CAPITOLO 34


It takes a monster
To destroy a
Monster

Aron Nowak era sempre stato un tipo solitario, eppure adesso la solitudine in cui s'era cacciato pesava su di lui come un macigno insostenibile. Trascorreva le giornate a controllare se le attività che usava per riciclare il denaro sporco funzionassero; ogni tanto passava vicino alla casa famiglia dove era cresciuto, ma non aveva mai il coraggio di entrarci. Poi c'era sua sorella, aveva scoperto che era felicissima, non sembrava benestante ma neppure povera come si aspettava, aveva una figlia e viveva con un compagno, forse un marito. Si somigliavano davvero troppo e se lo sarebbe dovuto aspettare, ma non era pronto a rivedere la sua faccia su un'altra persona, non era abituato. La figlia era bellissima.
Aveva capito che sua madre le avesse fatto un regalo, a lasciarla libera. Si maledì mentalmente per averlo pensato, ma era così.

Non aveva ancora trovato il coraggio di raccontarle la verità. Perchè metterla in mezzo ai suoi disastri? Faceva la parte di quello risoluto, ma era facile quando accanto a lui c'era Klaus. Ora si sentiva perso. Che cosa doveva fare? Aveva promesso a Polina che le avrebbe riportato sua figlia, ma non era giusto. Pensó di scriverle una lettera, non era bravo in queste cose.
Perse tempo fino al pomeriggio, quando era già passata l'ora di pranzo.

Alla fine decise semplicemente di raggiungerla dove lavorava, forse lì si sarebbe sentita più al sicuro. Entró e non la vide subito, cercó di sembrare il meno minaccioso possibile, quasi insicuro. Era la prima volta che per una missione non gli serviva sembrare un mostro. « Buon— » Lei si fermó subito, lo vide in volto e nello sguardo le si accese qualcosa di strano. « Buongiorno... »
Le sorrise. Sembrava dolce. « Buongiorno. »
« Deve ritirare qualcosa? »
« No, veramente no. Mi chiamo— » Esitó, aveva senso dirle il suo vero nome? Ma che diavolo andava a pensare. « Mi chiamo Aron Nowak. » Quella sbiancó subito. Che sapesse già? Aveva i capelli dorati, identici a quelli di Aron, e lo sguardo, gli occhi, le labbra, rubati a quelli di loro padre. « Sto per dirti una cosa che ti sembrerà assurda, ma ti giuro che non sono un pazzo. » Restó zitta. Non sembrava spaventata. « Mia madre è Polina Nowak, e mio padre... non so il suo nome. Sono nato il venti dicembre di trentatrè anni fa. »
« Non vedo come posso esserti utile. » Sembrava agitata. Si mise a piegare dei maglioni dietro il bancone. Lesse il nome sul cartellino appeso sulla maglietta: Marina. Era lei.
« Probabilmente esiste un modo migliore per dirlo, ma io non lo conosco. » Prese un respiro profondo e poi cercò il coraggio da qualche parte dentro di lui. Tremava d'ansia. Abbassò la testa e poi la tirò su. « Sono tuo fratello, e non voglio niente, non— »
« ...Non ci credo. » Uscì dal bancone per avvicinarsi a lui. Camminò lentamente, esitava ad avanzare, come se Aron non fosse umano. Doveva essere strano anche per lei. « Allora sei tu. »
« Si, sono io. » Sembrava più sorpreso di lei. Il petto gli si riempì d'ansia, non aveva più la situazione sotto il suo controllo.

Lei stava per commuoversi. « Ti ho cercato ovunque... ma non sapevo proprio dove andare, non parli come me, hai un accento diverso. » Davvero? Aron provò un sentimento nuovo, calmo e gentile. Non era arrivato a scuoterlo forte come le emozioni che provava di solito, era contento.
« Vivo a New York, ho perso un po' di
polacco. »
Abbassò il viso per un attimo. « Allora era davvero impossibile che ti trovassi, non ci sarei mai arrivata fin lì. » Sorrise, era così bella, la versione migliore di lui. Abbassò lo sguardo, se fosse stato un altro l'avrebbe abbracciata. Ma non sapeva come si facesse.
« Io non sapevo che tu esistessi, l'ho scoperto un paio di settimane fa, mia— nostra, madre credeva fossi morta. » Se n'era convinta. Si grattò il naso con una mano. Una sensazione strana gli solleticò gli occhi e gli indurì la gola. Ti stai per caso per commuovere anche tu, Nowak?
« Quindi anche lei è ancora viva? »
« Si, esatto. »
« E nostro padre? » Quindi lei non sapeva nulla? Non ricordava che mostro fosse, non sapeva le storie che Polina non le aveva mai raccontato. Non aveva mai visto sua madre distrutta. Forse era quello, che la rendeva felice.
« Non so neanche il suo nome, te l'ho detto, Polina non vuole che se ne parli. » E neppure lui, in tutta onestà. Lei rimase un po' spiazzata, si stava per addentrare nella mente difficile di suo fratello. Per quanto avesse avuto un'infanzia peggiore della sua, forse alla fine qualcuno l'aveva amata davvero, senza troppe condizioni.
« Non andavano molto d'accordo. » Stava per dirle che fosse quella, la ragione per cui erano stati abbandonati ma forse non era pronta a sentirla.

Entrò un cliente, Marina dovette stargli dietro e Aron attese. Paziente. Poi tornò da lui e gli disse di incontrarsi da qualche parte per discutere meglio, per parlare di tutte le cose che avessero da raccontarsi. Lui acconsentì, tornò in albergo e si lasciò andare con un sospiro di sollievo. Forse le cose non stavano andando troppo male. Si fece una doccia lenta, si maledisse per non essersi annotato l'indirizzo che le aveva dato sua sorella, aveva paura di scordarlo. Lo ripeté nella mente fino allo sfinimento, divenne una specie di mantra e lo aiutò a rilassarsi. Si sciacquò il corpo e pensò che quella fosse la prima volta da quando era arrivato che si sentisse minimamente sereno.

Chiuse l'acqua e s'infilò nell'accappatoio morbido, poi controllò il telefono. Non sapeva chi volesse sentire, lo faceva ogni tanto, magari sperava di leggere il nome di Klaus. E anche se lo negava a se stesso, quello di Cass. Gli mancava, e odiava il modo in cui avesse una specie di potere strano su di lui. Non gli piaceva per niente essere troppo attaccato alla gente, alle ragazze, le relazioni non erano per lui. Le aveva sempre disprezzate e non sapeva neanche perché le schifasse tanto.
La verità è che di rapporto conosceva solo quello di sua madre e suo padre, non concepiva un'unione come qualcosa di positivo. E poi era un codardo, egoista, e incredibilmente strafottente; per quanto volesse bene a Cassandra, non avrebbe mai rinunciato alla sua tanto amata solitudine.

Se ci fosse stata Polly gli avrebbe detto che fosse un coglione. Ma non c'era nessuno, aveva deciso di restare da solo. Non sapeva perché avesse detto a Klaus di amare sua sorella, o forse si, perchè era vero. Ma quando gli aveva chiesto se avesse intenzioni serie non aveva saputo rispondergli.

Dopo i pugni, le litigate e le dichiarazioni Klaus s'era perfino calmato. Erano state altre, le parole che l'avevano mandato fuori di testa. Quando avevano affrontato quel discorso, si trovavano seduti nel piccolo salottino della suite che avevano preso. Klaus teneva la schiena poggiata all'indietro, sul cuscino. Non voleva sembrare insicuro, agitato. Aron invece tremava.

« Che cazzo di intenzioni hai? »
Fece finta di non capire. « Che significa? »
« Metti che mi va bene, che fai? »
« In che senso? » Non voleva proprio affrontarla, quella conversazione.
« Ieri hai detto che ami mia sorella, se ti dico che va bene, metti la testa apposto? Diventi il fidanzato perfetto? » Klaus aveva sempre ragione.
« Ma che cazzo significa? »
« Vuoi impegnarti o fare i cazzi tuoi come sempre, Aron? Cassandra non è una con cui puoi permetterti di giocare. » L'avrebbe uccisa. Si sporse leggermente in avanti con il viso. Lo stava minacciando, chiaramente e senza filtri.
« Non sei tu che decidi per lei. » Era una risposta molto chiara. Stava esitando, prendendo tempo. Non era pronto, e non lo sarebbe mai stato.
« ...Come immaginavo. » E detto ciò, si salutarono per sempre. « Non voglio mai più vederti vicino a lei. »

Si asciugò via quei ricordi e si vestì lentamente, tanto era in anticipo. Cercò di assumere un aspetto decente, di nasconderci dietro tutto il marcio che aveva costruito in America. E se gli avesse domandato che lavoro facesse? Sospirò, si era quasi già pentito, ma era felice.
Raggiunse in taxi il posto che gli aveva indicato, aveva deciso di fidarsi. Cassandra l'avrebbe rimproverato. Ancora lei? Smettila di pensarci, l'hai praticamente scaricata dopo averla distrutta solo perché— perché? Neppure nei pensieri riusciva ad ammettere che fosse totalmente perso, che gli mancasse e avesse terrore di quel sentimento, di essere abbandonato.

Marina era già lì ad aspettarlo, lo salutò sventolando un braccio. Indossava un cappotto scamosciato, da sopra uno scialle pesante. I capelli biondi erano legati, ora. « Ciao, come stai? »
Alzò le spalle, era alta quanto lui. « ...Come prima? » Le venne da ridere, sembrava così dolce.
« Giusto, ho fatto una domanda stupida... » Scosse il capo e si sentì uno scemo. Non era così impacciato da anni, sembrava un ragazzino. « Entriamo? »
Marina annuì e lui le aprì la porta, da vero gentiluomo. Il posto era molto semplice, ebbe paura di essere fuori luogo con quel cappotto tanto costoso. Poi si rese conto che nessuno ci avrebbe fatto caso.
Si sedettero ad un tavolino non troppo distante dall'ingresso. Aron si chiese se avrebbe mai conosciuto anche la figlia.
La guardò in silenzio. « Non sono bravo con i discorsi, cosa vuoi sapere di me? » Si tolsero la giacca. Non gli piaceva quando si girava intorno alle cose troppo a lungo, preferiva essere diretto.
« Quando sei andato in America? »
« Mia madre decise di partire quasi subito dopo avermi ritrovato, avevo otto anni. E tu? Quanto ci sei rimasta in casa famiglia? » Era assurdo parlare con qualcuno che avesse conosciuto il suo stesso dolore. Quasi piacevole. Non temeva il suo giudizio.
« Mi presero in affido, poi finii in orfanatrofio e alla fine mi adottarono, avevo... dodici anni. »
Pensò che lui a dodici anni avesse già dei ricordi, Klaus, un lavoro e un mucchio di soldi, sicuramente più di lei. Era già nelle grazie dei Van Der Meer. « Ma sono contenta, voglio bene a mia madre e a mio padre. » Fu strano, sentirla riferirsi in quel modo ad un'altra donna. Ma era giusto così. « Anche se mi sono spesso chiesta che sarebbe successo se mi avesse ritrovata... »
Che non avresti avuto un padre. « Forse saresti americana. » Rise.
« Non avrei mia figlia, sarebbe orribile. » Scosse il capo, poi improvvisamente decise di parlargli di lei. Si sporse in avanti con il busto. « Si chiama Ania, ha sei anni, guada... » Cercò nella borsa di pelle il portafoglio, era vecchio e graffiato. Aron pensò che avrebbe potuto regalargliene uno nuovo, darle dei soldi mensilmente in modo da farla vivere diversamente... poi quando vide il suo sguardo mentre tirava fuori la foto della figlia, pensò che non esistesse niente che potesse renderla più felice. E improvvisamente, era come se non vedesse più le mani screpolate, i capelli sporchi, la pelle secca e i vestiti logori.
Gli mise la foto davanti, la bambina le somigliava ma aveva i capelli castani. Lo sguardo, però, era identico. « È molto bella. » Somigliava tanto anche a lui. Che strano.
« Tu hai figli? » Lui alzò le sopracciglia, come se fosse una domanda assurda. Poi ricordò che nel mondo normale non fosse strano, che le persone sapessero amare, anche.
Scrollò le spalle. « No, niente figli e niente moglie, solo lavoro. » Non era dispiaciuto.
« Eh, il tempo del lavoro lo recuperi, quello delle altre cose... no. » Gli sorrise nel modo più sincero che potesse, e lui pensò per un attimo che fosse assurdo come facesse sembrare facilissimo essere felice.
Guardò le mani di Marina, indossava la fede.
« ...Quando mi sono trasferito ho iniziato a lavorare subito, eravamo poverissimi, c'erano delle giornate dove non avevamo letteralmente niente da mangiare. » Già a quattordici anni faceva dei lavoretti per il padre di Klaus, si impegnava da morire e infatti divenne il più bravo. « Per questo credo il lavoro sia importante, per me. È sempre stato necessario. »
« E ti piace? »
Esitò. Gli piaceva? Prima si, da morire. Adesso, ora che aveva davanti tutta quella normalità, che Klaus non gli parlava più e Cass... beh, con lei aveva fatto un casino. Ora, forse non era più così bello. « Si, a volte un po' meno, ma normalmente mi piace. »
« Però non so che cosa fai. »
E come poteva dirglielo? « Sono un imprenditore, ho alcuni locali, bar, discoteche, fondi in affitto... cose così. » Contrabbando, spaccio di droga, corruzione per ottenere fondi... non le racconti il resto? « E qualche società, mi piace sperimentare sempre cose nuove. »
« Deve portarti via molto tempo. » Aveva già riposto via la foto di sua figlia.
« Si, ma mi da tante soddisfazioni. »
Tante responsabilità. Pensava di doverla salvare, ma era forse lei che stava aiutando lui. « Vuoi venire a cena a casa mia, stasera? Così conosci mio marito e mia figlia, ti va? » Forse quel breve incontro serviva a lei per comprendere se fosse una persona da poter far entrare in casa.
« Non lo so... non so se per loro va bene... » Aveva paura. La verità è che si aspettava una reazione distaccata, aggressiva, fredda come quella che avrebbe avuto lui. Invece sembrava così a suo agio che si sentì strano. Aron Nowak, che era sempre stato fermo, e serio. Perchè vacillava?
Scosse il capo. « Mio marito sapeva di te. » Gli venne voglia di scappare. E perché? Era lui che si era spinto fin lì. Cosa lo turbava? Tutto quel calore a cui non era abituato, quella strana gentilezza, lo destabilizzava. Nella sua comfort zone c'erano solo tristezza, rabbia, orgoglio. « Ah... beh, se non do fastidio... »
« Magari lo dico anche ai miei, così ti conoscono, saranno felicissimi. »
No, no, no. Gli mancò per un attimo il respiro. Troppe cose tutte insieme. Perchè per Marina era così facile? Pensò che lui non l'avrebbe mai potuta portare da nessuno. « Ma sei sicura? »
« Si, certo. Tu sei venuto da solo? »

« Si, sono solo. »
« Beh, ora non lo sei più. »
Lei gli sorrise, fece per allungare una mano e confortarlo ma desistette. Aron si maledisse mentalmente, era quello l'effetto che faceva alla gente? « Però devo prendere qualcosa, cosa piace a tua figlia? E a tuo marito? Un vino buono gli potrebbe piacere? »
Scosse il capo. « Non c'è bisogno che porti niente. »
« Dei dolci? » Solo per dimostrare che hai i soldi?
« Non preoccuparti, davvero. » Come poteva portare solo se stesso? Era come portare il niente, lui si sentiva nulla senza che gli altri avessero paura di lui.

« Sarò cresciuto in America ma la mia mamma è Polacca, se mi presento senza niente darò una pessima impressione. »
« Ma figurati, mi hai cercata dall'altra parte del mondo, questo basta per farti accettare. » Non aveva tutti i torti. « Magari un giorno ci ospiti tutti da te, anche se la vedo difficile. »
« E perché? Mi fai così distaccato? »
« No, ma New York costa un sacco di soldi. » E la cosa più assurda, era che parevano non volerne. Non averne bisogno. Come diavolo era possibile?
Si mise a ridere, davvero era lui, quello turbato? Quello che aveva ritrovato la madre, aveva abbastanza denaro da sfamare dieci famiglie ed era temuto, rispettato.
Mai amato. « Si sta meglio qui, Manhattan è triste, sembra tutta allegra, ma quando la guardi da vicino è vuota. » Ti distrugge... ricordi, Aron?
Sgranò gli occhi. « Quindi abiti nel quartiere di Gossip Girl! »
Gli venne da ridere. « Non l'ho mai visto. » Forse l'aveva sentito nominare da Cassandra, quando era piccola. Ma lui era adulto già a 17 anni.
Non aveva tempo.

« Che peccato, forse se l'avessi visto ti sembrerebbe un po' meno vuota. » Gli sorrise ancora, mentre pensava che lui non avesse così tanto da raccontare. La verità era che lui il vuoto se lo portava dentro. « Facciamo stasera? »
« Stasera? »
« Si, avevi altri impegni? »
« No, veramente no. » E allora era fatta. Gli si chiuse lo stomaco. Pensò che non fosse giusto, doveva essere lei quella in ansia, quella spiazzata o terrorizzata. Invece sembrava lui. Aron Nowak che aveva paura... di cosa?

« Tua mamma cucina polacco? » Nostra. Pensò ma non lo disse, era giusto che per lei fosse solo una signora che l'aveva abbandonata.
« Poco, dice che le ricorda il passato. » Ed era davvero così orribile? La vide rattristirsi, forse pensava che ci fosse anche lei tra le cose che non volesse ricordare. Ed era vero, le tornava in mente quando l'aveva persa. Abbassò il capo, poi lo alzò e la fissò intensamente. « Le mancavi molto, penso. Si è portata dentro questa cosa senza mai dirmela... »
« Non sapevi nulla? »
« No, non mi ha detto niente, credevo di essere solo, figlio unico. »
« E poi? Come hai scoperto tutto? » Sembrava una storia fantastica. Davvero era così incredibile?
« Cassandra... » Davvero stava ancora parlando di lei? « Una ragazza... » Non riusciva a dirlo. Non ci riusciva proprio. Prese un respiro profondo e incrociò le dita sul tavolo. Ebbe improvvisamente caldo. « Sua madre aiutava la mia a cercarti, purtroppo è morta molti anni fa, era molto amica di Polly e per questo motivo lei decise di smettere, soffriva troppo. » L'aveva detto. Mancava un pezzo. « Ha semplicemente trovato una foto, poi ha convinto mia madre a parlarmi perché... »Perchè? Perchè gli voleva bene. Teneva alla sua felicità come quasi nessuno aveva mai fatto prima. E che cosa le aveva dato in cambio? Illusioni. « Perchè è una persona fantastica. » E lui l'aveva distrutta.
« È la tua fidanzata? »
« No! »
« Ah, è che da come ne parlavi sembrava, scusa. » Alzò le spalle.
« Sembrava cosa? »
« Niente, ho frainteso. » Si stava già pentendo di averlo invitato? Come poteva, lei, sapere che cosa passasse nella testa di Aron? Pareva impaurita.
« No, non hai frainteso, le voglio molto bene, ma non è la mia fidanzata. »
« Ma ti piace. »
« Certo. » Ovvio. Esisteva un modo per non amare Cassandra? « È merito suo se sono qui. » In tutti i sensi. Prima la foto di Marina, poi la storia con Klaus.

« Mi sembra una cosa complicata. » E lo era, lo era tantissimo.
« No, non lo è poi così tanto. » Non gli andava di parlarne. E non era neppure la situazione adatta, voleva sapere altre cose su sua sorella, tutto.
Abbassò la testa e poi tornò a scrutare i lineamenti di Marina. Aveva una sorella. A volte se ne scordava, tanto era assurdo. Gli pareva di parlare con un'amica e poi ricordava chi fosse davvero.

« Va bene alle sette e trenta, stasera? » Aveva capito. Annuì, pensò che dovesse subito attivarsi per cercare qualcosa da portare. Lei gli spiegò dove abitasse e si salutarono, con la promessa di rivedersi. Lei provò anche ad abbracciarlo, ma il Lupo non era certo per queste cose. Ci voleva tempo.

Mentre camminava alla ricerca di un posto dove comprare qualcosa pensò che non avesse ancora chiamato Polina. Non le aveva raccontato proprio tutta la verità, aveva paura della sua reazione. Temeva volesse trascinarla in America.
Cercò il suo numero sul cellulare.
« Mamma? »
« Potresti chiamare più spesso, eh. » Era agitata, non erano mai stati lontani tanto tempo. E poi immaginava a casa non ci fosse neanche una bella situazione, tra Klaus e Cassandra.
« Ci ho parlato. »
« Davvero? »
« Si, lei sapeva già di avere un fratello, non sapeva dove trovarmi, però. » S'infilò le mani in tasca, le strade erano buie. Si pentì di non avere la sua pistola. « Era molto tranquilla. »
« Che ha detto? Vuole venire qui? » Era impaziente. Come faceva a dirle che fosse felice? Che dovessero lasciarla stare.
« Mamma, ha una figlia e un compagno, qui sta bene, non vuole trasferirsi a New York. »
« Ma qui sarebbe ricca, glie l'hai detto? Sua figlia andrebbe nelle scuole migliori del mondo e— »
« Mamma, è felice, ti prego smettila con questa storia. »
« Quale stupido rinuncerebbe a tutto quello che possiamo darle? »
« Non è stupida, come fai a non capire? È felice, felicissima della sua vita, perché dovrebbe scappare e mollare tutto? Ha una famiglia, un compagno, sua figlia... sta bene. »
« Ma che stai dicendo? Senza soldi nessuno è felice! »
« Questo valeva per noi due, perché eravamo soli e... senza niente. Non facciamo casino, se la vuoi incontrare vieni qui senza imporre niente. » Si stava irritando. Per la prima volta la vedeva come un'egoista e basta, come poteva chiedere ad una figlia che aveva abbandonato, di tornare da lei dopo anni e cambiare completamente vita?
« Io sono sua— »
« No, tu sei mia madre, lei ha una madre e un padre qui! Sei quella che l'ha— abbandonata trent'anni fa e basta, lo capisci? » Fu brutto da dire, ma era così. Sentì troppo silenzio. Forse stava piangendo? « Senti, non mi va di litigare, anche perché sono stato bene. »
« ...Mi odia? »
« No, non ti odia. »
« Ti ha chiesto di me? »
« Si, mi ha chiesto se fossi ancora viva, ma penso sia una cosa difficile per lei. »
« Che casino... »
Aron rallentò il passo vicino ad un vetrina, sembrava un negozio di prodotti tipici, l'unico illuminato in quella via. Decise di tentare. « Vedrai che si risolve. » Poi la salutò, e chiuse il cellulare in tasca. Appena entrò nella bottega, fu invaso da una piacevole sensazione di calore. Una signora sulla settantina gli sorrise, era robusta e aveva le gote arrossate.

Si guardò un po' intorno, c'erano dei vini di cui non sapeva niente. Di solito prendeva quelli francesi, a volte italiani, ma non ne vedeva. Pensò fosse meglio cercare dei dolci, qualcosa che piacesse a tutti. C'era, fortunatamente, un piccolo bancone su cui erano esposte delle... brioches? Si mise ad osservarle, e alla fine chiamò la signora di prima per prenderne alcune. Il suo polacco era un po' arrugginito, ma si fece capire comunque.
Anche se era evidente fosse straniero, e la cosa gli dava un fastidio tremendo. « *Dziękuję. »
*Grazie.
Prese quelle che costavano di più, sperando fossero anche le più deliziose.

Erano già quasi le sette, avrebbe fatto bene a cercarsi un taxi. Ci voleva un po' per arrivare dove abitava Marina. Pagò sicuramente di più di quanto fosse necessario, per poco non dimenticò i dolci in auto dall'ansia. Era rimasto vestito uguale, non ci aveva pensato. Klaus gli avrebbe detto di tornare indietro e arrivare tardi, ma elegante. Perchè era più importante come ci si presentava della puntualità. Come se ad un uomo elegante venisse sempre perdonato di essere uno stronzo.

Suonò al campanello, il quartiere era silenzioso, le case erano tutte uguali. Non c'erano giardini, i palazzi erano grigi e stretti. Più avanti aveva visto un parco di cemento con alcuni giochi per bambini. Ania giocava lì? Quando tornava da scuola, sua nipote, che amici aveva? Sua nipote. Udì dei passi dietro la porta, si aspettava sua sorella, invece era il marito. Non sapeva come se lo fosse immaginato, probabilmente adesso che ce l'aveva davanti pensò che era proprio così che dovesse essere. Era più basso di lui, non sapeva il suo nome. Gli sorrise. Sai sorridere, Nowak? E gli porse la mano. « Ciao, piacere di conoscerti, sono Aron, Aron Nowak. » Quello allungò un braccio e si presentò. « Adrian Lewandowski. Finalmente riusciamo ad averti a casa nostra. » Sul serio? Era davvero quella l'accoglienza che li aspettava?
Dietro di lui scorse la testolina bionda di Ania, non era mai stato bravo con i bambini. Le sorrise e lei tornò a nascondersi dietro la gamba del padre. « È un po' timida. » Il colore dei capelli era lo stesso di lui, e anche il fisico, molto più slanciato di quello di Aron e Marina. « Vieni. »

Entrarono e Aron gli porse i dolci che aveva comprato prima, gli disse che non avrebbe dovuto, ma poi, a fine pasto, lo sguardo di Ania s'illuminò vedendo i suoi preferiti al centro della tavola. « Paczki! » Esclamò, guardando i genitori per ottenere la loro approvazione a mangiarne uno. « Ti piacciono? » Fu la prima volta, in tutta la serata, che Aron si rivolse a lei direttamente.
« Si, sono i miei preferiti! Mamma li sa fare, lo sai? »
« Sicuramente non saranno buoni come quelli di mamma, purtroppo. » Erano anni che non vedeva gente così grata per quello che aveva, senza la brama violenta di ottenere sempre di più. Perfino Klaus, Cassandra, sua madre erano tutti in un altro mondo, insensibili alle cose che li avrebbero resi davvero felici. Pensò che forse una vita così non gli sarebbe dispiaciuta.

« Quindi vieni da New York. »
« Si, sono nato qui ma non ci tornavo da molti anni. »
« Anche quelli che hanno preso la fabbrica dove lavoro sono americani, cioè vengono dall'America. » No, no, no.
« Non erano francesi? » Intervenne Marina, mentre passava un tovagliolo alla figlia.
« No, quello è il socio, i proprietari veri sono americani, ci hanno detto che ora valgono le leggi loro. »
Aron moriva dalla voglia di domandargli dei nomi, ma sarebbe sembrato troppo strano. « Anche Aron compra case, locali... però non hai fabbriche, vero? »
« Non ne gestisco nessuna personalmente.
Forse conosco questi americani, ti ricordi come si chiamano? » Non riusciva proprio a tenerli lontani, gli affari. Klaus mi avrebbe avvisato, non è così stronzo. Sa quanto ci tengo.
« Si, hanno un nome strano... » In quel preciso istante sentì il telefono squillare. Aggrottò le sopracciglia, si scusò e controllò chi diavolo fosse. Non poteva crederci. Si scusò ancora, ma era urgente. Si alzò con una certa fretta dal tavolo e rispose.

« Klaus? »
« Non farti strane idee, non ti ho perdonato, però non sono un pezzo di merda e comunque mi servi. » Seguì una breve pausa, l'ansia lo divorava. E sentire Klaus così calmo era straziante. « Lacroix ha preso delle cose dalle tue parti, vedi di non farlo espandere troppo. »
« Non è solo, ci sono anche degli americani con lui. »
« E chi? »
« Stasera lo scopro. »
« Lo sai cosa devi fare. »
« E che fine fa la fabbrica che hanno preso? »
« Che cazzo me ne frega. »
« Dai, ci lavora della gente, che fine fanno? »
« A me cosa cazzo me ne frega, ma sei impazzito? Troveranno un altro lavoro. »
« Ci lavora... » Si morse la lingua, non aveva voglia di raccontarglielo. « Ci lavora il compagno di mia sorella, se li butti per strada muoiono di fame. »
« Mi pare che tu abbia abbastanza soldi per mantenere chi cazzo ti pare. »
Si stava innervosendo. Ma tanto non avrebbe mai capito. « E se la prendessi io? »
« Sul serio? »
« Resto qui e me ne occupo io, ci faccio qualcosa, non lo so, un modo per fare soldi lo trovo. »
Silenzio. Quello che Aron non sapeva, era l'effetto che quel "resto qui" aveva avuto su Klaus. Che in realtà l'aveva chiamato Perchè era il suo unico amico, il suo unico fratello e ormai una specie di parte di sé. Era diventato solo una di quelle parti di lui che odiava. « Ma che cazzo dici, resti lí? »
« Tu ti prendi tutto quello che c'è da te e io me la vedo qua, non mi sembra difficile. »
« Lo dici tu a tua madre. »
« Mia madre viene qua, con me. »
Il tono di voce era serio. Doveva tornare a cena. Gli serviva il nome degli stronzi che stavano provando a fregargli il territorio. Non poteva permettere che Adrian lavorasse per loro, che sfamassero la sua famiglia.

Povera Ania,
Povera Marina,
Povero Adrian.
Tanto Aron lo sapeva già, ammazzava tutto quello che toccava. Avrebbe ammazzato anche loro.

Che tanto la famiglia non è altro che possesso, bugie e potere.
Forse ora lo capiva, perché Klaus odiasse tanto non sapere le cose.

💎💎💎
Curiosiii? Hehehe VEDREEEEETE
Secondo voi con chi si allea Lacroix?
Se siete stati attenti fooooorse ci arrivate
E Cass? Ora che dovrebbe fare?
E Klaus, non è tenerinooo? Il suo migliore amico gli manca, e se va via anche Polly?

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