Il funerale
Dedicata a tutti coloro che stanno in lutto.
Me ne stavo lì. Aggrappato al caro parapetto dinanzi alla chiesa. Mentre l'assiolo, dall'alto del suo alberello solitario, cantava l'accompagnamento del lugubre bronzo depresso, che svettava dal vecchio buon campanile, stavo lì ad annichilirmi nei miei pensieri logoranti, all'ombra del maleodorante cipresso in germogli. E, con gli occhi appesi nel nulla, guardavo quei suoi verdognoli boccioli. Una nuova vita sorgeva, sgorgava dall'antica pianta, mentre il mio caro zietto marciva dentro la bara, avvolto finalmente dalla seta, dopo una vita di stracci e sudati, dolenti lavori. Adesso, languiva dentro la chiesa, ingiallita dal tempo, coperta di muschio sui tetti.
Non volevo entrare. Non volevo assolutamente vederlo, e tantomeno ascoltare il parroco nella sua faticosa e ansimante predica. Io volevo restare lì. A contemplare la vista sul lago, gentilmente offertami dallla staccionata, appena oltre i gradini di marmo della basilica. E le montagne sullo sfondo. E gli uccelli che pescano. E i pesci di fiume che saltano giù dal torrente, con un largo guizzo, dritti nel lago, ad abbandonarsi alle esche dei pescatori incalliti, uomini magri, dai volti incavati e scavati nel corso del tempo dai morsi della fame. Il tutto mi dava una placida pace, tanto poderosa da poter scacciare a sonore pedate il vecchio turbamento interiore che mi permeava dall'inizio della giornata precedente; quella losca e lurida e lugubre, troppo lunga mattina, cominciata con la scoperta della morte del nostro caro, anziano zio. Quello zio che ci aveva cresciuti, che per poterlo fare si spaccava la schiena in mille modi diversi, pur di riportare a casa un tocco di pane e una magra brocca di latte. Zio era come un padre e un fratello, due uomini nel corpo di uno. E forse non l'ho mai ringraziato. Apprendere che aveva tentato di proteggere una vecchia signora, canuta e curva, seppur ricca, dai classici stolti tagliagole e banditucoli da strada, per poi venire ricompensato da uno di loro con una tremante pugnalata, è stato un brutto colpaccio. Quando mi proruppe in casa mia sorella, col volto segnato dalle lacrime, in preda ad un'asmatica e angosciosa crisi di pianto, mi parve di sentire quella stessa pugnalata, squarciarmi il ventre e lacerarmi le carni con il suo morso.
Io non piansi.
Non volevo.
Lui non avrebbe voluto mai vedermi così.
E per tal solenne ragione mi tenevo, con il pensiero, lontano da quell'incubo infernale. Al contrario sguazzavo con cherubica serenità in quel magnifico paesaggio montano, lasciandomi calmare, coccolare dalla natura circostante, dal tubare delle tortore, dal ridente guaito delle volpi infrascate tra i rovi , dalle onde del lago che dirompono fragorosamente sulla riva terrosa e pietrosa. E con lo sguardo correvo tra i boschi. E solcavo i monti, scrutando il cielo, sfiorandolo, fendendolo con le dita. Scavalcavo le vette scogliose aureolate dal Sole, con un simpatico balzo, e la neve zuccherina mi grattava la punta dei piedi, come una piuma candida di colomba, mi faceva il solletico. E navigavo fra lo stormire delle faggete, mi lanciavo giù dai fruscianti pendii, abbracciavo le fresche cascate, che, con il loro gorgogliare, il bubbolio dell'acqua incagliata tra le scivolose rocce rugose, mi portavano giù a capofitto, in fondo alla madre valle, con un solo tonfo sordo, nel grasso lago fangoso, che sapeva di fresco e profumava del cinguettio di mille sistri argentati, un torrente in piena corsa.
La compagnia di quel panorama, in cui vagavo, era riuscita a placare nel modo più assoluto i miei demoni, ad accucciarli fino a farli scodinzolare. Avevo riacquistato la più ferma calma, quando la campana tornò a distrarmi, il passato, un rovo di spine acuminate, aguzze quando una ferrea lama, riemerse per torturarmi. E allora il parroco, cantilenante:
- La messa è finita: andate in pace! -
La bara varcò la soglia della piccola, antica basilica, portata in spalla dalle cornacchie del demonio, quasi in trionfo. Il trionfo della morte, che, con il suo sporco manto ombroso, esultava in gaia espressione di tripudio, danzandomi innanzi, in un ilare e sinuoso valzer di macabre foglie strappate via dal vento, ora ondeggianti in un frastagliato turbine, un pelo sopra l'asfalto. E la bara fuggiva, verso il suo carro. E quei suoi nocchieri mi scoccarono addosso un sottile ghigno canzonatorio, in cui potei intravedere, appena oltre una fitta nebbia di ipocrisia, un qual che di umiliante. Mi sembrava come se il tristo mietitore fosse calato giù dai suoi cieli per sottrarmelo sotto al naso, burlandomi, portandosi via l'unico padre che io abbia mai avuto mentre gli faccio "ciao ciao" con la manina, con fare infantile, mentre il pianto mi allaga le gote, e sono ancora bambino.
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