Dodici - Contest Halloween 2023 TheHopeTeam

Storia scritta per l'Halloween Contest - 2023 di @TheHopeTeam, link nei commenti ➡️

Parole: 2993 (al pelo ^^)

Prompt: foto #4

Dodici

Mi fischiano le orecchie, ma c’è anche dell’altro. Cos’è questo suono? Musica? Provo ad aprire gli occhi, ma quello destro fa male, è gonfio, le palpebre sembrano incollate tra loro. Ricordo di essere stata colpita alla nuca, prima di cadere a terra e sbattere la fronte contro il parabrezza di una macchina. Forse è il mio sangue che si è incrostato tra le ciglia. Apro almeno il sinistro, ma vedo solo ombre. Ho le braccia bloccate dietro la schiena, non le sento come dovrei, sono rotte? Sono paralizzata? Mi sforzo di muovere le dita. Eccole, le sento. Ora le dita dei piedi. Bene, ci sono. Però, non riesco a muovere il resto delle gambe, qualcosa mi tiene le caviglie unite tra loro. Calma, respira. Sono viva, anche se un po’ ammaccata sono ancora tutta intera. Ora devo solo capire come uscire da qui. Ma dov’è “qui”, esattamente?

Inizio a vedere con più nitidezza: l’interno di una stanza e delle figure umane in piedi. Sono stesa sul pavimento e nessuno sta facendo caso a me, forse credono che sia già morta? Meglio così, che continuino a pensarlo. Calma, muoviti il meno possibile, respira piano.

«Perché non posso essere presente anche io? Ho già otto anni, Luis aveva la mia età alla sua prima cerimonia del dono!» È una bambina a parlare, fuori dalla mia visuale. Davanti a me invece vedo solo un ragazzino seduto a un pianoforte. La musica che mi ha svegliata allora proveniva da lì. Se ci sono bambini non possono essere persone cattive, giusto? No, non dare nulla per scontato, non puoi fidarti, sono stati loro a portarti qui. O ti hanno solo soccorso? Maledizione, non riesco a ricordare! Ora che ho delineato il ragazzo provo a spostare lo sguardo sul resto della stanza e sui presenti per capire quanti sono. Cristo santo, che cos’hanno le loro facce?

Sono morta? Loro sono morti? Siamo tutti morti? Allora, questo deve essere l’Inferno.

Entra nel mio campo visivo anche la bambina che ho sentito parlare poco fa. Proprio come gli altri, ha i vestiti malconci e il viso deformato dalla decomposizione post morte. È come se fossero corpi riesumati riportati in vita. Zombie. La sua voce, però, è quella di una persona in perfetta salute, così come lo è quella che gli risponde dal fondo della stanza: «Te l’abbiamo già detto, Lizzie. Sei ancora troppo piccola per questo. Il prossimo anno assisterai.»

«Non è giusto! Lei l’ho trovata io!» Si riferisce a me e istintivamente chiudo l’occhio con cui li stavo osservando, nel caso qualcuno guardasse verso di me. Ora ricordo. Stavo parlando con una bambina nel parcheggio del supermercato, un attimo prima di essere tramortita. Era un’esca, una trappola, per me.

«E di questo lui te ne sarà grato. Sei riuscita a trovare proprio il tipo che preferisce.»

Le voci mi arrivano più nitide adesso che le orecchie hanno smesso di fischiare. Si sono messi a parlare tra loro, tornando a ignorarmi. Riapro gli occhi, entrambi questa volta, con un po’ di fatica. Riesco a mettere bene a fuoco le loro figure. Ne conto sei in tutto. Due adulti in fondo, poi uno più piccolo, quella che sembra essere una donna, la bambina e infine il ragazzo biondo, l’unico a non sembrare un morto che cammina. Forse potrei cercare un alleato in lui? La bambina, sbuffando sonoramente, gli passa un libro, lui lo prende, lo apre e ne sfoglia alcune pagine. «Questo.» Indica alla donna morta dietro di sé un punto preciso del volume. Lei annuisce, i capelli radi e putrefatti si muovono leggermente sulle sue spalle. Si avvia verso la porta e lascia la stanza, seguita dagli altri, in silenzio. Nel muoversi non ondeggiano e non si lamentano, non fanno nulla di ciò che fanno gli zombie nei film a tema che ho sempre visto. Prima di uscire uno di loro alza leggermente la voce e si rivolge al ragazzino: «Vai a cambiarti, manca poco per l’inizio del rituale. Tra poco verranno a prenderla per portarla di sotto e svegliarla.»

Il ragazzino resta seduto qualche istante fermo davanti al piano, poi sospira, raccoglie qualcosa da terra, ai suoi piedi, e si alza. In mano stringe una maschera simile alle altre. La tiene dalle pochissime ciocche bionde e lunghe. La vedo oscillare davanti ai miei occhi socchiusi. Non è uno di quei travestimenti giocattolo, è incredibilmente realistica e la pelle, potrei giurare che sia vera pelle umana. Trattengo il respiro per tutto il tempo, mentre vedo i suoi piedi che, un passo dopo l’altro, si avviano alla porta. Solo quando sono sola rilascio il fiato e mi permetto di piangere. Non uscirò mai viva da qui.

Ho sentito parlare di strane sette, superstizioni, rituali con il sangue e sacrifici umani. Ma ho sempre pensato che fosse tutto materiale per film e podcast, non che ci sarei finita in prima persona. Strattono polsi e caviglie, se riesco a liberarmi prima che vengano a prendermi forse potrei avere una chance. Ma che possibilità ho, disarmata e senza la più pallida idea di dove mi trovo? Le speranze di recuperare un telefono per chiedere aiuto sono minime, di scappare a piedi, anche. Non mi hanno uccisa, questo significa solo una cosa: mi vogliono viva. Lui mi vuole viva, chiunque sia il bastardo che mi ha fatta rapire e portare qui.

Sto ancora cercando di liberarmi quando dei passi pesanti si avvicinano. Come prima, mi fingo svenuta. È l’unico vantaggio che ho. Poco dopo due grosse mani mi prendono per le braccia senza alcuna premura o delicatezza, mi mordo la lingua per non lasciarmi sfuggire neanche il più piccolo lamento. Resto inerme anche quando i due uomini mi liberano mani e piedi e mi spogliano, lasciandomi solo con l’intimo. Vorrei urlare, piangere, dimenarmi, ma peggiorerebbe la mia situazione. Qualcuno mi infila un abito lungo e informe, con ampie maniche, forse una tunica. Qualsiasi cosa vogliano farmi non prevede che io sia nuda, non so se esserne sollevata o terrorizzata.

«La ragazza è pronta per essere svegliata? Di sotto hanno già iniziato con i sigilli.» È una donna a parlare, ha un tono autoritario, di qualcuno abituato a comandare.

«Si sveglierà a minuti, anzi credo che sia già sveglia e stia solo facendo finta» le risponde uno dei due, ridacchiando. Mi sento gelare. Credevo di avere un vantaggio, ma non ho nemmeno quello. «Non che faccia differenza» aggiunge l’altro strattonandomi mentre mi tira su. Lo lascio fare come se fossi una bambola di pezza. «Ciò che conta è quanto sarà sveglia tra poco.» Una risata malevola mi riempie le orecchie del suo suono sgradevole e gli occhi di lacrime. Dunque, questa è la mia fine: in mano a un branco di pazzoidi che rapiscono persone, si travestono da zombie e Dio solo sa cosa fanno dopo. Ma questo lo sto per scoprire sulla mia pelle.

Non risparmio loro la fatica di portarmi di sotto di peso, non ho intenzione di far loro il favore di camminare da sola verso ciò che mi aspetta. Scendiamo due rampe di scale, passando da una mansarda al piano terra a uno scantinato, a giudicare dalla puzza di umidità e da come riecheggiano i passi dei due che mi trasportano. Uno mi tiene dalle caviglie e l’altro da sotto le ascelle.

Dopo l’ultimo gradino hanno un tentennamento e si muovono in modo diverso, come se stessero scavalcando qualcosa a terra, prima uno, poi l’altro. Se non mi hanno legata di nuovo significa che sono sicuri che non avrò possibilità di fuga. Conto dodici passi dalle scale. Quando ci fermiamo socchiudo appena gli occhi e vedo gli altri finti zombie a ridosso della parete dello stanzone e alcuni chinati sul pavimento.

Mi sistemano al centro della stanza, su una specie di materassino. Sento i tizi accovacciati a terra scarabocchiare qualcosa intorno a me con dei gessetti. I sigilli di cui parlavano prima. Pazzi maniaci fanatici. Chissà cosa credono di fare, cosa sono convinti che stia per succedere. Deve esserci un leader che li ha convinti a dargli tutto ciò che possedevano, che li ha suggestionati con qualche strana teoria sui demoni e su rituali purificatori. Chissà quante altre persone hanno preso, prima di me, manipolate da un folle.

Penso a mia madre, che non si rassegnerebbe mai alla mia scomparsa. Vivrebbe il resto dei suoi giorni a cercarmi, fare appelli sui social e in tv, appendere volantini, rilasciare interviste. Glielo dovevo, almeno a lei dovevo qualche tentativo di fuga in più. Invece me ne sto qui, fingendo di essere priva di sensi, in attesa che qualche adepto di una setta mi trapassi con un coltello e mi lasci morire dissanguata. Ma, mamma, sono troppi. Anche se riuscissi a scappare, mi prenderebbero. Tanto vale, finirla in fretta.

Rassegnata, apro gli occhi e li guardo, uno ad uno. Attraverso le maschere vedo i loro occhi da invasati, carichi di aspettativa. Sono circa dieci persone, tutti adulti. Almeno hanno risparmiato ai bambini questo spettacolo. Il ragazzo che poco fa era di sopra, invece c’è, forse è abbastanza grande. Mi guarda qualche istante attraverso i fori per gli occhi della sua stupida maschera, poi abbassa lo sguardo. Vigliacco.

Il vociare sommesso dei presenti si interrompe quando qualcuno fa il suo ingresso nello stanzone. Deve essere il leader, Lui, quello che mi ritiene perfetta per il suo scopo. Si è servito di una bambina per adescarmi, spero che bruci all’Inferno anche per questo. Mi si posiziona davanti, con il libro rosso in mano, un dito tra un blocco di pagine e l’altro, per tenere il segno. Fa strani gesti con le mani davanti al mio viso.

Se ho ancora una speranza di uscire viva da qui è lui. «Posso pagare» sussurro, in modo che sia il solo a sentirmi. «Ho delle proprietà di famiglia, amici pieni di soldi. Lasciatemi fare qualche telefonata» supplico. Chissà se l’hanno informato che mi hanno adescata nel parcheggio di un discount.

Non risponde, scuote la testa e inizia a mormorare delle parole incomprensibili, sembra latino, ma ha un suono ancora diverso. Si interrompe solo per fare un cenno allo zombie più basso di tutti, il ragazzino di prima, che ci raggiunge e si piazza davanti a me. L’uomo gli passa un coltello e istintivamente mi alzo e indietreggio di un passo: non è più il tempo di fingere di essere svenuta. Loro sono in tanti, io sono da sola, ma non sono legata. Devo lottare, devo provarci. Scappa!

No, c’è qualcuno alle mie spalle pronto a tenermi ferma, me ne accorgo solo ora. E poi è questione di un attimo, prima di sentirlo. Trapassa la pelle, la carne, mi strappa un urlo che stento a riconoscere provenire dalla mia gola. Deglutisco l’aria polverosa di questo schifo di cantina mentre il ragazzino davanti a me mi guarda ancora, con il coltello in mano sporco del mio sangue. Sembra soddisfatto, ma anche spaventato. Non mi interessa, voglio vederti morto. Concentrato sul sangue che mi cola dal ventre, fa un altro passo verso di me e istintivamente indietreggio, ma quello alle mie spalle mi blocca afferrandomi dai capelli. Questa presa, però, la conosco, l’ho studiata, l’ho provata al corso di autodifesa. Mi giro, gli afferro i polsi e mentre lo trattengo lo colpisco ai genitali. Lui si accascia.

E adesso? Sono pronta a un contrattacco, ma d’un tratto la stanza si fa silenziosa, eccetto uno scricchiolio proveniente dalle spalle dell’uomo con il libro in mano. Mi volto di scatto, pronta a difendermi da un’altra coltellata e lì, lo vedo. Dietro l’uomo si sta materializzando qualcosa. Non è un cazzo di effetto speciale, come le loro stupide maschere. C’è qualcosa di mostruoso in quei suoni innaturali e nella forma che quell’ammasso di putridume grigiastro sta assumendo. Anche l’odore è terribile. Possibile che loro non lo sentano? Mi guardo intorno cercando delle risposte nelle loro reazioni e li vedo mentre si inginocchiano, come pronti a pregare per quella cosa. Qualunque sia la sua natura sembra stia cercando di assumere delle sembianze antropomorfe, ma qualcosa non va con le braccia, ci sono troppe ossa, troppo lunghe, e la testa non potrebbe mai sembrare umana. Scappa adesso.

Mi volto, la vista annebbiata dal sangue che sto continuando a perdere. Premo forte sulla ferita e faccio un lungo respiro. Devo arrivare alle scale. Dodici passi, ce la puoi fare. Tutti i presenti iniziano a cantilenare qualcosa e si avvicinano, muovendosi sulle ginocchia. Sono come un cerchio che mi si sta stringendo attorno. Quella cosa intanto non smette di produrre dei lamenti striduli, mentre l’uomo in piedi ha infilato il coltello insanguinato tra le pagine del libro e gli si sta avvicinando. Guardo i miei piedi, come se volessi assicurarmi che siano pronti a mettersi in moto. Intorno a me sono stati scarabocchiati dei simboli su dei cerchi in linea continua. L’uomo e il ragazzo sono a un passo fuori, ci siamo solo io e l’ammasso informe all’interno dei cerchi.

Ho già visto quei segni, ma dove? Pensa, cazzo, pensa! Mi guardo intorno, disperata. I presenti ora alzano la testa, pur restando in ginocchio. Eccoli. Ce l’hanno tutti. Tutti loro hanno il simbolo di tre virgole che si rincorrono sulle maschere. Mi giro verso l’uomo alle mie spalle, è ancora acciaccato, ma è troppo grosso, contro di lui non avrei speranze.

Però ora so cosa devo fare. Aspetto che gli altri siano più vicini, sperando che l’emorragia non mi faccia perdere i sensi prima che quest’incubo sia finito. Sono secondi? Minuti? Ore? Quando la cosa evocata assume la sua forma che sembra  definitiva si fermano, a pochi passi da me. Sono undici in tutto, dodici con il ragazzino. E io da sola, ferita, con un piano di fuga così folle che probabilmente non funzionerà mai.

La bestia è silenziosa, tranne per il suo respiro, se così si può chiamare quel basso ringhio regolare che gli fa gocciolare liquido nero e viscoso dalla faccia, e se così si può chiamare l’ammasso di materia grumosa e rossastra che ha intorno a due sfere vitree che dovrebbero essere gli occhi e un’apertura orizzontale che, su un essere umano, corrisponderebbe a una bocca larga almeno da un orecchio all’altro. Cose che lui non ha.

«Oh, signore dell’ombra e del sangue, ti abbiamo evocato oggi in questo giorno…» L’uomo con il libro inizia a parlare e tutti gli altri chinano il capo ad ascoltare o pregare o qualsiasi cosa pensino di fare. Adesso.

«… Ti facciamo dono di questa mortale…» lo sento solo a tratti, il pulsare del sangue sovrasta ogni altro suono. Mi accascio e strofino i cerchi, i simboli, i palmi delle mani sfregano contro il cemento del pavimento grezzo, ma non mi fermo finché non ho finito. Funzionerà? Tutto ciò che so a riguardo lo devo a libri serie tv, ma questa è la realtà! In un unico gesto raggiungo il ragazzino e gli strappo la maschera dalla testa. Lui mi guarda con un’aria terrorizzata e spaesata, ma non ho tempo per godermelo.

Quello alle mie spalle invece è troppo grosso, devo schivarlo mentre cerco di prenderle il più possibile. Riesco a strapparne due, prima che tutti si rendano conto di cosa sto facendo e che lui provi a placcarmi. E sarà anche grosso, ma io sono veloce e disperata. Indosso una delle maschere e cerco di farmi strada verso le scale. Il leader, ancora con il libro in mano, sta urlando qualcosa, forse ordina di prendermi.

La creatura mostruosa non si muove, ma emette di nuovo quel lamento. Spingo una donna nella sua direzione, lei cerca di fare resistenza ma sento che è debole, più di me, nonostante la ferita e il sangue  che ho perso. La afferro per i capelli da zombie e tiro, tiro come se ne valesse della vita, è letteralmente così. Quando la maschera mi resta in mano do un’altra spinta alla donna, che si scontra contro l’ammasso di deformità. All’improvviso qualcosa mi bagna il viso. Mi stanno lanciando addosso della roba? No, sono schizzi di sangue. A contatto con quella cosa la gola della donna si apre come se ci fosse una lampo e la testa le resta a penzoloni per un po’, prima di staccarsi dal collo, cadere e rotolare ai suoi piedi. Il mostro stringe quel corpo mutilato a sé e dove i due entrano in contatto si sprigiona un odore acre di carne bruciata. La stanza di riempie di urla di panico, ma anche con la maschera i miei vestiti spiccano ancora, non riesco a camuffarmi. Alcuni vengono verso di me. Un ultimo sforzo. Corri.

L’abominio, intanto, si è infilato in un altro corpo, squartandolo dall’interno. Qualcosa mi colpisce alla schiena, istintivamente cerco di togliermelo di dosso. Un orecchio, poi un pezzo di intestino. Il panico in cui versano gli altri è la mia occasione, ma quando manca poco ai gradini il ragazzino mi si para davanti. Un istante dopo un’ombra ci sovrasta e il braccio destro del ragazzo schizza contro il muro. Anche la sua faccia è divisa a metà, i suoi denti diventano una macchia bianca, un tutt’uno con le ossa del cranio a cui viene strappata la pelle davanti ai miei occhi. Resta immobile. Respira piano. Quella cosa è alle mie spalle. Ancora quel basso ringhio. Non si avvicina, ma ora è frapposto tra me e i miei rapitori.

Fai un passo. Così. Un altro. Al terzo che compio verso il gradino vedo altri sigilli disegnati sul pavimento. Li scavalco, come chi mi ha portata fino a qui. Poi le scale, una porta chiusa, un corridoio, una sala, una grande finestra che dà su un prato, una porta finestra che si apre con la sola pressione sulla maniglia e l’aria aperta. E corro, corro più veloce della morte che ho lasciato in quel seminterrato, come se non fossi ferita, scalza, come se non mi fossi pisciata addosso. Corro fino alla strada, in cerca di aiuto, anche se non so per quanto riuscirò a farlo, se troverò qualcuno e se crederanno alla mia storia.

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