Il viaggio di Iblis
In principio era il verbo.
Essere.
Avere.
Andare. Sentire, vedere, correre, volare.
Sognare.
La creatura aprì gli occhi, respirando l'aria limpida di un cielo terso per la prima volta. Quella sensazione di fresco, di spazio e la sensibilità sulla pelle marmorea, quasi tendente al grigiastro, gli fecero realizzare di essere vivo. Una sensazione nuova, inaspettata, che gli fece domandare se quello non fosse altro che l'ennesimo sogno partorito dal proprio inconscio o dalla mente di qualcun altro poiché lui, d'altro canto, finora non ne aveva mai posseduta una.
Riesumato e riportato alla luce come una statua inanimata a cui un'entità superiore aveva fatto dono della vita, la creatura tentò di mettersi in piedi, non capendo bene dove si trovasse.
Attorno a sé infatti, non vi era altro che un'enorme sala, luminosa sulla cima, buia tutto attorno a causa delle dimensioni e in qualsiasi direzione la creatura guardasse non si vedeva alcuna porta. Fatta eccezione per la cupola in vetro sulla propria testa, da cui filtrava la luce, non vi erano nemmeno delle finestre, da cui poter sbirciare all'interno o all'esterno.
Una volta eretta sulle proprie gambe, la creatura dovette mantenere l'equilibrio, faticando a causa dello sbilanciamento sottile provocato da due estremità piumate ai propri lati. Le grandi ali poste sui fianchi, infatti, non erano facili da manovrare, così come quelle piccole presenti ai due lati della testa, sopra alle orecchie, sottilmente a punta.
Di che tipo di creatura si trattasse, non era chiaro. Non aveva un nome, un'etichetta, una definizione, solo un corpo ora animato le cui ali si stavano ancora stabilizzando, la cui coda leonina, munita di ciuffo di peli al termine, si muoveva a destra e sinistra senza un criterio o una motivazione sensata, quasi come avesse cognizione a sé stante.
Facile capire la confusione della creatura nel notare che ancor prima di capire chi o cosa fosse, stava provando una sensazione di vuoto, di paura, di disagio. "Solitudine" forse era il termine più adatto.
Ben presto iniziò a chiedersi per quale motivo si trovasse lì, guardandosi attorno spaventato, mentre la luce proveniente dal soffitto lo illuminava interamente, facendogli provare una sensazione di sconforto. Quella luce tanto calda, sembrava infatti irraggiungibile. Contando che mancavano le porte e le finestre, la creatura sì sorprese più in ansia di quanto credesse.
"Ti sei svegliato" tuonò una voce, rimbombando per tutta la sala.
Inizialmente la creatura si spaventò, portando le mani sopra alla testa come avessero potuto proteggerlo. Solo dopo pochi istanti realizzò che non c'era nessuno nelle vicinanze, quindi avrebbe potuto parlare liberamente.
"Chi sei?" chiese, timidamente.
La propria voce gli rimbombò nelle orecchie, assumendo una connotazione strana, ma familiare. La sentiva sua come se lo fosse stata da sempre e la cosa lo rincuorò, facendolo sentire un po' più a suo agio, testimone la coda leonina, mossa con vivacità.
"Ha importanza?" chiese la voce, di rimando.
In un primo momento la creatura non disse nulla.
"Chi sono io?"
"Chiunque tu voglia essere"
"E perché sono qui?"
"Per compiere un viaggio"
Non erano partiti esattamente con il piede giusto. Tutta quella vaghezza, quelle risposte poco chiare molto più simili ad altre domande, piuttosto che a vere indicazioni, confusero la creatura ancora di più. Inoltre, non aveva la più pallida idea di cosa fosse un "viaggio".
"Cosa dovrei fare esattamente?" insistette quindi.
Accanto a lui comparvero dei vestiti come per magia, materializzandosi lentamente, come dovessero prendere forma con il tempo, quasi estratti da un altro universo.
La lunga canottiera bianca dallo stile greco-romano, con le rifiniture dorate, non attirò subito l'attenzione della creatura, che impiegò qualche minuto per capire come s'indossasse, mentre la casacca blu, decorata in bianco alle estremità, aperta al centro per essere chiusa manualmente grazie a un accessorio dorato all'altezza del collo, lo stregò sin da subito. Si accorse essere in tinta con la propria pelle, color indaco alle estremità degli arti, solo una volta indossata.
Assieme ad essi vi erano anche un paio di sandali alla schiava e alcuni accessori in oro, probabilmente per le ali e la coda, che tuttavia non indossò subito.
"Verrai mandato in un altro mondo e osserverai gli esseri umani, che t'insegneranno cosa sia la vita. Imparerai ad amarli e ad odiarli, ne scriverai le gesta e ne terrai a mente la storia, come un raccoglitore di memorie" continuò la voce.
"Scrivere?"
Accanto alla creatura comparve un blocco d'altri tempi, dalle pagine spesse, attaccate tra loro tramite una cucitura altrettanto spessa, evidente sulla cima. Accanto ad esso, una matita di sola grafite grezza, sostava immobile.
Il ragazzo prese il tutto, rimanendo a osservare blocco e matita per qualche istante, confuso a dir poco. Si era svegliato come da un sonno infinito e la pretesa della voce era che fosse mandato in una terra non sua, scrivendo su quel "aggeggio" che non aveva mai visto prima.
La confusione iniziò a metterlo ancora una volta a disagio, facendolo sentire ben poco all'altezza di un simile compito. A quale scopo fare una cosa simile? E soprattutto, ancora una volta, in cosa consisteva questo dannato "viaggio"?
"Non capisco..." mormorò.
"Non ne dubito"
La voce si prese gioco di lui, ma era evidente che la creatura non aveva l'esperienza necessaria per capirlo.
"Come farò a trovare questo viaggio?" domandò, ingenuamente.
Nella mente della creatura si materializzarono una velata serie di immagini, come avesse la sensazione che il proprietario della voce stesse sorridendo, benché non avesse ancora mostrato una sua forma fisica, tangibile. Eppure ora il ragazzo aveva quella sensazione, decisamente più piacevole rispetto a quelle provate poco prima.
"Sarà lui a trovare te" si limitò a rispondere la voce.
Il ragazzo fu sul punto di rispondere, di fare altre domande poiché ne aveva così tante, ma non gli venne concesso il tempo di esprimersi.
In pochi istanti sentì un senso di vuoto farsi largo non solo tra le proprie membra, ma anche nella testa, nei pensieri, in ogni fibra del proprio corpo, come se fosse stato risucchiato da un vortice senza fine. La testa iniziò a girargli senza pietà alcuna e ben presto il corpo fu avvolto da una sensazione di galleggiamento, come se non si fosse trovato da nessuna parte, in alcun luogo fisico.
In parte quella sensazione di calma, con la possibilità di galleggiare libero nel vuoto cosmico, era piacevole, dava un senso di libertà incredibile.
Sarebbe stato tutto così piacevole e rilassante se non fosse stato per il senso di giramento di testa che ben presto tornò ad attanagliarlo, iniziando a fare pressione sulle tempie. La sensazione di chiuso, di stretto, quasi come se si fosse trovato all'improvviso in una gabbia troppo angusta per la sua dimensione, gli fece strozzare la voce in gola, facendone uscire solo un sibilo.
L'istante dopo finì con la testa contro la sabbia, come fosse caduto da qualche metro di altezza e avesse accidentalmente sbattuto la testa contro la prima superficie disponibile.
Soffocò uno squittio di dolore, sedendosi sulle ginocchia per massaggiarsi la testa, le cui ali erano ancora al loro posto, anche se un po' strapazzate.
Fu solo dopo qualche istante che la creatura non solo si rese conto di dove si trovava, nel bel mezzo di un deserto sabbioso, distante qualche chilometro da un villaggio visibile in lontananza, ma anche di essere osservato.
A qualche metro da lui, infatti, dei mercanti stavano sistemando le loro tende, la cui stoffa intessuta probabilmente a mano era sostenuta da palizzate di legno smontabili, tenute assieme da corde piuttosto resistenti. Dovevano essere viaggiatori del deserto, ma a quale popolazione appartenevano? A quale mondo appartenevano?
La creatura fece per sollevare una mano in un gesto naturale, sapendo per istinto che quello corrispondeva a un saluto in quasi qualsiasi cultura in giro per l'universo, ma subito gli umanoidi fecero dei passi indietro.
"Iblis! Iblis!" gridarono, visibilmente spaventati.
Inizialmente la creatura non capì quelle parole, ma colse la loro paura. In un primo momento confuso, il ragazzo spostò lo sguardo dall'orizzonte, con le casupole del villaggio a malapena visibili, agli uomini, sciogliendosi poi in un dolce sorriso.
Quello era il nome che gli avevano dato e quello era il nome che si sarebbe tenuto, nonostante non sapesse cosa potesse significare nella loro lingua o secondo la loro cultura.
Un nome non era altro che un nome, in fin dei conti. Lui avrebbe imparato ad apprezzare ciò che la vita gli avrebbe donato, tutto ciò che poteva fare, al momento, era mostrare un sorriso ed essere gentile.
Il viaggio era iniziato.
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