Marzo 2019: Riscossa - Non è più il tempo della cautela

Da qualche ora, sul terreno è sceso il silenzio. Dal suolo arso, sottili pennacchi di fumo si levano adagio, oscurando a tratti la terra sottostante. Un vento leggero spira da nord, ma non vi sono più fronde nelle quali può impigliarsi. Corre veloce dove prima sorgeva la foresta, strappando dolorosi crepitii ai tronchi anneriti e contorti, sollevando la cenere da un mucchio all'altro.

Se vi fosse qualcuno, su quel campo, al passaggio del vento udirebbe l'odore acre della lignina combusta, il pizzicante sentore dell'acqua stantia residua dall'ultima pioggia. Se qualcuno camminasse in quel cimitero di corpi lignei e spettrali, percepirebbe il rantolo soffocato della vita che si spegne e i gemiti sommessi degli ultimi anneriti istanti di quella realtà infranta.

Ma nessuno osa attraversare il terreno e nessuno sguardo si posa affranto su quel mausoleo eretto dalle fiamme. Neanche gli abitanti usuali di questa ormai brulla porzione di terra sembrano avere il coraggio di tornarvi. Quelli che sono sopravvissuti al peggio, correndo senza respiro oltre il limitare degli ultimi tronchi, ormai sono già lontani, troppo timorosi per voltarsi indietro e assistere alla sorte di quella che un tempo chiamavano casa.

Nel cielo, terso e brillante come a volersi fare gioco di chi ha appena visto bruciare ogni speranza, uno stormo di neri avvoltoi vola in cerchi sempre più stretti, puntando ai corpi rimasti indietro di chi invece non ce l'ha fatta, a correre abbastanza veloce.

Oltre il crinale, con la schiena addossata alla nuda roccia e il volto imperlato di sudore, Ainwen li osserva, in preda alla rabbia. Non riesce a vedere il terreno, sepolto dietro la roccia e i profili contorti dei tronchi riarsi, ma sa a cosa stanno puntando. Una lacrima le solca la guancia, sporca di cenere e fango, ma è l'unica debolezza che si concede. Non ha tempo per la tristezza, il lutto deve aspettare. L'unica cosa che conta, adesso, è riconquistare il terreno, strapparlo con le unghie e con i denti a coloro che glielo hanno sottratto.

La voce di una della sorelle la desta dai quei foschi pensieri: «Dovresti riposare.»

È Lendyr a parlare e benché conosca quella voce da una vita, non può non sussultare. È tesa, teme un attacco da un momento all'altro e anche se sa che alle sue spalle c'è solo una grotta cava e protetta, il cuore accelera un poco il suo battito.

Ciò nonostante sorride, quando la giovane driade entra nel suo campo visivo. Il sorriso però si smorza appena gli occhi si posano sul volto della sorella minore. Sulla pelle lignea e sfumata di verde spicca una ferita recente e non ancora del tutto cicatrizzata. È nera, dello stesso nero ardente che ha impregnato la foresta. Le deturpa metà viso a partire della testa, lì dove un tempo i capelli cadevano come fronde, percorsi da piccoli boccioli appena nati.

È un monito sempre vivo, incancellabile, di quello che è successo. Ne porta uno anche lei, ma cerca di allontanare dalla mente quel pensiero. «Non sono stanca. E poi, qualcuno deve fare la guardia» risponde, riportando lo sguardo all'esterno. Lo stormo di avvoltoi è ancora lì, ma ora di tanto in tanto una delle creature si abbassa e risale poco dopo, con qualcosa stretto nel becco al quale la driade non vuole pensare.

Un sospiro, e i passi della sorella le annunciano che si è avvicinata ulteriormente. Poco dopo, Lendyr si siede accanto a lei. «Non possono trovarci, qua su. Siamo al sicuro» le mormora, ma Ainwen scuote il capo.

Percepisce la pelle spessa della sorella a contatto con la sua. È calda, rassicurante e, per un momento, ha quasi il desiderio di lasciarsi andare e di addormentarsi lì, su quella spalla accogliente e familiare. Ma si scuote e allontana anche quel pensiero. «Non possiamo esserne certe. Non dobbiamo abbassare la guardia o rischiamo che riaccada.»

È appena un sussurro, ma riporta tutto a galla. L'attacco inaspettato, nel cuore della notte. Le urla delle sorelle di guardia che squarciano l'oscurità, lei e Lendyr che si alzano all'improvviso e recuperano le armi, ma troppo tardi. Le fiamme che lambiscono troppo rapidamente gli alberi, il fumo che si innalza e rende l'aria irrespirabile, la vista che si fa sfocata e poi lame, molteplici e scintillanti nell'oscurità.

Ainwen rabbrividisce, rammentando quegli occhi, sospesi nel vuoto sbiadito della foresta che va a fuoco. La mano di Lendyr raggiunge la sua spalla e la stringe, dissolvendo quei ricordi. «Ainwen...» mormora la sorella, incapace di aggiungere altro. Non c'è nulla, che le parole possano fare, nulla che possa cancellare quello che è stato. Restano così, sedute l'una accanto all'altra, a contemplare gli avvoltoi sospesi oltre le rocce. Non smettono di guardare finché anche l'ultimo rapace ha terminato il suo pasto e solo allora si concedono di chiudere gli occhi e di pregare per le anime delle sorelle cadute.

***

Appena il sole è tramontato, Ainwen e le altre si sono radunate al centro della grotta. Sono poche, deboli e spaurite. Una manciata di driadi ferite, lontane dalle loro case e dagli alberi ai quali devono la vita. Il legame con la foresta è fragile, basterebbe un respiro di troppo per infrangerlo. Eppure loro perdurano, unico baluardo rimasto della vita silvana.

Quelle di loro che erano legate con le piante più esterne sono morte, appena i loro simbionti hanno spirato tra le fiamme.

Loro sono le sopravvissute.

Sono cinque, tutte giovani, tutte spaventate. Hanno con loro le armi, ma le hanno sempre usate solo per allenarsi e mai per difendere se stesse, figurarsi per attaccare. Si sono nascoste in quella grotta quando hanno scoperto di essere troppo stanche per fuggire ancora, ma ora non sanno che fare.

Quando la più anziana di loro, appena ventenne, parla, lo fa piano e in modo improvvisato. Si è ritrovata quel fardello addosso, senza averlo mai chiesto né desiderato. È sempre stata solo Valaya, una delle tante. Non ha la stoffa del capo, non l'ha mai avuta. «Dobbiamo prendere una decisione» intona comunque, cercando di apparire solenne. «Dobbiamo capire cosa possiamo fare per il Santuario.»

«Ormai è perduto» la interrompe Lendyr, scrollando il capo. Solo il giorno prima, avrebbero udito il morbido frusciare delle fronde che risuonavano in armonia con quel gesto, ma ora non c'è nulla che possa cantare i movimenti della driade. L'assenza di quel dettaglio pesa più di quanto si aspettassero. Facendosi forza, Lendyr continua. «Gli uomini controllano il perimetro. Hanno il fuoco con loro. Non possiamo vincere. È finita.» È piccola ma tenace, come la sorella. Eppure, una sottile lacrima rotola giù dagli occhi color smeraldo e lei provvede rapidamente a rimuoverla, sussultando quando la mano sfiora la pelle ancora riarsa.

A vederla così, fragile ma determinata a non darlo a vedere, ad Ainwen si stringe il cuore. "Non è giusto" pensa, lasciano vagare lo sguardo sulle sorelle. "Cosa abbiamo fatto per meritarci tutto questo?"

La stessa Valaya sembra sopraffatta dalle parole di Lendyr e non è in grado di ribattere. Sanno tutte che ha ragione. Non possono sconfiggere il fuoco, non possono salvare il Santuario.

Mentre le osserva, quattro anime tormentate quanto lei, a disagio tra quelle rocce soffocanti, Ainwen realizza improvvisamente che non può accettare quell'atroce verità.

Il Santuario è la loro casa, il loro rifugio. Come possono abbandonarlo senza lottare?

Con uno sforzo che le toglie il fiato, la driade si alza e attira invariabilmente gli sguardi delle sorelle. Dolore, rammarico, commiserazione; sono tutti lì, negli occhi verdi che la fissano, nei sussulti trattenuti al vederla in piedi. Piega le labbra in una smorfia severa, nel tentativo di nascondere un gemito di dolore. «Sorelle» mormora, facendosi avanti per raggiungere il centro della grotta e la luce che filtra dal soffitto. Quando un raggio di sole la colpisce, si accorge che le altre driadi abbassano lo sguardo, imbarazzate. Lei invece si costringe a guardare quello che la luce mette in evidenza, per quanto la consapevolezza faccia male quasi quanto la ferita stessa: la battaglia non si è portata via sola la sua casa, ma anche un pezzo di lei. Ora una spazio vuoto è tutto quello che sporge dalla spalla destra, ma la sensazione che l'arto non se ne sia mai andato è costantemente con lei. Eppure, Ainwen si sente quasi fortunata. Lei almeno può ancora rimpiangere quella perdita.

«Non è più il tempo della cautela» scandisce, rivolgendo lo sguardo verso ciascuna di loro, ghermendo i loro occhi e distogliendo la loro attenzione dalla mutilazione che si porta dietro. «Non è più il tempo della paura. Sono finiti entrambi, insieme a tutte le sorelle che ci siamo lasciate dietro. Ora è il tempo dell'azione.»

Lendyr fa per ribattere ma lei la ferma con un gesto della mano, l'unica che le è rimasta. «Abbiamo perso quasi tutto: la casa, la famiglia, il futuro. Ci resta solo una cosa, ed è con quella che torneremo laggiù, e combatteremo fino alla fine.»

«Cosa? Cosa ci è rimasto?» domanda Marwe, prendendo la parola per la prima volta. La sua voce raschia come il vetro, spezzata dal fumo che ha inalato durante la fuga. Ha gli occhi lucidi e stralunati e il corpo nodoso trema per la leggera corrente della grotta. È sull'orlo della rottura e solo le braccia di Kaela, la sua gemella, le impediscono di lasciarsi andare. Eppure la osserva colma di speranza. Come lei, tutte le altre sono in attesa di una parola, un gesto, che le riporti lì dove sono nate. Perché non possono farne a meno.

Ainwen le guarda una ad una, gemme della stessa radice, uguali come gocce d'acqua. E sorride, nonostante il dolore, nonostante la tristezza e la certezza che potrebbe condannarle tutte. Sa che non c'è altro modo. In lei, sta germogliando piano un seme di autorità, qualcosa che non aveva mai notato prima, mai saputo di possedere. Eppure è lì, freme e si dibatte, pronto a emergere. Le proteggerà, le guiderà in battaglia un'ultima volta, perché quella è l'unica cosa che possono fare. Lo sa lei e, ora, lo sanno anche loro.

«Ci è rimasto il legame con la foresta. Un legame che non si è ancora spezzato e che solo noi possiamo ripristinare. La nostra madre veglia su di noi e ci aiuterà. Questo non è più il tempo della cautela, sorelle mie. Questo è il tempo della riscossa.»

Le altre annuiscono, ripetendo piano quelle parole tra le labbra: questo è il tempo della riscossa.

***

La notte respira, si gonfia delle speranze e della tenacia delle cinque driadi.

Erano spaurite, ferite e deboli.

Ora non lo sono più.

La paura è sfumata nella brezza, il dolore delle ferite è un'eco ormai dimenticata. Anche la debolezza è solo un ricordo, le parole di Ainwen l'hanno relegata lì dove non può ostacolarle.

Anche se il verde della foresta è svanito, sostituito dal grigiore della cenere, quando arrivano al campo la natura pulsa e canta la gioia di rivederle. È una vibrazione che le driadi percepiscono sottopelle, un linguaggio che per loro è vitale ma che è pressoché inesistente per i rozzi umani al di là del campo, che con la terra non hanno mai instaurato un vero legame

Un altro punto a loro favore.

La natura è dalla loro, attutisce i loro passi, ghermisce i loro respiri nella brezza. Si muovono agili e silenziose, le lame assicurate alle caviglie, gli archi stretti in pugno e le frecce che svettano sopra le loro teste. Prima che possano accorgersene, sono già al confine con il Santuario.

Gli usurpatori hanno eretto il campo proprio al centro della loro casa. È l'ennesima offesa, ma le driadi non hanno tempo per covare rancore. Devono restare lucide.

Si acquattano dietro i tronchi, si fondono con il legno diventando pressoché invisibili. È questa la loro forza, qualcosa che gli umani non potranno mai capire: essere parte di qualcosa di più grande.

Quando i loro respiri diventano un tutt'uno con la terra che le ha generate, le driadi si accorgono di qualcosa che non avevano previsto: le loro ferite hanno iniziato a rimarginarsi.

Sorpresa, Ainwen si abbassa e posa il palmo della mano sul terreno, in un gesto istintivo e primordiale. Chiude gli occhi, e realizza che la vibrazione è diventata una pulsazione, il battito estatico del Santuario che risuona sempre più forte, ora che loro sono tornate.

Non lo hanno abbandonato. Lui lo sa e non le lascerà sole.

Percependo un calore nuovo e accogliente, Ainwen sorride e sente la terra fremere e sollevarsi, risalirle lungo il braccio, circondare il suo petto e scendere giù, fino alla spalla ferita, lì dove il vuoto brucia ancora per quella presenza infranta. E mentre un gemito di aspettativa le sfugge dalle labbra, la terra inizia a turbinare e si fonde alla sua pelle, ricostruendo ciò che ha perso. Apre gli occhi e fatica a credere a ciò che vede: al posto del vuoto, e del braccio che ancor prima occupava quello spazio, ora un nuovo arto si erge contorto. Ricorda un ramo, percorso però da densa terra finissima e da bagliori color smeraldo. Pulsa come pulsa il Santuario stesso e quella sensazione di completezza la colma, mentre il suo cuore si sincronizza sul medesimo battito della natura.

Guardandosi intorno, si rende conto che anche le sorelle stanno osservando stupefatte la loro pelle, là dove prima svettavano le orribili ferite. Lendyr ha di nuovo la chioma folta di un tempo, ma ora anziché di boccioli è puntellata di spine, letali quanto saranno loro di lì a poco. Ora le driadi brillano nella notte, cinque fari di speranza per la foresta, e il Santuario le sprona, le spinge a farsi avanti e a riconquistare ciò che è loro di diritto.

Stringendo la presa sull'arco nodoso, Ainwen avanza come una furia, senza emettere alcun suono. Piomba con le sorelle sul campo addormentato, su quegli uomini che le hanno massacrate senza motivo, solo per affermare la loro superiorità. Non lasciano loro il tempo di difendersi, non danno loro modo di recuperare le torce e appiccare il fuoco ancora una volta. Recidono le gole a una ad una, usando soprattutto i pugnali e incoccando le frecce solo quando si rivela estremamente necessario.

Ma invece della rabbia e della vendetta che quella notte meriterebbe, e che Ainwen stessa si era aspettata di provare, i loro corpi gridano pietà. Pietà per quegli esseri umani che non sono mai stati in grado di capire, pietà per il loro delirio di superiorità. E pietà per le sorelle disperse, che percepiscono intorno a loro anche se ormai non ci sono più.

Quando anche l'ultimo singulto strozzato è scemato, nell'oscurità cala nuovamente il silenzio. Ma la vibrazione sotterranea non cessa e attira le driadi fino al centro del cerchio di tende sventrata, lì dove un unico germoglio è sopravvissuto al fuoco.

È piccolo, fragile e sparuto.

Ma porta in sé tutto il senso della loro riscossa.

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