Raffreddore
Bill si sentiva congestionato.
Il senso di stanchezza gli rendeva le palpebre pesanti, il che in realtà non costituiva una particolare novità. A quell'ora della sera le sue palpebre tendevano sempre a calare verso il basso. I contorni del suo ufficio prendevano una piega irreale, sfumata, e gli stessi colori parevano assumere tonalità diverse, come vagamente più opache. Solitamente, interpretava quella manifestazione di stanchezza come il segnale che la giornata lavorativa stava volgendo al termine: poteva chiudere baracca e incamminarsi lentamente verso casa.
Quella sera, in particolare, al senso di stanchezza si sommava la sensazione di star covando un raffreddore: aveva brividi di freddo, il naso gli colava e aveva l'impressione che la temperatura gli fosse salita. Si strinse nelle spalle, imboccando la strada che conduceva a casa sua.
Conduceva una vita alquanto povera d'interazioni sociali: non aveva una propria famiglia, pur avendo ampiamente superato l'età in cui era ritenuto quasi doveroso iniziare a progettare di metterne su una; non aveva una cerchia di amici particolarmente ampia e quei due o tre suoi coetanei coi quali era solito prendere qualcosa da bere, uscendo dal lavoro, negli ultimi tempi sembravano essersi volatilizzati nel nulla; era orfano praticamente da che avesse memoria, situazione neanche troppo insolita, dalle sue parti; i suoi colleghi, neanche a parlarne: che lui ricordasse, non aveva mai condiviso con loro asserzioni che si discostassero dall'ambito lavorativo o dalle canoniche formalità imposte dall'educazione.
Ultimamente, per altro, non gli era risultato difficile averli in odio, dal momento che tutti e tre avevano (non aveva idea se premeditatamente o meno, ma gli piaceva immaginarseli privi di un tale, perverso, senso comune) deciso di assentarsi dal lavoro in contemporanea. Bill sapeva che avrebbe dovuto mostrarsi almeno un minimo più preoccupato dello stato dei suoi colleghi, sopratutto in seguito al fatto che nessuno di loro aveva risposto alle sue telefonate, una per ciascuno. Che si fossero davvero coalizzati contro di lui? In effetti gli era parso più volte di vederli scambiarsi occhiate eloquenti, sguardi muti e al contempo pregni di parole. Con sua sorpresa, realizzò di sentirsene rammaricato.
Un colpo di tosse lo riportò al pensiero del raffreddore e solo allora realizzò di aver, disgraziatamente, imboccato la strada sbagliata, quella che si premurava ogni giorno, con molta cura, di evitare. La spiegazione apparente, quella che ufficialmente, forniva, qualora gli fosse richiesta, consisteva nel fatto che quella strada allungava sensibilmente il tragitto verso casa, affermazione solo vagamente iperbolica. Ma la ragione reale che lo tratteneva dall'attraversala era un'altra. Si era sempre mostrato come un individuo estremamente scettico, uno la cui scorza invalicabile di razionalità non poteva minimamente essere penetrata da qualsivoglia credenza popolare, che lui liquidava sistematicamente, archiviandole tutte sotto la voce "Stupidaggini" del suo personalissimo schedario mentale. Be', tutte, eccetto quella che riguardava quella strada.
Si trattava di una strada di periferia, proprio al limitare della città; era dissestata, pressoché deserta e infestata da una vegetazione fitta e selvaggia, che rendeva ostico il passaggio. A dominarne l'immagine e ad averle attribuito popolarità erano sicuramente le due immense gallerie che la costeggiavano, uniche (per quanto Bill ne sapesse) vie d'accesso alla città, per chi venisse da fuori. Gli adulti solevano, per redarguire i bambini dall'avvicinarvisi troppo, narrare una leggenda secondo cui, periodicamente, un uragano di portata immane, dall'inaudita potenza distruttiva, travolgeva quella stradina, scuotendone le viscere e travolgendo qualunque cosa avesse la sfortuna di incrociarne la furia, per poi espellerlo fuori, attraverso le gallerie. Era quella, stando alla leggenda, la ragione per cui si trattava di un luogo pressoché disabitato, dominato soltanto da scheletri di edifici che svettavano, minacciosi, sul groviglio di sterpi bruni.
Spesso Bill, da ragazzino, aveva osservato i suoi coetanei sfidarsi in prove di coraggio, spingendosi sempre più fino all'imboccatura delle due gallerie, ma si era sempre comportato da spettatore passivo, cercando accuratamente di nascondere il brivido di paura, sotto un cipiglio di scettica disapprovazione per quei giochi puerili. Non avrebbe saputo dire perché, ma aveva sempre avuto la sensazione che un fondo di verità ci fosse, dietro quella favoletta per terrorizzare i creduloni.
Rabbrividì al ricordo, o almeno, suppose che il brivido fosse dovuto al ricordo. Fu solo dopo alcuni istanti che si rese conto della leggera brezza che s'era alzata e ora scuoteva la vegetazione che cresceva dal terreno, increspandone la superficie come fosse una distesa d'acqua. Si strinse nelle spalle, avvertendo in contemporanea un leggero quanto insistente pizzicore alla gola: doveva certamente aver preso l'influenza. Magari gliel'avevano passata i suoi colleghi, magari era quella la causa della loro recente assenza.
Riprese il passo con rinnovato vigore, dirigendosi spedito verso il limitare della stradina, sentendosi sollevato al pensiero di raggiungere la propria casa, metter su qualcosa di caldo e abbandonarsi a un buon riposo, che sperava l'avrebbe rimesso in sesto. Ancor più, per quanto non l'avrebbe mai ammesso apertamente, si sentiva sollevato all'idea di starsi allontanando da quel luogo che aveva, ai suoi occhi, un che di funereo.
Stava per svoltare a destra, quando una seconda folata di vento, notevolmente più consistente della prima, lo riscosse, facendolo tremare da capo a piedi. Per un istante, Bill ebbe la curiosa sensazione di udire una voce, in lontananza, una voce roboante e cavernosa, che emetteva versi primitivi e per lui incomprensibili.
Etciù!
È così breve, la vita di un batterio.
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