I Miei Occhi Sono Su Di Te
La profondità della vita attenuerà la mia tentazione di vivere per te.
Quindi ho messo le mie braccia intorno a te.
I miei occhi sono su di te
e vedi che non riesco a smettere di tremare. Guarderò in basso per nascondermi dai tuoi occhi.
I miei occhi sono su di te
e spero che non mi ferirai.
Dancing
Elisa
«Buongiorno, splendore».
Poe la ridesta con un bacio mentre lei si stiracchia. Sono solo pochi momenti prima che i loro movimenti, per quanto sommessi, sveglino scimmietta.
«Ti ricordi che stamattina abbiamo da fare un po’ di giri?» le sussurra sottovoce per non svegliare la piccolina.
«Un sacco di cose, Top Gun» gli sbuffa in un orecchio. Dentro di sé sa già che tutti quegli impegni significano “non parleremo”: niente spiegazioni in merito alla sera prima e al rapporto tra lui e Rey. Jen teme che tutto cada nel vuoto perché la partenza di Poe è agli sgoccioli. Quando fa per mettersi a sedere, lui la trae sul suo petto.
«Aspetta, ancora un momento» le bacia e ribacia i capelli, accarezzandoli, poi la trae più su perché i loro occhi si incontrino. «Jen, in questi mesi, la cosa più bella è stata dormire abbracciato a te. Aprire gli occhi e vedere i tuoi capelli biondi sparsi sul mio petto, sentire il tuo calore, respirare il tuo profumo. Come farò senza tutto questo? Ci ho fatto troppo l’abitudine e mi mancherà come l’aria» ridacchia per non sembrare melodrammatico. Quello che le ha detto è vero però; se ne fa già una malattia di separarsi dalle sue piccole donne per un tempo indefinito.
Jen non dice niente, solo lo bacia, appena in tempo che scimmietta inizi a reclamare la sua parte di attenzioni dal pilota, mugugnando nel dormiveglia.
Un’ora più tardi sono in macchina e hanno lasciato Lily al centro estivo.
«Sono un po’ nervosa per la seduta di fisioterapia di oggi» ammette Jen, guardando distrattamente scomparire le sagome delle case, fuori dal finestrino dell’auto.
«Sei nervosa? Ci sono stato altre volte dalla fisioterapista con te, dai» Poe le stringe la mano per rassicurarla.
«Andrà bene.»
«E se non ci riuscissi? Se proprio oggi non ce la facessi? Questa è la prima volta che vedrete i progressi delle ultime settimane.»
Poe porta il dorso della mano tremante di Jen alle labbra per infonderle che troppo spesso le manca.
Una volta nella sala d’attesa dello studio, trovano Tess ad attenderli. Jen entra per prima, come di consueto. Gli altri la raggiungeranno poco dopo.
L’ambiente è essenziale, circondato solo da pochi quadri, attestati e lauree appesi alle pareti, e delimitato da un perimetro di poltroncine in pelle blu.
Non ci sono molte persone a eccezione del personale che si avvicenda nelle varie stanze per le terapie. Tess si siede accanto a Poe e, con le mani giunte sulle ginocchia, gli parla a voce bassa.
«Poe, so che non me lo dirai mai ma... insomma, Jake è tornato all’improvviso, prima del previsto, e credo che...»
A quel punto l’ufficiale solleva lo sguardo che fino a quel momento ha tenuto fisso sul pavimento di porfido bianco. «Tess, io non c’entro» mormora.
Eppure i suoi occhi grandi e sinceri, per quanto abili a mascherare sempre il vero Poe dietro ironia e spavalderia, non possono mentire. Le dita di Tess si muovono in automatico a intrecciare quelle dell’aviatore.
«Poe, io davvero... mi dispiace. Non so che razza di persona tu puoi pensare che io sia, dopo quella sera a Miami. E sì, sono stata patetica.»
L’uomo ricambia la stretta delle loro mani, portando anche il palmo dell’altra a coprire il dorso di quella della donna. «Avevamo detto di non tornarci più su quest’argomento. Io non ce l’ho con te. Sono nella vostra vita da pochi mesi. Posso solo immaginare la stanchezza, lo sconforto che si provino a vivere, da anni, una situazione che era già pesante prima dell’incidente di Jen e che poi dev’essere diventata insostenibile. Poi è arrivata la gravidanza, Lily. Siete delle donne coraggiose, piene di dignità. Hai fatto uno sbaglio, siamo umani. Alla fine, non è successo niente.»
«Non è successo niente perché tu sei un brav’uomo e sei davvero innamorato di mia sorella. Se tu fossi stato un farabutto però, io non mi sarei fermata quella notte. Avrei fatto del male al mio stesso sangue. Mi vergogno di me. E sì, sono sicuramente stanca – gran bella giustificazione eh?! – non di mia sorella però, ma dell’assenza di Jake. Con Jen non posso parlare. Non posso darle pure i miei pesi. E, credimi, non voglio darli a nessuno.»
«Non è successo niente, Tess, perché anche tu hai saputo fermarti. Non tormentarti. Con i se e con i ma non si va da nessuna parte» la rincuora.
Poco dopo la terapista li invita a entrare.
Jen fissa, da sola, l’imbracatura dell’esocheletro al proprio corpo; lo fa già da diverso tempo, è diventata svelta. Inforcate le stampelle, vi fa leva e si solleva in piedi, piano.
Così come, ancora più lentamente, solleva gli occhi a fronteggiare quelli dell’uomo che ama. E lui si fa trovare pronto. Forte. Per lei.
Lo sguardo che le restituisce è colmo, la sclera visibilmente arrossata attorno alle cornee: è impossibile non notare la rottura dei capillari.
Jen avvia il sostegno meccanico e compie qualche passo, con le stampelle, lungo un piccolo percorso dotato di barre laterali. A un certo punto, posa una gruccia alla barra, sulla quale si poggia con una mano. Subito dopo ripete la stessa operazione con l’altra. Ora avanza con entrambe le mani poggiate sui sostegni laterali. Alla fine del percorso che esse delimitano, compie, senza appigli, i passi che la dividono da Tess – completamente in lacrime – e un Poe emozionatissimo.
Un fremito scuote tutti e tre mentre si abbracciano. Ha camminato. Per qualche breve passo. Ha camminato da sola. Verso di loro. I tre si stringono forte. Tess e Jen piangono ma anche il pilota asciuga qualche lacrima tra le ciocche dorate della sua amata.
«Jen, piccola mia» sussurra Tess, accarezzando la guancia della sua sorellina mentre si guardano.
P
oe tiene tra le braccia le sue straordinarie donne. È un momento di grande commozione anche per il personale medico e paramedico presente. È una gioia indescrivibile come i progressi della scienza accompagnino la determinazione personale di un individuo e, senza dubbio, sono straordinari anche i piccoli miracoli compiuti dall’affetto e dalla cura quotidiana e amorevole di chi vive accanto a Jen, tutti i giorni.
Dopo l’emozionante momento appena vissuto, Poe e Jen si separano da Tess che rientra al lavoro.
La prossima tappa è il barbiere che raserà i ricci indomiti e la barba dell’aviatore, visto che sta per rientrare alla base aerea in Florida di lì a due giorni.
Ma la Porsche Wampa del pilota prende una direzione diversa.
Non ha mai mostrato il posto dove sta portando Jen a nessuno. Vi si è sempre recato da solo. Oggi sente di volerlo mostrare a lei per tutta una serie di buoni motivi sui quali ha riflettuto tanto da non essere mai stato così sicuro, prima, del perché sia necessario farlo.
Con un braccio cinge Jen dalla vita, aiutandola ad alzarsi dalla sedia a rotelle. Muovono pochi passi: lei si appoggia saldamente a lui, agganciando un braccio dietro la sua schiena e l’altro, in avanti, poggiato all’avambraccio di Poe.
Delicatamente si siedono entrambi sull’erba.
Al Woodlawn c’è una piccola targa in più che il tenente colonnello Dameron ha fatto apporre, al suo rientro – poco più di tre mesi e mezzo prima – vicino all’epigrafe dedicata al ricordo amorevole di Shara Bey: sua madre.
Il marmo reca inciso il fiore di mandorlo. Sotto il bassorilievo c’è il nome di famiglia: Dameron, c’è la data di un concepimento e quella nella quale una piccola scintilla di vita si è spenta, spiega Poe.
Una frase recita: A un fiore mai sbocciato.
I girasoli sono sempre stati i fiori preferiti di Shara – l’aviatore continua a raccontare a Jen – glieli porta quando sente il bisogno di parlare un po’ con lei.
Poe spiega a Jen perchè, oggi, accanto ai girasoli freschi, spunta un ramo di mandorlo fiorito, cesellato finemente nel nembro rosato.
Ci ha riflettuto spesso, Poe: un embrione non una vita; dunque si dice così quando uno si fa prendere dai sentimentalismi.
Eppure l’avrebbe voluta la possibilità di scegliere ma il destino gli ha presentato l’ennesimo conto salato, senza chiedere permesso.
La razionalità che non possiede di natura, ma ha dovuto imparare, ha seppellito ogni desiderio; perché questo si fa per restare a galla. Una prima parte delle confessioni scabrose è stata affrontata, la punta dell’iceberg scalfita.
Jen lo guarda; gli occhi scuri e lucenti come stelle se ne stanno fissi sul fiore di mandorlo mentre deglutisce cercando le parole che muiono, soffocate lentamente nel respiro pesante che gli solleva la cassa toracica in modo irregolare.
Jen gli posa una mano al centro del petto e può sentire il tumulto interiore che lo scuote, irradiare attraverso le pulsazioni accelerate.
Vorrebbe liberare, con una sola carezza, quel peso intrappolato tra costole.
Poe è loquace, tantissimo. Lo è sempre stato. Solo se non deve mai parlare di come si sente.
La donna gli volta dolcemente il viso verso il proprio, prendendogli il mento tra due dita.
Gli preme una mano su una guancia, mentre con il palmo dell’altra fa leva sull’erba per tenersi a sedere in equilibrio.
Lo trae a sé baciandogli la fronte, dalla quale traccia una scia calda che discende soffermandosi a lambire le ciglia di seta umide.
Un bacio, ancora, rincorre un rivolo acre lungo lo zigomo, fino sull’angolo destro delle labbra, nel mezzo della barba striata di qualche scintilla argentea.
Allo stesso modo, con infinita grazia, ripete lo stesso percorso sull’altra guancia. Fronte contro fronte, i nasi di entrambi premuti uno contro l'altra. I respiri che si fondono. La mano di Jen scende di nuovo al centro del petto dell’uomo che ama, muove le dita in piccole carezze circolari, sulla stoffa leggera della camicia e lo guarda. Incastra i propri occhi in quelli di Poe. Sente il suo cuore rallentare, il respiro che mano a mano torna regolare.
Poe, che fino a quel momento è stato immobile, incapace di articolare un qualsivoglia movimento, d’improvviso la stringe con entrambe le braccia, per poi prenderle il viso tra le mani perché possa guardarlo molto bene mentre ha deciso di destrutturare, una a una, le travi di titanio che per troppo tempo hanno chiuso il suo vissuto nel reticolato della carlinga che ha intessuto a protezione del suo dolore.
Racconta a Jen di Rey: del rapporto che da sempre – e per sempre, in qualche modo – li unisce e li unirà. La tenerezza che è diventata passione e che adesso si sublima nell’amore più puro che ci possa essere tra due persone che hanno condiviso dai momenti più spensierati ai più pesanti.
Poe racconta a Jen, e mentre lo fa, per la prima volta riesce a interiorizzare ed elaborare non la fine ma l’evoluzione del rapporto tra lui e Rey.
Racconta a Jen che il destino è ciò che capita mentre tu compi delle scelte. Tra lui e Rey non è finita perché lei si è innamorata del professor Solo, suo collega a Boston. Tra lui e Rey è finita perché semplicemente non erano destinati a essere una coppia. Di certo si sono fatti famiglia l’uno per l’altra. Nelle loro solitudini hanno camminato mano nella mano e Poe dice chiaramente a Jen che, la mano, l’uno dell’altra, lui e e Rey non la lasceranno mai andare. Non sarà nemmeno la beffa di un figlio concepito su un milione di possibilità, nel momento più sbagliato, e mai nato, che slegherà le loro mani.
Per tutto il tempo Jen lo guarda in silenzio, mentre ha sempre tenuto il proprio palmo sulla guancia di lui, scorrendovi il pollice, di tanto in tanto.
«Anime gemelle: questo siete» sono le uniche parole che la donna riesce a commentare dopo averlo ascoltato.
Poe rimane con gli occhi fissi nello sguardo cristallino e puro della donna che ha davanti e scioglie l’ultimo nodo che lo imprigiona sulle labbra di ciliegia della sua Jen.
«Sei dolce, tanto. E io ti amo» le sussurra, prima di serrarle il respiro in un bacio lunghissimo, dato nel posto più improbabile del mondo, nel luogo dove il niente soffoca la vita o dove l’amore vince, prima o poi, persino il dolore.
Dopo la sosta dal barbiere, che ha trasformato l’aspetto dell’aviatore, Jen e Poe tornano a casa.
È quasi mezzogiorno e Jen sale in camera sua per cambiarsi. Poe resta di sotto a chiacchierare con Jake e Tess, rientrata per la pausa pranzo per trascorrere più tempo possibile con suo marito. Qualche istante più tardi, mentre Poe e Tess apparecchiano e Jake prepara i piatti da portare a tavola, arriva una chiamata sul telefono fisso di casa. Tess non risponde sebbene gli squilli siano prolungati.
«È di sicuro pubblicità. Adesso pranziamo. C’è poco tempo. Se è urgente richiameranno» asserisce la donna.
Gli squilli si interrompono di colpo ma, dal piano superiore, pochi istanti dopo, giunge un tonfo e Poe è sicuro di udire distintamente un lamento. Guarda immediatamente Tess e sul viso della donna scorge il suo stesso sconcerto.
Imbocca le scale, precipitandosi verso camera di Jen; spalanca la porta socchiusa: sulla soglia, di fianco al battiscopa, c’è il cordless semidistrutto e Jen che si tiene la testa tra le mani, raggomitolata su se stessa, i gomiti poggiati sulle ginocchia e i capelli a coprirle quasi del tutto il viso. Singhiozza sommessamente.
Poe fa per muovere qualche passo verso di lei che però, al minimo scricchiolio delle assi del pavimento, lo blocca, ponendo un braccio teso davanti a lei ed esclamando un secco «No!»
«Jen» controbatte lui, avanzando fino a porsi in ginocchio davanti a lei, afferrandola per le spalle.
«Non capisci che vuol dire no?» insiste lei, più decisa, nonostante la voce spezzata che fuoriesce a fatica. I capelli che le nascondono quasi del tutto il viso del quale l’uomo può scorgere solo la punta del naso arrossata e l’ombra delle labbra deformate da un’espressione innaturale.
«Vattene, perdio! Che cosa non hai capito? Non è il momento!» urla Jen esasperata, mentre trema, tenendo le mani sulle sue braccia.
A un tratto Poe guarda verso il letto, attirato da un odore acre mentre osserva una chiazza giallastra che tende al marrone essersi allargata sulle lenzuola. Serra gli occhi e si passa una mano sul viso.
Poi solleva il palmo dell’altra verso la guancia di Jen. La infila tra i capelli che le si sono appiccicati alle guance e glieli sposta. Tiene il capo chino, lei, eppure Poe può scorgere quanto il dolore le abbia trasfigurato il volto.
A quel contatto, la donna si ritrae, «ti ho detto di andartene» gli intima tra i denti.
«Io non me ne vado» aggiunge lui, abbracciandola.
Lei fa leva con forza con i palmi delle mani contro il suo petto per allontanarlo, ma lui non allenta la presa.
«Vattene» quasi lo supplica sfinita. «Vattene.»
E lui non la lascia «Non me ne vado. Io non ti lascio. Mi senti? Non ti lascio. Non funziona così» la tiene stretta con fermezza fino a che lei non smette di respingerlo e si arrende alla stretta delle sue braccia.
«Non ti lascio. Io non ti lascio, Jen.»
Glielo sussurra tra i capelli intrisi di lacrime mentre i singhiozzi del pianto la scuotono.
Tess sopraggiunge sulla soglia di camera di sua sorella ma Poe la ferma facendole cenno di dargli ancora qualche momento.
«Che cosa è successo? Dimmelo. È Lily? Problemi al centro estivo?»
A quel punto Jen si stringe più forte a lui. Artiglia le dita sulle spalle dell’uomo, stringendo forte la stoffa della camicia.
«Amy... l'hanno trovata in un vicolo. Un’overdose, hanno detto» singhiozza forte col viso premuto sulla una spalla di lui. «È morta, Poe. Non c'è più niente da fare. È stato tutto inutile. Tutto.»
E quel “tutto” il pilota comprende bene a cosa alluda: se Amy fosse guarita, se fosse riuscita a disintossicarsi, per Jen avrebbe avuto un senso, almeno in parte, essere finita paralizzata per averla protetta dall’ira un padre che è stato la causa di quella tossicodipendenza. E di tutto il malessere delle tre sorelle.
Quello di Jen sarebbe stato “un sacrificio” ripagato da un lieto fine per Amy, ma non può più essere così. Niente ha senso per Jen, niente più ormai.
La tiene stretta accarezzandole i capelli, per qualche istante, mentre lei seguita in un pianto convulso e irrefrenabile che lui non riesce a calmare in nessun modo. Si sente così inadeguato.
«Jen» le dice sottovoce, è molto provato anche lui, «qui fuori c’è Tess, adesso la faccio entrare. Io intanto vado a prepararti un bagno, va bene? Ti aspetto di là, quando te la senti. Prendetevi il tempo necessario.»
Come gli stessero strappando il cuore dal petto si separa da lei. Pochi passi e incrocia Tess in corridoio. «Appena possibile accompagnala in bagno, io preparo tutto.»
Tess capisce che Jen abbia avuto un brutto episodio di disregolazione autonomica – quello improvviso e più spiacevole, nonostante i piccoli cateteri posizionati sulla pancia e dietro la schiena, proprio per evitare fuoriuscite imbarazzanti. Non ne conosce ancora la causa però, Tess. «Vuoi che ci pensi io per aiutarla, Poe?»
«No, conosco i posti, Tess. Aspetto Jen in bagno.»
Una mezz’ora più tardi Jen lo raggiunge. Indossa solo una maglietta ampia e lunga e sulla seduta della sedia a rotelle c’è un telo cerato.
Poe è in ginocchio accanto alla vasca. Controlla che l’acqua sia alla giusta temperatura.
«Grazie, puoi andare ora, faccio da sola» gli dice con gli occhi arrossati dal pianto e un filo di voce.
«Voglio stare qui con te, posso?» chiede, trattenendo a stento il tremore nella voce nel vederla così provata.
Jen, abbassa lo sguardo con le braccia inerti, lungo il busto, poggiate sulle gambe. Poe le si avvicina accovacciandosi per porsi di fronte a lei, che seguita a tenere il capo chino. Le sfila la maglietta sotto la quale la donna non indossa niente. Lei lo lascia fare. La solleva per adagiarla nella vasca. Lui sta lì accanto. Pone la propria fronte contro quella di lei e la lava. I capelli prima, la schiena. Le mani dell’uomo si prendono cura del bene più prezioso di cui la vita gli abbia fatto dono.
Il tempo scorre lento in quella stanza da bagno, come l’acqua e le mani di un uomo innamorato sulla pelle diafana di Jen, che se ne sta poggiata sulla spalla di lui e gli permette di spingersi ad avere cura di lei fino dove neanche lei è mai arrivata.
Il tempo scorre lento, in quella stanza da bagno, mentre Poe le avvolge un grande telo di spugna intorno al corpo per asciugarla e un altro più piccolo che le pone sui capelli, frizionandoli mentre, con un lembo dello stesso, le tampona il viso.
Le pettina i capelli piano, poi procede con il phon. Tiene gli occhi chiusi Jen mentre si lascia cullare dal tocco gentile di quelle mani che spostano le ciocche umide per assicurarsi che ognuna sia ben asciutta. La aiuta a rivestirsi e, poco dopo, si ritrovano nella stanza di Jen.
Poe la adagia sulle lenzuola pulite, di cui Tess ha provveduto al cambio nel mentre loro due erano in bagno. La stringe Jen nell’incavo del suo collo e le tira addosso un piumino leggero che sosta a piedi del letto. Dalla finestra aperta l’aria settembrina comincia a essere freschetta. E Jen ha freddo. Dentro, soprattutto. Ancora trema, rannicchiata contro di lui che non ha mai smesso di carezzarle i capelli e scaldarle i piedi, tenendoli intrecciati tra i suoi polpacci. Le scalda anche le mani, che stringe tra le proprie, mentre l’ha avvolta nel piumino e la guarda; ha gli occhi chiusi, le ciglia bionde dove qualche minuscola goccia è ancora incastrata, il viso paonazzo è tornato a un incarnato accettabile. Con una mano tiene quelle gelide di lei. Con un braccio se la stringe forte contro di sé, avvolgendola tra il suo petto e la coperta.
È affranto all’idea della partenza imminente tra soli due giorni. Affranto all’idea di non poterle stare vicino proprio in un’occasione del genere.
Qualche momento dopo, Jen solleva il viso e reclama gli occhi del suo uomo. Lo chiama con dolcezza, «Poe.»
Lui la guarda. Gli occhi ancora straziati dalla sofferenza per sua sorella minore. Jen sentiva che sarebbe potuto succedere ma ci ha sperato fino all’ultimo che il sacrificio d’amore compiuto per quell’anima fragile fosse valso il prezzo della libertà perduta, che le ha tolto la possibilità di camminare.
«Poe» lo chiama dolcemente. Gli prende il viso tra le mani e lo guarda fisso negli occhi. «Scusa per prima. È che mi...»
«Ssstt» la zittisce ponendole l’indice sulle labbra.
«No, fammi continuare» insiste lei senza mai avere smesso di tenere incatenati gli occhi scuri di lui nei propri. «Io... io ti amo, Poe. Con tutta me stessa. Adesso tu partirai e voglio che ci prendiamo del tempo, per riflettere su noi due.»
«Jen che... che stai dicendo?» scandisce lui a fatica.
«Quello che ho detto Poe» scioglie l’abbraccio e si mette a sedere. «Ci prendiamo questo tempo lontani come pausa per riflettere.»
«Riflettere?» si solleva anche lui sugli avambracci guardandola esterrefatto. «Su che cosa dobbiamo riflettere? Scusa.»
«Io ho bisogno di capire com’è stare senza di te, perché in questi mesi non ci siamo separati un attimo e non va bene così.»
«Non va bene cosa? Mi guardi, per favore?» la fronteggia prendendola con delicatezza per le braccia. «Ci siamo appena detti che ci amiamo e ora vuoi riflettere? Ma ti ascolti quando parli? È assurdo quello che dici.»
«Non è assurdo, non per me, Poe. Mi dispiace non capisci» mormora lei.
«E allora spiegamelo! O almeno provaci, perché per me non ha nessun senso. Ti ho aperto il mio cuore. Sono riuscito a dirti cose di cui non ho mai parlato con anima viva. È stata una giornata pesante, Jen. Non decidere niente, ora. Per favore. Ci sono troppe emozioni in ballo.»
Gli prende le mani. Entrambi stanno a testa bassa, l’uno di fronte all’altra. «Poe, la morte di Amy non c’entra con quello che sto dicendo. È qualcosa su cui rifletto da un po’.»
«No no no, Jen. Tu non lo sai affatto quello che dici,» gesticola nervoso lui.
«E invece sì. E tu lo devi accettare. Sono arrivata a un punto nel quale io credo di non saper vivere senza di te. A un punto nel quale se tu mi lasciassi io morirei di dolore. E non posso permetterlo.»
«Ma che stai dicendo? È follia pura lasciarci dopo i momenti che abbiamo vissuto, specie in questa giornata. Amo te e Lily come la mia vita. Me lo spieghi come faccio? Me lo spieghi come lo dici a tua figlia, Jen? Maledizione!» le strilla contro.
Lei si prende la testa tra le mani, martoriando il labbro inferiore tra i denti e riprende a tremare.
«Jen... Dio, scusami, non volevo alzare la voce. Scusa, scusa, scusa» la stringe, baciandole le guance. «Jen ho capito quello che dici, però non è necessario che ci lasciamo. Ci prendiamo questo tempo. Va bene. Ma ti prego io voglio chiamarvi per sapere come state. Ho promesso a Lily che ci sentiremo in videochiamata il pomeriggio sul tardi, quando da me sarà sera, in Iraq. Io gliel’ho promesso. Non posso, non voglio venire meno alla parola data. Non le posso fare questo. E tu, tu non farlo a me. Avremo qualche mese per stare lontani e ti potrai riabituare a vivere senza avermi sempre intorno. Perdonami se non ti ho lasciato respirare.»
«Poe, il problema non sei tu; è che l’amore che provo è così forte che ho paura di dipenderne e di dipendere da te. È solo questo che non voglio: essere un peso. Diventerebbe tossico e insopportabile, negli anni. Quello che è successo oggi è raro, ma ti assicuro che capita e capiterà. Un’emozione improvvisa può scatenare quello schifo anche mentre facciamo l’amore. È orribile, Poe. Io non...»
«Basta Jen» la supplica esasperato. «Io l’ho sempre saputo che poteva succedere. Che cosa credi? Che mi sia preso solo il bello di noi? Ho studiato, mi sono documentato fino a tarda notte. Ho parlato con dei dottori perché non ho mai voluto solo la parte facile, con te. Io ti amo, Jen so solo questo. E tu hai paura, questo è il punto. Lo capisco ma non devi averne di me.»
«Ti amo anche io, Top Gun più di quanto saprò mai dire. Sei meraviglioso e io, sì, sono una fifona.»
«Io non voglio farti male, Jen. Non voglio farti male.»
Lo abbraccia forte. La stringe anche lui tra il suo petto e la coperta. Non trema più. Le accarezza la testa fino a che non si addormenta mentre lei, con le dita, gli contorna l’orlo del mento glabro, mai saggiato prima sotto le proprie dita, in quella porzione di pelle liscia.
Angolo Autrice:
Non ci speravate più aggiornassi eh, e invece.
Eccomi qui.
Il prossimo capitolo arriverà in un tempo consono.
Chiedo perdono per un tempo di attesa.
A presto.
Nives ♥️
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