Lo avevo amato
Lo avevo amato. Sebbene fossi pelle ed ossa ed avessi un cuore troppo fragile per supportare ogni rintocco, lo avevo amato. La malattia mi aveva tatuato nell'anima residui imbrattati di flebile angoscia, che avevano reso illogicamente infernale qualsiasi cambiamento. Non c'era persona che non provasse a leggermi dentro, piuttosto che chiedermi il nome, come per convenzione si usa fare. Ero sempre stata osservata come se dovessi districare i miei capelli per sciogliere i mille scarabocchi che in realtà non avevano mai incorniciato il mio viso scarno. Alla mia vista, i medici avevano sempre sgranato gli occhi, scosso la testa e congiunto le mani come a far stupidamente intendere che l'inizio della fine a volte sia più nocivo della fine stessa. Prima del suo arrivo c'erano state soltanto futili sedute e monotoni dialoghi fra me e gli psichiatri. Dovevo lottare, dicevano. Necessitavo la vita, spiegavano. Non ero pazza, si autoconvincevano. Lo conobbi in chiesa, dove mi ci ero trovata la prima volta per placare l'immensa rabbia che mi aveva assottigliato la lucidità e mi aveva fatto tremare gli strati di pelle. Qualcuno mi aveva consigliato di rivolgermi a Dio e sulla soglia dell'ultima porta, la Speranza, avevo eseguito. Non lo avevo incontrato per caso e nemmeno era stato amore a prima vista, il nostro. Avevo osservato più volte le sue terribili converse consumate e soltanto dopo un paio di mesi avevo avuto modo di ascoltarlo parlare. Quel giorno si rivolse proprio a me e mi chiese se potessi accendere una candela e pregare per sua madre, dal momento che non era credente, e gli sembrava da vile fingere di esserlo perché giunto alle strette, ma sentiva un forte bisogno di proteggere ciò che aveva di più caro al mondo. Gli spiegai che nemmeno tra me e Dio ci fosse molta intesa e, andandosene, con la sfacciataggine che gli aveva sempre colorato il volto, tutt'altro che leggiadro, mi disse che doveva essere proprio una stupida coincidenza quella che si lambiccava per poter dare inizio all'incontro tra due peccatori, trovatisi per necessità nel luogo più puro del mondo. Due simili ossimori. Rifiutammo di ignorarci e, tra ostie e canti orchestrali, riprendemmo a parlare. Al nostro ennesimo ritrovo successero notti insonni, chiamate inaspettate, emozioni bruciate e litri di sangue versati e travasati. Abbracci rubati, spassionati, parole vivide e bollenti, carezze desiderose d'amore, ma circoscritte al bene, che aveva sempre messo sull'attenti entrambi, ricordandoci che due dannati non avrebbero mai potuto condurre vita facile. Eravamo stati l'imperfetto intermediario fra la vita e la morte, la fusione tra un destino già scritto e una mente che aveva sempre bramato di stravolgere le carte in tavola. Come per predizione, quasi per punizione, i risultati provocarono delle pesanti conseguenze ben presto, forse fin troppo. Averlo fiancheggiato era stato come volteggiare nel cielo senza smettere di toccare terra, dipingersi le palpebre di polvere bianca per non brancolare più tra le persone; scorgere lo sfavillio di una stella che si spegne. Poi, però, ero stata sovrastata dalle saette. Era arrivato l'inverno e con esso l'assordante gelo della notte. Avevo capito quanto potesse essere catartica la presenza di qualcuno, percependo la sua ombra sghignazzare con la mia. Lui era stato la mia salvezza, ma forse questo era stato troppo poco per dare senso alla serenità. Aveva eclissato la sua felicità per scorgere la mia, ed io avevo accettato, egoisticamente pensando che potessi bastargli, che quello che provavo potesse bastarci, ma non basta mai niente quando si spera possa essere abbastanza. Avevo vissuto ogni maledetto giorno con l'amaro sulla punta della lingua e l'ansia rossastra a sbudellarmi il cervello per l'incontenibile paura di morire. Quando avevo cominciato a tenermi in pugno, avevo affrontato la morte che pian piano mi aveva allontanata da lui. Lui. Non era stato certezza di una vita, ma costante nella morte. Mi aveva sottratta dalle grinfie del conturbante sonno per addormentarsi ben presto al mio posto. Così avevo visto i suoi occhi attorcigliarsi e contorcersi con una normalità disumana, le pupille dilatarsi e restringersi, minuto dopo minuto, e soffocarlo in modo non asfissiante, non distruttivo, ma tanto naturale da terrorizzare più di qualsiasi altra cosa al mondo, più di una pistola puntata freneticamente contro una tempia. Il suo viso era lo stesso, riposava appassita la sfacciataggine, dormiente ma ansante, come avrebbe fatto quella di un cucciolo di cane fra mille leoni; mentre si crucciava, il suo volto brontolava, incapace di sostenere il peso di due anime in subbuglio, due poli inarrestabili, opposti che, per non attrarsi, e non potendo respingersi, si ritraevano dalla spontaneità dell'andamento del mondo, un uomo fra mille squali sballottato fra bocche sdentate e gengive sanguinanti. Era lui con le sue iridi che tanto facevano
pensare alla nocciola e poi al frizzantino autunno, alle castagne ma anche all'iperattività. Era lui col suo volto pallido, frammentato dalla realtà delle cose, da un attimo che aveva mandato a tappeto un'intera esistenza. La sua faccia era stata la rappresentazione dello sbriciolarsi della vivacità. Avvicinarsi per toccarlo era impossibile, perché mentre le ossa nervosamente strepitavano per abbracciarlo, le gambe restavano paralizzate, altrimenti anche il cuore avrebbe ceduto e di morti ce ne sarebbero stati due. Un'insofferenza carica di afflizione, ricca di trucida mestizia. Un soffione di vento che risucchia ogni speranza, urlando contro tutti che ciò che la vita prende non sempre può essere riconquistato. Aveva scricchiolato il mio corpo mentre si erano arricciate le sue labbra infangate da grumi di sangue liquefatto, mortale, evanescente. La sua bigia purezza era oppressa dal fatale sbattere delle ali dei corvi che volavano da un posto all'altro e si arrestavano a terra soltanto dopo averlo immortalato nella sua fragilità totale. Una pugnalata interminabile, un occhio che non distoglie lo sguardo da un punto preciso, un cuore che smette di cessare dopo aver fatto il giro del mondo. E poi un fantasma arbitrario, stralunato, che si lascia abbindolare e abbandonare per l'ennesima volta dalla propria ombra e gironzola nella vita di altri perché non ha fatto in tempo a godersi la propria; osserva la morte appropriarsi dell'esistenza, straziandosi e frustandosi, rendendosi complice di qualcosa che non lo vede coinvolto, ma lo vede presente nel contempo. Qualcosa di sproporzionato, troppo immenso e piccolo da inquietare. Una mole di sabbia che tra tante altre è soltanto una mole insignificante. Un eroe moribondo che viene ucciso più dallo scorrere del tempo che dalla morte stessa. Ed erano temporali, cuori neri e promesse spezzate a rotearmi nella testa, grida trattenute e piacevoli momenti già divorati dai secondi. L'immediatezza aveva occhi ancora più caliginosi delle ardenti fiamme di fuoco che vedevo riflesse oltre la mia ombra. Scappare o bruciare? Avrebbero potuto avvolgermi, eppure? Il volontario disintegrarsi non avrebbe fatto meno male del restare in vita? Più metabolizzavo quel che avevo di fronte e più diventavo conscia e inconscia allo stesso tempo; ed io non ne avevo mai capito nulla di matematica e di proporzionalità diretta e inversa, ma le mie probabilità di estrema consapevolezza prima diminuivano all'aumentare di quel che mi si presentava davanti e poi aumentavano, perché spronate da una me già illusa, facendomi diventare una vera e propria variabile dipendente. Volto emaciato, occhi che si arrestavano e palpebre che assumevano il colore dell'ebano, fino a fare pendant con la lingua, il mento e le labbra e da quell'immensa, orrenda realtà scorrevano limpide e chiare le sue lacrime. E lo chiamavo, perché lui c'era ed io c'ero e ci saremmo stati finché entrambi non avremmo ceduto. Per urlare il suo nome avevo fatto appello alle piccole piaghe che mi stavano attanagliando lo stomaco comprimendo il cuore. Senza alcuna risposta, le lacrime avevano formato una pozza di sangue e con forma irregolare si erano diffuse sul pavimento. Le sue guance erano morbide e intatte e c'era un bagliore di luce che provava a farsi spazio tra tanto buio, ma una stella non ha mai dominato sulla celestiale immensità della notte. E guardarlo era come perderlo e contemporaneamente perdersi, dal momento che il nostro era stato un continuo trovarci e poi evitarci, abbandonarci per poi ritornare ad amarci. E c'erano stati così tanti ricordi che dovevo provare a tenere a bada la mente, una formatrice di secondi sbiaditi, una debole schiava costretta a portare sulle ossa fragili il peso di brocche colme di passato fino all'orlo. C'era dolore e poi incomprensione, dopodiché odio e tanta infelicità. Un secondo che sarebbe stato eterno in un mondo estraneo al concetto di infinito, ma come avrebbero potuto rendere perpetuo l'attimo, le emozioni contrastanti e le crisi continue? Come sarebbe stato opportuno andare avanti? Partire col piede giusto in che modo? Avrei vacillato su un terreno che non aveva a che fare per niente con la giustizia, che fa stare bene e poi annienta nel contempo, che rende vittime non solo le persone morte ma anche quelle sofferenti per le vittime del mondo? Restava a terra, solo, ed io restavo in piedi ma a terra, sola, e come lacrime sfuggivano dai suoi occhi così la mia vita mi scivolava dalle mani, come se entrambi non volessimo rassegnarci alla realtà, come se per non distaccarci del tutto preferissimo morire per ritrovarci chissà dove, ma insieme, perché alla fine era la forza reciproca a far da base alle nostre due anime, che erano sempre state impreparate quando si trattava di ricomporsi senza l'aiuto di nessuno. I suoi occhi non mi fissavano, mi guardavano però come a schermirsi da tanto dolore riflesso nei miei. Dolore che non sarebbe riuscito a contenere, dolore che non avrebbe mai voluto percepire. Urlargli di ritornare che senso avrebbe avuto? Struggermi per lui, probabilmente già sfinito dal diavolo? Se avesse potuto sarebbe restato. Se avesse potuto sarebbe restato. Ed era questo che mi ripetevo. Se avesse potuto. Ma no, alla fine non è restato.
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