CAPITOLO 36
Tell the wolves I'm home
Cassandra stava studiando, era rimasta da sola nella vastissima biblioteca dell'università. Rimaneva aperta tutta la notte, e poi -comunque- lei e Noah erano riusciti a sgraffignare le chiavi per rifugiarsi tra gli scaffali pieni di libri quando volessero.
Era seduta scomposta, davanti agli occhi teneva aperto il libro di diritto internazionale e puntata sulle pagine morbide v'era la lampada verde che illuminava anche il resto del tavolone di legno su cui si allungava.
Aveva la testa poggiata su una mano, il telefono sempre vicino ma silenzioso, era immersa nella lettura del paragrafo sulle organizzazioni internazionali, cercava di memorizzarne i nomi e le varie composizioni di una serie di organi che avrebbero dovuto farne parte. Si era anche fatta degli schemi, ma ogni volta che li rileggeva era peggio di prima. Teneva il gomito puntato sul legno scuro, era stanchissima. « L'Unione Europea... è un'organizzazione... » Aggrottò le sopracciglia. « Sovra—sovranazionale? E che cazzo significa... » Bisbigliò come se quel posto fosse ancora pieno, iniziò a frugare tra gli appunti e si spostò i capelli dietro le orecchie. Sbuffò, le bruciavano gli occhi ma lo studio era l'unica cosa che la distraeva.
Controllò l'ora sul telefono, era l'una passata. Era tardissimo. Il giorno dopo si sarebbe dovuta svegliare troppo presto per rimanere ancora lì.
Si spinse indietro sulla sedia e chiuse il tomo pesante. Spostò i capelli da un lato e, prima di alzarsi, tirò giù le maniche del maglioncino di cachemire leggermente rialzate sopra i polsi. Spense la luce, improvvisamente tutto divenne buio e a lei parve di scomparire, fu una sensazione meravigliosa. Mosse le ballerine nere fino alla porta principale e stette ben attenta a richiuderla, prima di andarsene. I corridoi vuoti facevano quasi impressione. Usò la torcia del cellulare per orientarsi, anche se ormai quel posto lo conosceva a memoria. Si fermò ad osservare il ritratto di un certo Bjorn Gulliver, forse era un vecchio preside. Sicuramente qualcuno glie lo aveva spiegato il primo anno, ma se n'era scordata. Alzò le spalle e proseguì per la sua strada, nel totale silenzio. Lì non aveva paura, si sentiva protetta dalle spesse mura di pietra della residenza storica del campus. Era lontana dall'America, dalla Polonia.
Da tutto.
Riprese a camminare verso la sua stanza, quando fu vicina alla porta, cercò le chiavi nella tasca del cardigan; era così stanca che le scivolarono a terra. Si piegò subito per raccoglierle e fu lì che la vide: una strana ombra spostarsi nel buio. Gli puntò subito la torcia contro ma ormai era tardi. Chissà che fine aveva fatto, così silenziosa.
Stringeva forte i libri, e tremava. Improvvisamente si era dimenticata di tutte le lezioni di Dominic. Aveva due scelte, rincorrerla o chiudersi in stanza.
Sono una cazzo di Van Der Meer, non scappo.
E poi sicuramente non è nulla.
Serrò i denti e si volse indietro, con il cuore in gola; cercò per tutto il corridoio, ma non trovò nessuno. Forse stava impazzendo.
Comunque, quando tornò in camera era più tranquilla.
Si mise davanti alla porta e tirò nuovamente fuori le chiavi. Stava per girarle nella serratura, quando si sentì afferrare da dietro, fece per urlare ma una mano calda le tappò subito la bocca.
Pensò che l'avrebbe ammazzata. « Pensavi davvero che non ti avremmo trovata, qui? » Il tono di voce era fastidioso, non lo riconobbe ma l'accento era sicuramente americano.
Lasciò andare i libri. Doveva trovare un modo per scappare, prima che le puntasse un'arma addosso.
Con un movimento veloce si liberò della presa sul collo, lui prima provò a stringerla più forte, poi perse l'equilibrio e Cass ne approfittò per tirargli una ginocchiata sul petto. Si chinò verso il basso ma non bastò, lui si avventò sulla giovane che se lo sentì pesante addosso, le mancava il respiro. Le arrivò un pugno sul viso, tanto forte da farla cadere. Ebbe paura di morire. Sentiva il sangue tra i denti e la voglia di ammazzare quel tizio bruciarle nel petto. Si rialzò e schivò un altro destro, poi gli prese il braccio e glie lo piegò dietro la schiena, non riusciva a romperlo, tanto era forte. Decise di tirargli una ginocchiata, forte.
Cadde a terra, ma non aveva perso i sensi. Gli tirò un altro calcio e poi gli afferrò i capelli, voleva vederlo in faccia. « Pensavi fosse così facile? Torna dai tuoi amici pezzi di merda e digli di mandarne uno meglio per farmi fuori. » Lo stese, con una gomitata sulla nuca. Poi lo trascinò fino in biblioteca, e chiuse a chiave in modo che non desse fastidio a nessuno per un po'.
Tornò in stanza, la prima cosa che fece furono i bagagli. Non si cambiò neppure e neanche controllò che voli ci fossero, se il naso fosse sporco di sangue o se avesse delle medicine da portarsi dietro. Non poteva più stare lì da sola e non era il momento di far spostare uomini a Londra. Doveva fare come aveva detto Klaus, tornare a casa o andare da Aron. La seconda opzione era certamente più facile, veloce; però forse era suo fratello, che aveva più bisogno di lei.
Non le andava di rivedere il polacco. E poi... era lì che si trovavano anche Ricky e Vanessa? Forse posso trovare un modo per salvarli, a me daranno retta. Doveva, a tutti i costi. La sua compagna di stanza non si accorse di niente, fu meglio così. A Cass tremavano le mani, sentiva il terreno sgretolarsi sotto i piedi e il fiato mancarle.
Doveva andare in Polonia.
Ma non da quello stronzo di Aron, c'erano altri mille uomini di Klaus, lì. La cosa più difficile non fu scappare dal dormitorio, ma trovare un taxi che la portasse fino all'aeroporto.
E sperare fino all'ultimo che nessuno la seguisse.
Non pensò neppure di mandargli un messaggio, tanto era agitata. Si era salvata per un pelo. Ma non aveva pianto, non se l'era ancora concesso. Aveva con sé solamente la Birkin nera e un paio di cambi, lo spazzolino; come scarpe le ballerine di Prada solite e un cappotto neanche troppo pesante. Nessuna pistola, in aereo non erano permesse.
Si pentì di non essersi presa una sciarpa, almeno in aeroporto. Dopo un paio di minuti di silenzio, dopo che l'aereo decollò, si lasciò andare. Si rilassò. E pianse. Odiava dover lasciare Londra, i suoi studi, i suoi amici, la sua vita di sempre per colpa di qualcuno che aveva deciso di voler far fuori quello che restava della sua famiglia.
E odiava dover chiedere aiuto a Nowak.
Si addormentò lentamente, e si svegliò di colpo.
Aprì gli occhi che non ricordava più dove stesse andando, poi si riprese. Afferrò la borsa dai manici e si stropicciò gli occhi. Che ore erano?
Scese dall'aereo.
L'aeroporto era quasi vuoto. Nella fretta aveva preso il primo volo che aveva trovato, senza guardare bene la città. Voleva solo scappare. Adesso doveva raggiungere in treno il posto dove Aron aveva deciso di stabilirsi. Lo conosceva? Che palle. Che casino. Avrebbe fatto meglio a cercare un Taxi. Uscì pensando di trovarne migliaia, invece non c'era nulla, fuori.
Che diavolo di posto era?
Lesse le indicazioni per la stazione, doveva chiamare per forza l'ex migliore amico di Klaus, non sapeva dove raggiungerlo. Cercò il cellulare nella borsa. Il vento le gelava le gambe da sotto la gonna, troppo corta e i collant troppo leggeri per passare una notte per strada.
Cercò il suo numero. « Che succede? » Le parve di rivivere la notte a Parigi. Le aveva risposto con lo stesso tono allarmato.
« Sono a... Lotnisko. » Non si era mai sentita così sperduta.
« Stai scherzando. »
« No, se mi dici dove sei ti raggiungo. »
« Hai preso un aereo senza sapere dove andare? »
« Era un'emergenza. Mi dici per dove cazzo devo prendere il treno? »
Forse era la prima volta che prendeva un mezzo pubblico. Non si accorse del silenzio che aveva provocato con quella mezza spiegazione. Aron era preoccupato. « Lublino, ci vogliono due ore, circa. »
« Neanche tanto. »
« Ti faccio arrivare qualcuno, so a chi chiedere. »
« Come faccio a sapere che li mandi tu, quando arrivano? »
« Perchè ti chiameranno Anita. »
Non voleva riattaccare il telefono, ma doveva. L'ultima volta che l'aveva chiamata in quel modo si trovavano al maneggio, e non sapevano ancora quanto le loro vite sarebbero diventate incasinate. Era proprio una stupida.
« Okay, ci sentiamo. » Si fece incredibilmente seria, sapeva che ad Aron non piacesse quando faceva la fredda, ma peggio per lui. Sembrava essere tornata a quando aveva sedici anni.
Era totalmente fuori luogo, per fortuna non c'era nessuno. Aspettò almeno venti minuti, ferma, sull'attenti. Poi vide arrivare una Jeep nera, scese un tizio e camminò verso di lei. Pregò con tutto il cuore che fosse l'amico di Aron.
« Anita, giusto? » Si, si, si! Annuì e prese la borsa che aveva temporaneamente posato a terra, all'uomo sembrò strano non avesse altro. Guidava un'Audi di cui Cass non conosceva proprio il modello. Non doveva essere troppo nuovo, sembrava invece un po' vecchio.
Si sentì al sicuro, quando posò la testa sul finestrino oscurato dell'auto. Nella fretta si era scordata di avvisare la sua coinquilina, raccogliere il libro da terra. Chissà cosa si sarebbe inventato, il suo aggressore, la mattina dopo. La strada divenne una striscia offuscata oltre il vetro, era troppo buio per capire sove stessero andando.
Quando arrivarono se ne accorse perché la macchina frenò bruscamente. Non si era soffermata molto sul paesaggio, più che altro si era concentrata su cosa diavolo raccontare a Klaus, a Vanessa... avrebbe avuto modo di parlarci?
Quando alzó lo sguardo per osservare che posto fosse Lublino, ripensò a come l'avesse descritta Aron qualche mese prima, mentre parlavano al telefono. Chiuse gli occhi. Le era mancato. Lo sapeva anche prima di arrivare a Londra, che sarebbe stato impossibile non sentire la sua mancanza, e adesso, lo strano calore che provava nel petto glie lo confermava. Il conducente scese per primo, e le aprì la porta. Sembrava quasi impacciato, si vede che non era tanto abituato a quei convenevoli. « Grazie. »
Gli sorrise, lui annuì. Forse non l'aveva capita, lei non capiva niente della loro lingua. « Devo entrare qui? » Indicò un palazzo non troppo alto, e sicuramente fatiscente. Le sembrò assurdo che Aron stesse lì, lui che odiava tanto il freddo. Quello non rispose, le disse qualcosa che non comprese.
« Non ti capisce. » Aron. « E comunque si, devi entrare qui dentro. » Stava scendendo gli scalini davanti alla porta principale. Quanto cazzo era bello. Dovette ricordarsi di respirare, mentre lo osservava camminare, e si godeva quello spettacolo senza vergogna. Non le interessava più cosa pensasse di lei.
Ordinò all'autista di andarsene, e lo pagò. Funzionava così, lì? Non ne aveva uno fisso? Cassandra teneva la borsa stretta dal manico, tra le dita. Lo stupore iniziale era già svanito, adesso lo sguardo s'era indurito, non lo aspettò mentre camminava oltre la porta. Davanti a lei una rampa di scale portava ai piani superiori. Non sapeva dove andare, un'altra volta.
Era già mattina. « Terzo piano. »
La bionda non disse niente e avanzò fino al piano indicato, le ballerine facevano eco ai suoi passi ogni volta che saliva un gradino in più. C'erano altre due porte, al terzo piano. Non aveva neanche un piano tutto suo. Inserì le chiavi in una e l'aprì velocemente, come se temesse qualcuno potesse spiarli. « Prego. » La bionda gli passò davanti, sentì il suo profumo.
Era così invitante.
La casa era composta solo da un piccolo corridoio, si sentì mancare l'aria. La sua stanza a Londra era più grande di quell'appartamento. C'erano quattro stanze.
« Qual è la mia stanza? »
« C'è solo una stanza. » Figurati.
« Allora tu dormi sul divano. » Aprì la prima porta che si trovò a sinistra, era la cucina, o una specie. C'era una sorta di bancone, dei fornelli vecchi e un fornetto a microonde. E il frigo? Dietro la porta. Piccolo, era tutto piccolo.
« Appena aprono i negozi vado a comprarti dei vestiti. »
« Ci vado da sola. »
« Hai una borsa da sessantamila dollari addosso, non è proprio il posto adatto per sfoggiarla. »
Aveva ragione. Era completamente fuori luogo. Attirava troppo l'attenzione. Lui le aprì la porta della stanza da letto, Cass riconobbe il suo odore. Le lenzuola erano sfatte, si chiese se... ci aveva portato qualcuna, in quella casa? Lascia perdere, Cass. Lasciò la borsa a terra e andò ad appoggiarsi sul letto. Era morbido. Fece scivolare via le scarpette e si sdraiò, lasciando una gamba piegata oltre il materasso, in modo che la punta del piede toccasse sempre terra. Era stanchissima.
Aron le accarezzò le gambe magre con lo sguardo, riusciva a sentirle sotto le mani, mentre le immaginava su di lui. « Che è successo? Perchè sei scappata qui? »
« Mi hanno trovata, ieri notte hanno provato a farmi fuori. » Si passò una mano oltre il viso, per alzare i capelli in modo che non le si appiccicassero sul collo. Aron restò in silenzio, Cass era troppo stanca per accorgersi del modo in cui avesse stretto i pugni. Della rabbia che gli aveva infuocato gli occhi chiari.
« Eri sola? »
« Mh. Mi sono difesa bene, e sono scappata qui. » Sbadigliò. Le piaceva dormire con la voce di Aron ancora in testa, era rilassante.
« Da sola. »
« Esatto. » Credette volesse assicurarsi che non l'avesse seguita nessuno. Piegò il capo di lato, sprofondò nel cuscino. « Quell'occhio ti farà malissimo, domani. Devi subito metterci del ghiaccio. »
Ma lei non lo ascoltò. Cadde in un sonno profondo. Si svegliò dopo un paio d'ore e non ricordava neanche se fosse notte o giorno, ci mise un po' per realizzare che fosse scappata da Londra. Il ricordo della notte precedente la fece rabbrividire. Sul comodino c'erano degli antidolorifici. Aron. Si toccò la guancia, la sentiva come se stesse per esplodere.
Guardò oltre la finestra. Minuscola anche quella. Era buio.
Si pentì di non essersi portata il libro di diritto internazionale dietro. Storse la bocca. Volle cercare qualcosa nella borsa, alla fine era quella che usava a lezione. Magari era rimasto qualcosa.
Accese il lume sul comodino e la tirò sulle gambe. Aveva ancora addosso quella minigonna fastidiosa. Le sarebbe piaciuto infilarsi una tuta comoda. Prese il cellulare e vide che Klaus aveva provato a chiamarla.
Premette sul suo nome e attese che rispondesse, era sicuramente preoccupato.
« Cass, sei da lui? »
« Mh, sono in una specie di tugurio... ma perché ha scelto questo posto? »
« Che ne so, ogni tanto fa queste cose, dice che lo aiuta a restare con i piedi per terra, non capisco cosa voglia dire. »
« Almeno non ci noterà nessuno. »
« No, infatti. Di solito sa quello che fa. » Di solito.
« Che dico a quelli dell'università? » Quando posso tornarci? Finirà mai questo casino?
« Che hai dei problemi familiari. Ma ieri sera cosa è successo? »
« Un tizio si è intrufolato nei corridoi, stavo tornando in camera dalla biblioteca e mi ha presa da dietro... dal collo. » Si accarezzò la gola, come se potesse ancora sentirlo. « Come cazzo hanno fatto... »
« Era prevedibile, sono io che ho sbagliato a dirti di andare. » Si dava sempre la colpa di tutto. Sembravano tornati indietro di dieci anni.
« Come sta Lidia? » Forse fece la domanda sbagliata, perché ebbe l'impressione che Klaus non volesse parlarne. « Klaus... sei andato in ospedale almeno una volta? »
« Ho troppe cose da fare, non ho tempo. »
« Lo sai che non è vero, io non so cosa tu stia passando, ma so che lei ti direbbe di non evitare le cose che ti fanno paura. »
« Non ce la faccio a vederla mentre è in coma, non ci riesco... » Certo, gli ricordava quando s'era visto morire sua madre, e poi suo padre. E ora sua moglie. « Sarebbe anche mia moglie, adesso. »
« In che senso? »
« ...Avevamo deciso di sposarci, così, all'improvviso. »
« Senza festa? Solo voi due? »
« Si, avevo appena scoperto di Vanessa e i Murray, ero distrutto. Le ho detto che volevo fare almeno una cosa giusta nella vita... e l'ho fatta quasi ammazzare, proprio mentre giurava di amarmi. » Pronunciò l'ultima frase come un'ammissione di colpa. Cassandra realizzò che l'avesse vista quasi morire nel suo vestito da sposa.
« Tu vai a trovarla, io penso alla festa, quando tutto questo finirà ci servirà. »
« Che festa? »
« Come dici tu, le feste servono a far vedere agli altri che va tutto bene, no? E a noi servono per convincerci che sia vero. » Inevitabilmente, era finita dentro la logica di quella vita. Una cos talmente malata e sbagliata che a volte facevano fatica a comprenderla anche tra loro.
« Se Lidia muore io non so che fine faccio. » Lo disse come fosse una sentenza. In realtà non lo sapeva neanche Cassandra, sapeva come fosse da arrabbiato, in lutto, disperato, furioso, ma mai distrutto come lo sarebbe stato senza di lei. Quello sì, che sarebbe stato un problema.
« Se non parli con i dottori non saprai mai niente, magari non è così grave. Prova solo ad informarti, senza vederla. » Le sembrò di essere tornata indietro di anni, solo che prima Klaus le era sembrato invincibile, forse le aveva sempre fatto credere d'esserlo.
« Potrei fare come dici, hai ragione. » Se Cass fosse stata da lui, l'avrebbe accompagnato ovunque. Ma era troppo lontano, un altro spostamento era troppo rischioso. Anche se avrebbe volentieri abbandonato quella casa fatiscente. « Tu invece sei sicura di stare bene? Hai fatto dei controlli? Ti fa male la gola? Che ti ha fatto? » Non voleva farlo preoccupare. Per quando si sarebbero rivisti l'occhio nero sarebbe sparito.
« Si, l'ho steso per bene, non si aspettava che sapessi come liberarmi, l'ho colto di sorpresa. » Era stata furba. « Non mi ha fatto niente, ho solo avuto paura. »
« Ti ha comunque messo le mani addosso. » Non voleva si arrabbiasse, ma sembrava inevitabile. C'era troppa tensione.
« Ma sto bene, e sono in Polonia, non devi preoccuparti per me. »
« Vorrei che fossi qui, sinceramente. » Era la prima volta che glie lo diceva così, in tutta la vita. Di solito quando le imponeva di restare a casa il tono era di rimprovero, biasimo, autoritario. Ora le stava dicendo che aveva bisogno di sua sorella.
« Sono io che ho sbagliato ad andare via, solo che non sapevo che fare... pensavo fosse la cosa giusta. »
« Sono io che dovrei sapere che diavolo fare. »
« Fammi sapere come sta Lidia, chiamami, okay? »
« Si, si. » Si salutarono con la speranza di rivedersi presto, Cassandra sapeva che non si sarebbe potuta muovere finché non avessero messo ogni cosa in ordine. Era troppo rischioso, erano dei bersagli scoperti.
Sospirò, stanca. Si era scordata perfino le sigarette. Non aveva voglia di chiamare Aron per chiedergli di comprarle. Non sapeva neppure se fosse in casa. Si alzò, aprì la porta e si affacciò sul piccolissimo corridoio che collegava tutte le stanze. La luce gialla lo faceva sembrare ancora più brutto. Non aveva idea di dove fosse Nowak.
Non le andava di chiamarlo. Pensò di sbirciare nel salottino dove l'aveva costretto a dormire, poi beccò il bagno, vuoto e decadente. Era rimasta solo la cucina. Si allungò le maniche del maglioncino per scaldarsi meglio, fuori dalla stanzetta dove aveva dormito e dalle coperte faceva più freddo. A terra, le mattonelle graffiate le congelavano i piedi scalzi.
Spinse la porta della cucina e lo vide, era chinato sul tavolo con dei fogli davanti. Sembrava davvero stanco, concentratissimo. Non si era neppure accorta di lei. I capelli gli cadevano morbidi sulla fronte che poggiava sul palmo della mano, esausta. Cassandra si poggiò allo stipite e decise di guardarlo, contemplarlo.
Peccato che fosse uno stronzo. « Le tue cose sono in salotto. » Lei fece per rispondere, aprì la bocca ma poi non disse niente, sospirò e si volse verso il corridoio. Non aveva visto niente, quando c'era entrata, prima.
Aveva guardato male, ovviamente. Certo, se pensava sempre a quanto fosse bello Aron. Poggiata su un piccolo mobiletto c'era una busta di un negozio di cui non avrebbe mai saputo pronunciare il nome. Parlava in francese e tedesco perfettamente, sapeva qualcosa di italiano e spagnolo, ma il polacco era una lingua che non aveva nemmeno mai sentito, se non nel modo in cui Polina chiamava Aron quando era nervosa. Cioè sempre. La prese e l'aprì velocemente, era curiosa. Dentro c'erano due maglioni di lana leggera, una maglia verde scuro e due jeans. Incredibilmente le taglie erano tutte giuste. Non si poteva dire che non conoscesse il suo corpo. Prese la busta e se la portò in camera.
Mentre tornava, riguardò la cucina. Odiava il modo in cui lei gli fosse indifferente. Sapeva avesse cose molto più importanti a cui pensare, ma era come se Cassandra non esistesse.
« Aron. »
« Mh? » Alzò lo sguardo, se la vide ancora nella posizione di prima, con una spalla premuta contro lo stipite della porta.
« Hai conosciuto tua sorella? » Lei aveva trovato la sua foto, lei aveva convinto Polly a parlargliene. Si meritava almeno un aggiornamento che non fosse tramite altri. Lo vide sorridere, fu strano, nessuno di loro sorrideva più da un pezzo.
« Si, ho conosciuto anche sua figlia. » Pareva non vedesse l'ora di parlargliene, in realtà. Cass si avvicinò al tavolo. Voleva anche sbirciare i fogli su cui stava lavorando. « Si chiama Ania. »
« Quindi sei uno zio! » Allargò gli occhi, entusiasta, poi dovette sistemare l'espressione, perché quello dove aveva ricevuto il pugno le doleva ancora. Aron non disse niente. Ma era evidente che odiasse vederle quel livido in viso.
Voleva trovare solo una sorella, e ora aveva una nipote. « Quanti anni ha? »
« Mi sembra abbia detto sei, comunque è piccola, è molto bella. »
« Ti somiglia? »
Lui non si aspettava quella domanda, fu come se improvvisamente si fossero riallacciati. Si gurdarono consapevoli che non avessero voglia di raccontare le loro cose a nessuno quanto l'uno all'altra. Sorrise, un po' orgoglioso, anche. « Si, somiglia a mia sorella, che essendo mia gemella... è abbastanza simile a me. Quindi sì, mi somiglia. »
« Hai una foto? » Osó addirittura mettersi a sedere davanti a lui. Era davvero curiosa. « Che tipa è? Tua sorella, intendo. Ti somiglia di carattere? »
« No, non ho foto, e no, non mi somiglia per niente. Già che ha un compagno e una figlia... »
Alzó le sopracciglia, Cass si sentì un po' a disagio. Perchè? Ripensó alla sua lettera. « Peró mi piace, quando l'ho sentita la prima volta ho pensato a te. » Si bloccó immediatamente. Come la frase di prima, anche questa l'aveva detta senza pensarci. Cassandrà aggrottó le sopracciglia.
« In che senso? »
« Che ci andresti d'accordo. »
« Perchè? »
« Perchè è una persona molto sincera, molto trasparente. Dice quello che pensa ed è come fa vedere di essere. » Era contenta che si fosse trovato bene, che andassero d'accordo.
« Menomale che sei partito subito, pensa se non l'avessi mai conosciuta. »
« Per fortuna hai trovato quella foto. »
Per fortuna ero completamente persa per te, Aron. Si sarebbe buttata sotto un treno in corsa pur di fare ció che fosse meglio per lui. E odiava il modo in cui vederlo star bene la rendesse felice. « Le vuoi conoscere? » Aggiunse poi.
« Davvero? »
« Si, posso invitarle qui a cena. »
« Qui? » Senza cuochi, senza una vera sala da pranzo, in una casetta per una sola persona?
« La loro casa è quasi peggio di questa. »
« Davvero? » E perchè non glie ne comprava una migliore? « Ma cosa possiamo fare da mangiare? Mica so cucinare. »
« Io si, guarda che sono persone semplici. »
« Ma che c'entra, dobbiamo fare bella impressione, dovremmo accoglierle al meglio di come possiamo. »
« Si sentirebbero a disagio. »
« Ah, giusto. » Non dovevano pensare che fossero importanti, troppo ricchi o potenti. « È per questo che hai preso questa casa? »
« Anche, e poi guardando come vivevano ho pensato fosse assurdo quanto riuscissero comunque ad essere felici. E mi sono sentito uno stupido. » Andó indietro con la schiena, si sistemó i capelli spettinati e Cass si soffermó ancora sui tatuaggi che aveva sulle mani. Non si era mai domandata che significato avessero. O forse si, nel suo diario, che ormai aveva Polly.
Avrebbe voluto bruciarlo, in quell'istante.
« E perchè sono felici? »
« Perchè si accontentano, suppongo. »
« Mh, capito. » In realtà no, non aveva proprio compreso ma non voleva insistere, non sembrava una cosa facile da spiegare. « E che cosa vuoi cucinare? »
« Non lo so, non so niente di cucina polacca, pensavo un risotto, o pesce. »
Cassandra non aveva proprio idea di come dei prodotti come pesce e riso potessero trasformarsi in un piatto vero, ma alzó le spalle. Si fidó.
« Io al massimo posso fare il tè. » Le venne da ridere, ma era sul serio l'unica cosa che sapesse fare bene. « Comunque dai, almeno questa cosa è finita bene. »
« Si. Tu sai come sta Lidia? »
« So che Klaus non ne ha idea. »
Lui si portó le mani sul volto e poi scosse piano la testa. « Lo sapevo. »
« Dice che non vuole vederla, l'ho convinto a chiedere e basta. Speriamo. »
« Che cosa assurda. »
« Non vedo l'ora sia finita. Ma lo sai che si sono sposati? »
« No, ovviamente. » Una punta di amarezza gli colorava la voce. « Sapevo volesse chiederglielo, me l'aveva detto prima che litigassimo. »
Sfioravano l'argomento senza mai parlarne, ci giravano attorno stando ben attenti a non mostrare mai troppo interesse per la bomba che avevano fatto scoppiare, per tutte le cose che si erano detti. Cassandra lo guardava e pensava che fosse proprio una stupida. Era evidente, non aveva mai neppure pensato di stare davvero con lei, non l'avrebbe mai voluto.
« Vedrai che si sistemerà tutto, tornerà tutto come prima. » Una velata frecciatina? E ne era, in realtà, anche convinta davvero. Già sembravano molto poù uniti. « E comunque non lo sapevo neanche io, non lo sapeva nessuno. Hanno deciso di sposarsi da soli, senza nessuno. »
« E perchè? »
« Che ne so. Credo sia perchè avesse fretta, e poi aveva scoperto di Ricky da poco... » Quello era un altro argomento che Cassandra evitava come la morte. I suoi amici stavano per essere ammazzati. « Non sapeva come l'avrei presa, era distrutto. »
« E come l'hai presa? »
« Non lo so, finchè non succederà per me resta impossibile. » E poi? Poi non lo sapeva. Forse sarebbe impazzita, non riusciva ad immaginarsi solamente triste. Ma aveva paura. Non voleva pensarci, per questo cambió discorso. « Dai, chiama tua sorella e dille di venire. Io vedo cosa ordinare per pranzo. »
Lui rise sommessamente.
« Apri il frigo, prima. »
Cassandra stava per ripetergli che non sapesse cucinare, ma lo accontentó. Si alzó e camminó, scalza, verso il frigorifero. Quello dietro la porta, quello minuscolo.
Dentro c'era della carne scongelata, un limone, delle birre e qualche verdura, sembravano spinaci. « Che dovrei farci con questa roba? »
« Guarda nel congelatore. »
Roteó lo sguardo, fece ancora come le aveva detto. Piegó le gambe e si abbassó per controllare cosa ci fosse nel cassettino sopra. Quello doveva essere un congelatore? Intanto moriva di freddo.
Lo sapevo, non c'è nulla. Stava per rispondergli male, quando lo vide: gelato alla vaniglia.
Prima sorrise, poi serró i denti. Che stronzo. Ma voleva proprio prenderla per il culo? « Non c'è niente con cui pranzare, ordino dei panini. »
Fanculo Aron, mangiatelo in compagnia di te stesso il gelato con la nutella, visto che ti piace tanto fare il Lupo solitario. Richiuse tutto e andó a cercare il cellulare. Non aveva idea dell'espressione che avesse fatto lui, comunque non doveva essere rimasto troppo contento.
Cosa c'è, non sei abituato ad una Cassandra che non ti venera? Forse non tutto sarebbe tornato come prima. « Faccio la carne. »
Avrebbe voluto mandarlo a quel paese, dirgli che avrebbe preferito morire di fame ma si trattenne. Quella convivenza non poteva diventare insopportabile dal primo giorno. « Va bene, mi sembrava poca per due. »
« No, è abbastanza, hai visto male. »
E il congelatore? Cosa avrebbe dovuto vederci?
Non ho più sedici anni Nowak. « Ok. Hai delle sigarette? »
« Si, sono nella tasca della mia giacca. »
Cass non gli disse altro, se ne prese una e andó nella stanza dove dormiva.
Non avevano neanche deciso cosa cucinare per i loro ospiti.
💎💎💎
Cassandra ha tirato fuori gli artigliii!
Quanto durerà questa vendetta?
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