentisse troppo a suo agio.
Aprí il computer e si piegò in avanti con il busto, piegò i gomiti sul tavolo e controllò le mail, scorreva con lo sguardo sullo schermo, con attenzione, come se sperasse di trovarci qualcosa in particolare. C'erano solo alcune comunicazioni di Klaus che aveva già letto, altre di sua madre e altre sui dipendenti dell'azienda che aveva rilevato. Quelle le aveva lasciate tra le non aperte, per quando non aveva niente da fare. Di solito si trattava di lamentele inutili, osservazioni sui turni, sulle paghe, sulle vacanze. Lui lasciava fare ai dirigenti che aveva scelto, sentiva che aveva bisogno di loro per guadagnarsi la fiducia dei dipendenti. Tuttavia, era sempre dietro l'angolo a controllarli. Non si fidava.
Scorrendo indietro, si rese conto che la casella della posta in arrivo era come la sua vita: vuota, dedita al lavoro, sempre in equilibrio, sempre in bilico. Eppure lui in quell'angoscia ci stava benissimo, era l'emozione piú confortevole che conoscesse. Chiuse gli occhi e li massaggiò con le dita per un momento. Poi si mise a scrivere tutte le bozze che avrebbe mandato il giorno dopo. Guardò l'ora, erano quasi le quattro di notte.
Poteva permettersi di inviare solo quelle destinate a Klaus, non si vergognava di mostrargli i suoi strani orari, non temeva le sue domande.
« Ciao Klaus,
Qui è tutto calmo, di notte ancora di piú. »
Era una cosa che credeva di amare di New York, il fatto che quando calava il buio prendesse vita, e invece stando lí si era accorto che forse il silenzio non era cosí male. Stava pensando di prendersi un cane, un lupo.
« A presto,
Aaron. »
A volte gli sembrava di ricordare il momento in cui Vanessa gli aveva puntato una pistola alla testa, ma poi si convinceva che fossero solo fantasie, che avesse sentito la storia di quella notte cosí tante volte da essersela immaginata. La verità era che una parte di lui, non accettava che potesse essere successo sul serio.
E non solo d'esser quasi morto, vero Nowak? Non c'entrava neppure la storia con Cassandra, il tradimento della fiducia del suo migliore amico, le bugie. C'era dell'altro, il suo cervello non accettava che potesse aver provato anche solo semplicemente il desiderio di avere qualcuno vicino a se nel letto, anche la mattina quando si svegliava. Non voleba ammettere l'amore esisteva davvero, e fosse tanto forte da sconvolgergli la vita per sempre.
Era sbagliato che Cassandra avesse deciso di restare, sbagliato che fosse disposta a fargli scudo con il suo corpo. Alla fine l'amore non era altro che distruzione.
Continuò a scrivere altre cose, a leggere contratti d'affitto di alcuni magazzini da usare come deposito per della merce, uffici. Andò avanti fin quando non gli bruciarono gli occhi e dalla finestra dietro di lui non arrivarono le prime luci dell'alba. Si stiracchiò sulla sedia allungando le braccia verso l'alto, poi sorrise. Non sapeva se sarebbe riuscito a dormire.
« Ti svegli sempre cosí presto? »
Vide prima le sue gambe lunghe muoversi verso di lui, indossava solo una camicia e si domandò quanto avesse frugato tra le sue cose, prima di trovarla.
« Si, solitamente si. » Bloccò lo schermo del computer e le rivolse completamente la sua attenzione. Era sexy, seducente. I capelli lunghi le cadevano morbidi sulle spalle, e lo sguardo stanco in realtà sembrava solo piú malizioso.
« E poi torni a letto? » Gli si piazzò davanti, e gli mise una mano sulla spalla. Lo sguardo di Aron cadde sul suo seno, ricordò di come lo avesse assaporato la notte prima e poi sulle gambe lunghe, e calde. L'attirò su di lui stringendo una mano da dietro il ginocchio, senza darle il tempo di dire altro. « Solitamente no, ma posso fare un'eccezione. »
Dana ridacchiò, si spostò i capelli da un lato e cadde su di lui, intrappolandolo tra le cosce magre. Era un bel modo per non pensare, tuffarsi tra le braccia di qualche sconosciuta di cui non gli importava niente. Non era cattivo, ma non avrebbe sofferto se le avesse spezzato il cuore. Per questo decise di rimanerci insieme anche la mattina.
Tornarono a letto, a rotolarsi tra le lenzuola come se si piacessero davvero. Aron si vantava di sapere come fare a controllare il suo cervello, di riuscire ad illuderlo che tutto andasse bene anche quando andava contro se stesso.
E lo stava facendo proprio in quel momento, mentre baciava il corpo nudo di Dana e lo stringeva contro il petto. Tanto da far credere anche a lei, che ci fosse dell'altro oltre al bisogno di non esser solo.
Mentre si muoveva dentro di lei le mordeva il petto, famelico come sapeva essere solo lui, era un modo estremamente piacevole di sfogare la rabbia che si portava dentro senza far soffrire gli altri. Le strinse una coscia tanto forte che per un momento si chiese se non le avesse fatto male, ma lei non se ne accorse, mentre gemeva contorcendosi sotto di lui. Aveva il corpo bollente imperlato di sudore, Aron si allungó per succhiarle il collo e leccarglielo languidamente mentre Dana si dimenava sotto di lui.
Lei era al settimo cielo, ma a lui non importava, voleva solo svuotare la testa. Lei provó ad abbracciarlo ma lui la prese per i polsi e la incatenó sul materasso, lei gli sorrise, eccitata mentre il polacco aumentava l'intensità dei suoi movimenti e ringhiava contro la sua pelle morbida. Uscì fuori appena in tempo prima di venire, non gli importava se lei fosse soddisfatta, anche se immaginava di si.
Non si dissero niente, lei andó verso la doccia.
Si era lavata, rivestita e sistemata, si vedeva che era indecisa se parlare o meno. Ma comunque trovò il coraggio. Si volse sull'uscio della porta e gli rivolse un'occhiata stranamente dolce.
« Mi chiami, vero? »
Aron le sorrise. « Certo. » Che bugiardo. O forse no. Era un'ottima compagnia, alla fine. E lui era solo per davvero, lí. Doveva stare solo attento a non farla entrare troppo nella sua vita.
Chiuse la porta non appena lei volse le spalle, avrebbe fatto bene a dormire, adesso che era finalmente da solo. Si trascinò sul letto, inspirò profondamente con la testa sul cuscino e provò un profondo fastidio, nel sentire l'odore di quella donna. Cosí lo afferrò e lo tirò via, ma l'odore era sempre presente, nell'aria, sulle coperte e se lo sentiva perfino addosso. Non sapeva perchè lo odiasse tanto, ma gli fece scoppiare una strana rabbia nel petto che cacciò via il sonno. Si alzò e tirò via le lenzuola dal materasso, le buttò a terra e poi le cambiò con altre pulite. Fare i lavori domestici gli metteva una strana calma, aveva le sue piccole ossessioni su cui si concentrava: gli angoli perfetti, le estremità del copripiumino che dovevano combaciare ad ogni costo.
Quando finí andò a farsi una doccia.
Si stropicciò gli occhi lentamente, riusciva sempre a rilassarsi mentre l'acqua calda gli scorreva addosso. Era una specie di gentilezza che aveva imparato a concedersi. Si passò le dita sul viso e poi nei capelli folti, il vetro trasparente era appannato e provò un leggero fastidio quando pensò agli aloni che ci avrebbero lasciato sopra le goccioline, una volta asciutte.
Scosse il capo e cercò di concentrarsi su altro, nelle narici adesso aveva solo il profumo del bagnoschiuma. Inspirò profondamente e poi buttó fuori l'aria consumata. Chiuse l'acqua e andó a cercare un accappatoio pulito, se lo legó debolmente in vita dalla cintura umida e poi cercó di rimettere un po' di ordine nel cassetto del bagno in cui aveva rovistato. Dietro, dietro, sul fondo vide un'asciugamano blu non troppo vecchia, rimase a guardarla senza farsi troppe domande. Non c'era un motivo particolare per cui avesse attirato la sua attenzione, tranne il colore diverso da tutti gli altri. Di solito prediligeva il bianco, il nero o il grigio. Quel blu era strano. L'aveva sicuramente comprata nel periodo che aceva rimosso dalla testa.
Senza esitare ancora, allungó una mano e la tiró fuori. Si accorse che era un accappatoio, doveva averlo messo lì la signora che andava a pulirgli casa e a fargli il bucato ogni tanto. Lo aprì davanti a sè, era piccolino, lui non ci sarebbe mai entrato lì dentro. Aggrottó le sopracciglia, forse era di Marina, anche se gli parve improbabile.
Poi lo vide, chiaro nella mente, il viso di Cassandra corrucciato e infastidito dal freddo mentre si chiudeva in quell'accappatoio azzurro, comprato apposta per lei. Gli venne da sorridere, aveva ricordato un'altra cosa, e adesso sapeva perchè lei gli facesse quell'effetto. Lo strinse tra le mani e se lo portó vicino al viso, quasi sperasse di sentire ancora il suo odore. E invece, sapeva solo di detersivo e ammorbidente, di Cassandra non c'era traccia, da nessuna parte, ne' nei discorsi di Klaus, ne' nella sua testa, e neppure in quella nuova casa.
L'altra, peró, non aveva avuto il coraggio di lasciarla. Non lo sapeva nessuno, ma era ancora sua, l'aveva comprata e avrebbe anche pagato il triplo della somma se fosse stato necessario a non perdere quel piccolo appartamento.
Non riusciva proprio a separasene. Lasciarla andare era impensabile, gli metteva paura solo immaginarlo.
Gli si aprì una voragine nello stomaco, odiava quella sensazione, lo faceva sentire debole e impotente. Quando non aveva qualcosa con cui distrarsi, a volte si sentiva perfino triste.
Abbandonó l'accappatoio e si tiró su il cappuccio, la solitudine era noiosa.
Era contento di rivedere Klaus, anche se sapeva che lui non amasse lasciare Lidia a casa da sola.
Gli aveva trovato un alloggio che sicuramente non soddisfaceva i suoi standard, ma era il meglio che si potesse trovare da quelle parti. E non era troppo lontano dalla sua nuova casa. Non sarebbe stata una cattiva idea quella di creare un quartiere più ricco, adesso che giravano tutto quei soldi. Tuttavia, forse avrebbe attirato troppo l'attenzione.
Controlló l'ora, aveva ancora un po' di tempo prima che Klaus arrivasse. Si rivestì ma non volle mettersi la camicia, se si fosse addormentato poi si sarebbe stropicciata tutta. Si sedette sul letto pulito e provó a chiudere gli occhi, crolló quasi subito, in realtà.
Ci volle poco prima che i suoi sogni iniziassero a divenire chiari, veri. Eccolo lì, il viso di Cassandra, era così bella quando gli sorrideva che gli toglieva il fiato.
Era sotto la finestra del dormitorio della sua università, lei si stava affacciando per cacciarlo, perchè lì era vietato portare ospiti, figuriamoci ragazzi. Ma lui non sentiva ragioni, e si arrampicava su un muro di un edificio che nella realtà non aveva mai visto per raggiungerla.
Quando finalmente la ebbe davanti, oltre il davanzale della finestra, lei si avvicinó a lui e restó zitta.
Aron si sporse in avanti, per entrare nella stanza vuota. Intorno a loro non c'era niente, nessun mobile, nessuna decorazione, la stanza era completamente spoglia.
« Non riesco a starti lontano, non riesco a dormire, a mangiare, neppure a concentrarmi sul lavoro da quando non posso vederti più ogni giorno. »
« Neanche io... » Gli occhi di Cassandra erano tristi, lo guardavano come si osserva una cosa che sta morendo. « Non voglio che tu vada via. »
Ma Aron non voleva andare via, perchè avrebbe dovuto? Si sporse in avanti, ma ogni passo che faceva sembrava allontanarlo sempre di più da lei, che restava ferma, immobile ad aspettarlo.
« Non voglio andare via, non mi lasciare, te lo giuro, non voglio andare via! » Il cuore gli batteva forte, dove stava andando? Perchè non poteva seguirla? Lo assalì un senso di angoscia che lasció presto il posto ai sensi di colpa, verso di lei, verso se stesso. « Ho bisogno di te. » Cercava di urlare ma dalla bocca non gli usciva niente, ogni volta che ci provava la gola gli bruciava e si annebbiava la vista. Le labbra si riempirono di sangue, non riusciva più a respirare e comunque la cercava, come se solo lei potesse dargli sollievo. Si portó le mani sul petto, aveva il foro di un proiettile che gli attraversava il torace e gli macchiava la camicia di rosso. Perchè lo stava abbandonando?
Anche respirare, era diventato faticoso. Ma non smetteva di gridare, fino a consumarsi la gola.
Si sveglió urlando, spalancó gli occhi mentre gridava un "no!" Contro il vuoto della stanza. Restó immobile qualche secondo, quell'incubo era diverso dai soliti. Non c'era la Polonia, il freddo, istintivamente andó a toccarsi il petto, abbassó lo sguardo per controllare che non stesse sanguinando. Scosse il capo, sembrava tutto così vero che ancora sentiva il sapore del sangue sulla lingua. A volte credeva di essere impazzito.
Non avrebbe mai accettato di provare qualcosa per Cassandra, lui non era fatto per stare con nessuno, e lei meritava di meglio. Non l'avrebbe mai resa felice, lui e tutti i suoi mostri.
Era più stanco di prima.
Cercó il cellulare per controllare l'ora, se Klaus fosse arrivato. Una chiamata persa, cazzo.
Lo richiamó.
« Aron? »
« Scusa, mi ero addormentato, stanotte non mi sono riposato abbastanza. »
« Spero che ne sia valsa la pena. »
Sogghignó compiaciuto. « Direi di sì. » Storse un momento il naso. Non era molto convinto, il suo scopo era distrarsi, ma alla fine aveva comunque sognato la sorellina di Klaus. « Lidia come sta? »
« Sta bene, è tranquilla, senza Cassandra nei paraggi tutti sono più tranquilli. » Si mise a ridere, Aron si chiese se non fosse una frecciatina.
« Non la vedo da tantissimo tempo, la pancia è cresciuta tanto? »
« Si, si vede abbastanza, non ti ho mandato delle foto? »
« No, peró se ce l'hai me le fai vedere. »
« Certo che le ho, ormai sono una di quelle persone noiose che parlano solo di figli e famiglia. »
« Non lo so, secondo me ti sei rammollito solo perchè io sono lontano. » Sorrise, poi si alzó per recuperare la camicia. « Dove sei? »
« Sotto casa tua. »
« Non passi in albergo? »
« Non ho quasi niente, mi fermo solo una notte. »
Gli dispiaceva, ma sapeva fosse giusto così. « Ti apro. » Chiuse la chiamata e s'incamminó verso la porta principale, gli aprì il cancelletto di ferro e poi uscì per andargli incontro. Sorrise, non pensava che un giorno Klaus gli sarebbe mancato tanto. Era triste, a volte, non avere nessuno di cui si fidava vicino. Ma l'aveva scelto lui.
Allargó le braccia e lo strinse forte, ovviamente Klaus ricambió subito. Aveva con sè solamente un borsone. « Mi sei mancato. »
« Anche tu, qui è tutto troppo silenzioso. » Aron azó le spalle, poi gli fece cenno di seguiro lungo il vialetto fino in casa.
« Finalmente hai cambiato casa. »
« Si, alla fine volevo stare comodo. » Lo fece entrare per primo, per fortuna aveva rifatto il letto e non aveva mangiato, era tutto in ordine.
« Non male, sempre colori molto allegri, tu, eh. »
L'appartamento era tutto sui toni del bianco, nero e grigio. Erano colori morti ma a lui piacevano così, semplici, lineari, tranquilli. I colori accesi gli facevano venire mal di testa.
« Mettiti dove vuoi, questa è anche casa tua. »
Klaus lasció la valigia vicino ad uno dei divanetti in salotto, mentre osservava l'ambiente nuovo in cui si trovava.
Era molto simile alla casa che Nowak aveva a New York. « Allora, di cosa volevi parlarmi? »
« Vieni. » Gli indicó di sedersi in cucina con un cenno del capo. « Posso offrirti qualcosa? »
Cercó da bere in qualche scaffale, avvea ancora il suo whisky preferito. « Sono le dieci di mattina. »
Gli venne da ridere. « Sei tu quello incinta o tua moglie? » Tiró fuori la bottiglia e anche due bicchieri. Versó da bere e poi ne porse uno a Klaus, mentre stringeva il suo nella lano destra.
Il biondo era seduto, afferró delicatamente il bicchiere in cristallo e se lo rigiró tra le dita. « Questa è la tua colazione? »
Alzó le spalle, sorseggió un po' del liquido ambrato. « A volte. »
Klaus lo squadró dalla testa ai piedi, non sapeva cosa dirgli. Era raro che non trovasse parole per comunicargli quello che pensava, di solito ragionavano con la stessa testa. « Dai, spara. »
Aron aveva testato fin troppo la sua pazienza. Si mise seduto davanti a lui, e puntó lo sguardo dritto nel suo. « Si sono accorti che c'è un bel giro di soldi, la gente inizia a farsi domande e qualcuno addirittura pensa di potersi mettere contro di noi. »
« In che senso? »
« Ho sentito due idioti parlare, volevano accordarsi per fregare della merce e rivenderla non so a chi, ma voglio scoprirlo. »
Klaus si decise finalmente a bere un sorso di whisky. « Li hai licenziati? »
« Ovviamente no, voglio capire quanti sono e da chi vanno. »
« Ti servono più uomini? »
« Per ora no, non vorrei si allarmassero. »
« Come farai se ne avrai bisogno? »
Sembrava preoccupato. Non era abituato a pensarlo da solo, gli dava un certo fastidio.
« Me ne accorgeró prima, voglio solo indagare un po'. »
« Devi trovare qualcuno di cui ti fidi. »
« Ma io non mi fido di nessuno. »
« Devi, un amico, tua sorella... »
« Mia sorella resta fuori da questa cosa, te l'ho detto. »
« E suo marito? »
Aron scosse il capo. « Non voglio. »
Klaus si mise più comodo sulla sedia, prese un'altro sorso dal suo bicchiere, come se gli servisse per darsi coraggio. « Non puoi sfidare il mondo da solo. »
La loro forza era la famiglia, Aron lo sapeva benissimo. Solo che lui non riusciva neppure ad immaginarsi nella vita che stava facendo ora Klaus. La sua famiglia era Polly, il suo migliore amico. Sua sorella.
Lo guardó quasi rassegnato. « Vuoi organizzarmi un matrimonio combinato? »
« Trova degli alleati, Aron. Da solo sei debole. »
Il tono di voce era serio, adesso. Aveva ragione. Il lavoro era una cosa seria.
« I Murray che fine hanno fatto? »
« Che importa. »
« Potrei allearmi con loro. »
« Ma sei pazzo? » Per poco non si strozzó con il liquore. « Quelli non aspettano altro che un passo falso— »
« Magari no, quella era la mentalità dei nostri genitori. Vanessa non ha sparato, Ricky era amico di Cassandra, nessuno voleva litigare. Ci scommetto che l'ha obbligato il padre. »
« E purtroppo loro ce l'hanno ancora, un padre. »
« Uno solo, sono tre fratelli. »
« Tu pensi che se mio padre fosse stato vivo avrei potuto decidere qualcosa? »
« Penso che avresti fatto comunque le stesse scelte. »
Klaus si portó le mani davanti al viso. « Perchè sei così convinto di questa cosa. »
Aron alzó le spalle, non lo sapeva. Non si fidava degli altri, ma sapeva che la voglia di sbranarsi a vicenda apparteneva ai vecchi, le seconde generazioni non avevano dovuto combattere con nessuno per assicurarsi la loro fetta di torta, non ne avevano voglia. « Sesto senso. »
« Che vorresti fare? Cosa gli daresti in cambio del loro aiuto? Li faresti espandere anche qui, in Europa? Non dovevamo esserci solo noi?! » Il tono di voce era visibilmente irritato, lui e le sue maledette manie di grandezza. Quindi si riduceva tutto a quello? Voleva tutto per se, che tutto fosse suo, di Aron, dei Van Der Meer.
« Non ci saremo mai solo noi, qui. »
« Pur di non dire niente a tua sorella sei disposto a chiamare quei pezzi di merda! »
« Perchè dovrei dirle la verità? Perchè dovrei renderla infelice? » Si alteró, finalmente, anche lui. Battè i palmi delle mani sul tavolo.
« Vuoi che faccia parte della famiglia? Vuoi che sia contenta di vederci tutti o le hai ritagliato una personalità apposta per lei, una vita che non esiste?! »
« Io voglio proteggerla! » Alzó la voce, era sincero.
« Da chi, da te stesso? Deve volerti brne per come sei, lavoro annesso. Hai l'opportunità di ricreare quello che avevamo a New York qui, con la tua cazzo di famiglia! » Klaus era sempre stato troppo bravo a capirlo, a scavare nella sua testa per trovare i punti più deboli, più esposti.
« Non voglio essere la causa della loro infelicità, hanno una cazzo di vita normale. »
« Sei tu che ti sei infilato in questo casino, l'hai cercata, l'hai trovata... adesso devi farti vedere per come sei. » Puntó il dito sul tavolo. Per la prima volta Aron si trovó a pensare che Klaus non potesse capirlo. Era assurdo.
« Che cazzo c'entra la mia famiglia? Sono qui perchè volevamo espanderci nell'Est Europa, a prescindere da mia sorella, non dire cazzate. »
« Non mi va di venirti a recuperare quando starai di merda. »
« Hai solo paura di perdere. »
« Perdere? »
« Che qui mi facciano il culo, così non sei più il più forte di tutti. » Ci fu un lungo momento in cui entrambi restarono in silenzio. Forse aveva esagerato.
« Sei impazzito?
Credi che non mi importi di te? » Klaus alzó le sopracciglia. Era così strano, discutere con lui. Sembravano su due pianeti diversi, forse lo erano. Tra la perdita di memoria e la lontananza Aron si era costruito il suo mondo fatto di certezze sbagliate e solitudine. Forse non gli faceva così bene starsene sempre per conto proprio.
« No, non penso questo. »
« Sei mio fratello, Aron. Sei la mia famiglia. »
« E tu sei la mia. »
Anche se adesso eea cambiato tutto, anche se ora non erano più solo loro due. Forse dovevano adattarsi a delle nuove vite. Si guardarono e fu come se si fossero abbracciati.
« Posso dire a Polina di venire più spesso qui? Non mi piace che tu stia sempre solo. »
« Non farla preoccupare. »
Gli venne da ridere. « È impossibile, lo sai. »
« Comunque ti vedo più sereno, si vede che sei felice. » Provó una specie di nostalgia che non aveva mai conosciuto prima. Vedendosi così poco era più facile accorgersi del tempo che passava.
Klaus sorrise, aveva ragione. «Si, sono felice. »
Non sapeva se fosse una clsa giusta da chiedergli, neppure se fosse il momento adatto. « Visto che sei qui, vuoi conoscere mia sorella? Tanto le ho parlato di te, sa chi sei. »
« Sì? » Davvero era così sorpreso?
Aron alzó le spalle. « Certo. »
« Certo che mi va, non vedo l'ora. Avrei voluto chiedertelo ma non so, preferivo lo dicessi tu, è un argomento delicato. »
Aron annuì. Klaus capiva sempre tutto, capiva anche le cose che non sapeva. « Mi conosci ancora bene. »
« Facciamo a cena? Così mi do una ripulita. »
« Sento se puó, comunque si, le chiedo se c'è per cena. »
« Finalmente, la conosco solo dai tuoi racconti e da quelli di mia sorella. » Che peró non combaciavano, sicuramente. Tutto il periodo che aveva passato in Polonia con Cassandra, Aron l'aveva rimosso. Abbassó il capo e Klaus parve capire. Quindi cambió argomento. « È davvero identica a te? »
« Siamo gemelli, sì. Ha proprio la mia stessa faccia, ma più dolce. » Gli venne da sorridere, le voleva bene. Era strano sentirsi legato in quel modo a qualcuno. « È molto dolce, e ha una figlia piccola, mi sembra abbia cinque o sei anni, qualcosa del genere. »
« Si, lo so. Sei anche zio. Anche se lo saresti stato comunque. Guarda che quando nasce ti voglio a New York. »
« E secondo te mi perdo un evento simile? A parte che sarai troppo in ansia, non potrei mai lasciarti da solo, sei pericoloso. » Gli venne da ridere, ma aveva ragione. Klaus allontanó il bicchiere.
« Dai, chiamala ora. »
Aron annuì come se fosse un ordine e cercó il numero di sua sorella tra i contatti. Forse stava lavorando. Squilló per un po' e poi gli rispose.
« Aron? »
« Czy pracujesz? »
*Stai lavorando?
« Tak, ale mozesz rozmawiać, nikogo tam nie ma. »
*Si ma puoi parlare, non c'è nessuno.
« Czy jesteś zajęty tego wieczoru? Jest tu mój przyjaciel Klaus, chialbym go wam przedstawić. »
*Stasera hai da fare? C'è qui il mio amico Klaus, vorrei presentartelo.
« Bylby bratem Cassandra, prawda? »
*Sarebbe il fratello di Cassandra, giusto?
Aron esitó un momento, gli faceva ancora strano che conoscessero così bene lei e così poco Klaus. « Tak, dokladnie. »
*Sì, esatto.
Alla fine accettó, si salutarono velocemente perchè era entrato un cliente da Marina.
« Non mi abitueró mai a sentirti parlare in un'altra lingua, anche se è la tua. »
Aron rise, erano poche le cose che Klaus non conosceva di lui, la sua lingua madre era una di quelle. Aveva sempre cercato di farla venir fuori il meno possibile, una reazione assurda dovuta all'odio che Polina gli aveva sempre trasmesso per quel posto, la Polonia, Lublino. « Alla fine ti abituerai, ci si abitua a tutto. »
Klaus abbassó il capo. « A volte penso che se tu avessi fatto un figlio sarebbe stato fantastico. »
« Ormai ragioni come un padre. »
« Avremmo avuto due figli che sarebbero cresciuti insieme, dai, non dirmi che l'idea non ti piace. »
« Io non sarei capace di crescere niente. »
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