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La luce della luna offuscava i suoi passi, come volesse confonderli e celarli alla vista. Tutto ondeggiava, una massa aeriforme simile a un'umida nebbiolina aleggiava attorno a lui.

C'era odore di fango, erba e muschio; un odore selvatico, depresso in quell'aria che si spandeva e un tanfo di morte. L'acre del sangue gli saliva alle narici, nauseante e tremendamente intenso. Eppure continuava a camminare. Non sapeva dove stava andando e nemmeno se aveva davvero intenzione di arrivare da qualche parte, ma camminava; un passo dopo l'altro guadagnava lentamente terreno in mezzo al bosco.

Un gemito strozzato gli sfuggì quando un ramo di un albero gli graffiò la pelle, aggiungendo altro odore di sangue e un'altra ferita da cui sarebbe dovuto guarire.

Si fermò per un attimo, appoggiandosi al tronco di un albero. Faceva freddo e il suo fiato si condensava uscendo dalla sua bocca simile al fumo. Quasi gli venne voglia di fumare una sigaretta, ma, muovendo il braccio verso la tasca dei pantaloni, un dolore lancinante lo trafisse al fianco. Era come se la sua carne fosse stata d'un tratto attraversata da mille aghi roventi. Tastò con una mano sotto la felpa aperta e sentì un liquido viscoso imbrattargli le dita.

"Sangue. Sono ferito." Strinse i denti e riprese a camminare; doveva andarsene da quel posto e subito. Attorno però era buio e gli alberi sembravano tutti uguali; aveva la vista offuscata e la stanchezza lo faceva avanzare ad una lentezza paragonabile a quella di una lumaca o di una tartaruga che non può vincere contro una lepre.

"Io sono sempre stato un perdente e da perdente morirò."

Un passo, un altro, ormai si trascinava solo grazie a un residuo di forza di volontà. Sentiva i capelli appiccicati alla nuca, sudore freddo colargli lungo la schiena. La cosa peggiore però era il freddo che gli attanagliava le viscere; sembrava stringerlo in una morsa da dentro, stritolargli lo stomaco e il fegato.

Si chinò, vomitò e quando si rialzò quell'odore di sangue era più forte, più nauseante dell'acido che sentiva in bocca. "Aiutatemi... vi prego, aiuto." Ma invocare in silenzio, o a mente, non l'avrebbe salvato.

Un altro conato lo assalì con violenza e lui crollò a terra, in ginocchio. Gli mancava il respiro. Si prese la gola con le mani, mentre tremava come un pulcino bagnato e infreddolito. Aveva paura.

Vomitò ancora e la sua vista divenne abbastanza lucida, tanto da potergli lasciare distinguere l'erba sotto le sue gambe doloranti; e una larga macchia di sangue che inzuppava gli steli neri e sottili attorno a lui. Era sangue di certo; nero come pece. Ne sentiva l'odore e ora anche il gusto, ferroso, quasi dolce.

Provò ad alzarsi, cercando convulsamente di aggrapparsi a qualcosa. Ma non c'era nulla, l'albero più vicino era a un passo, ma non riuscì a muoversi di più. Stavolta crollò interamente a terra e sentì l'erba accogliere la sua faccia punzecchiandola come spilli appuntiti. Sentiva il battito del cuore accelerare, ma il suo respiro si faceva sempre più lento, l'aria sfuggiva dai suoi polmoni.

In quel momento gli parve di sentire un rumore avvicinarsi ed ebbe paura, ma mentre riusciva a distinguere ciò che lo provocava, anche un senso di conforto lo invase. Dei passi venivano verso di lui.   

Qualcuno lo toccò, delicatamente lo girò supino provocandogli una fitta acuta al fianco. Però si sentiva meglio, e quella sensazione si stava diffondendo in tutto il suo corpo, dandogli un senso di pace e serenità. Si sentiva calmo.

"Sto morendo?" pensò. Beh, se la morte era così, allora non aveva senso respingerla. No, lui l'avrebbe accolta, con la speranza di rivedere lei. Magari la morte sarebbe stata la sua più grande fortuna.

Una sensazione vivida lo percorse, gelo s'infiltrava sotto i suoi vestiti. "Ho freddo, tanto freddo." Ad aiutarlo sopraggiunse il buio, la vera tenebra, non quello che faceva da sfondo alla mezzaluna nel cielo, ma un nero molto più profondo. Il nero dell'oscurità; il nero della morte o della rinascita.

Aprì gli occhi di scatto e fu investito dalla luce. "Sono morto?" fu il suo primo pensiero.  

Riparò gli occhi con il dorso della mano sinistra. Era il sole, capì, perciò non era morto. "Sono vivo. Vivo..."

Sollevò anche l'altra mano, e la accostò alla sinistra. Strinse le dita, una mano con l'altra, per verificare che ci fossero davvero tutte, per essere certo di essere vivo.

"Uno... due, tre... dieci... Bene" constatò, "ci sono tutte."

Sentiva l'erba, sotto di lui, pungergli la schiena e l'umidità impregnargli la pelle. "La maglietta..." si tastò il petto, avvertendo un'insolita sensazione di freddo. "Dov'è la mia maglietta?"

Si alzò a sedere, strofinandosi gli occhi assonnati. "Dove diavolo sono?" Ricordava l'odore del sangue, il suo sangue, e la stanchezza. Camminava nel bosco, stava male... non ricordava altro.

Ora attorno a lui vedeva solo alberi; alberi e gli accecanti raggi sparsi del sole.

«Ehi tu.» Una figura saltò fuori all'improvviso da dietro un albero. «Tieni.»

Gli lanciò qualcosa. Lui l'afferrò al volo; era la sua maglietta, che ora assomigliava più a uno straccio. Era tutta strappata e insanguinata, ne sentiva l'odore, ma la infilò lo stesso alla svelta.

«Chi sei?» chiese poi al ragazzo che gliel'aveva restituita. "E come diavolo fai ad avere la mia maglietta?" aggiunse col pensiero.

Lui incrociò le braccia: «Strano, potrei chiederti la stessa cosa.»

«Non sono io ad essere sbucato da dietro un albero con la tua maglietta» ribatté.

Il ragazzo sorrise di scherno, sembrava perfino divertito. Si fece avanti: «Voglio solo sapere il tuo nome.»

«Sì, ma te l'ho chiesto prima io.»

L'altro gli tese una mano. Nel volto dalla carnagione pallida, spiccavano due grandi occhi azzurri, che lo fissavano con lo sguardo affilato a mostrare pura diffidenza.

Lui afferrò la mano, anche se con riluttanza: «Mi chiamo Alex» disse sostenendo il suo sguardo. Si lasciò sollevare in piedi e per un attimo barcollò, prima di riacquistare l'equilibrio. Si sentiva scombussolato, gli girava la testa.

Lo sconosciuto mollò subito la presa e cacciò la mano in tasca: «Io sono... No, facciamo che te lo dico più tardi.»

«Cosa?» Alex era perplesso. «Io però te l'ho detto il mio nome.»

«È vero» concesse l'altro. «Ma è davvero così importante, per te, sapere il mio? Non preferiresti sapere come fai a essere ancora vivo?»

Alex ci rifletté un attimo. "In effetti..." «Diciamo entrambe le cose.»

Lo sconosciuto gli volse le spalle: «Vieni con me e ti spiegherò.»





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