Chiaro di Luna

Non era nemmeno giunta presso il cottage dei nonni, che i ricordi le avevano già affollato la mente.
Una doccia fredda di cui avrebbe potuto fare a meno, indubbiamente.
Gli scatoloni sparsi nel salone ammattonato e disadorno e le ragnatele agli angoli delle pareti l’avevano turbata profondamente, corrucciandole le labbra carnose. Sennonché aveva ignorato ogni preoccupazione, rimandando il duro confronto con ricordi e dolori inveterati a un altro momento: voleva sentirsi in pace con se stessa, almeno per un solo attimo. Proprio lei che di sereno aveva soltanto il nome, ereditato fieramente dalla nonna.
Serena sospirò e decise di dirigersi nel posto che più amava, quello per cui aveva realmente percorso tutta quella strada. Prese con sé la sua inseparabile custodia, pesantissima, e percorse un breve sentiero di ciottoli, che l’avrebbe condotta direttamente a una piccola conca di spiaggia.
Lì il mare ricopriva elegantemente l’infinita tavola celeste e rifletteva la pienezza del cielo fulvo. Una lunga scogliera delimitava le onde, resistendo ai rapidi spruzzi spumeggianti e all’inesorabile sciabordio delle acque.
La luce del tramonto si rifletteva sull'ampia distesa colorando il mare e le nuvole di un'intensa sfumatura vermiglia.
Adorava quel luogo. Da bambina era solita andarci insieme alla sua nonna per ammirarlo. Con il nonno aveva imparato a pescare, invece.
Prima piegò il tessuto dei suoi fuseaux e poi a piedi nudi percorse la scogliera fino a giungere all'estremità di essa. Si sedette quando lo ritenne giusto e posò la custodia al suo fianco. Lasciò che il vento le penetrasse le ossa e che attraversasse la sua giacca leggera e le scompigliasse i lunghi capelli ramati senza alcun preavviso.
Allungò le gambe chiare che furono bagnate dalle onde voraci. Osservando quel fenomeno sperava che, infrangendosi in quel modo, potessero esplodere come spuma anche tutti i suoi problemi. Sperava, soprattutto, che il rumore dello schianto potesse essere più forte di quello che imperava nella sua mente.
Serena e il mare avevano una cosa in comune: l’equilibrio temporaneo. Sapevano essere calmi e trasmettere serenità, ma entrambi, con il sopraggiungere delle tempeste più burrascose, s’inalberavano come matti, distruggendo ogni cosa.
Il mare in tempesta, a volte, rubava delle vite. Serena, in tempesta, perdeva la sua di vita. 
Suonava per le onde venerate e per coloro che non l’avrebbero mai apprezzata. Nessuno le avrebbe mai più cinto le sue caviglie nude in quel modo e in lei non c'era più nulla di puro. Non alcuna emozione a riscaldarle il cuore.
Amava essere lì perché sapeva che i suoi occhi non avrebbero guardato mai più nessuno con lo stesso luccichio con cui adesso guardavano l'orizzonte, lì dove il mare in quel momento stava incontrando il cielo e le sue mille sfumature, come l'abbraccio nostalgico di due amanti.
Adesso non voleva pensarci, voleva sentirsi serena, come il nome della nonna. Voleva restare lì a godersi il tramonto, la roccia fredda sulla quale sedeva e il profumo di salsedine.
Voleva solo una cosa: sentirsi viva come il mare e piena come il cielo. Poggiò la custodia nera sulle gambe sottili, indietreggiò lentamente, attenta a far sì che non si bagnassero. Tirò fuori da essa lo strumento che le avrebbe concesso il totale alienamento dalla realtà.
Era giunto il momento di accordare le note della sua vita.
D’altronde se non lo avesse fatto ci sarebbe stato soltanto un gran fracasso senza alcuna logica. E mentre il cielo si oscurava e il sole spariva, inghiottito dalle onde, risuonava nell'aria la dolce melodia di un violino poggiato sulla sua spalla nuda.
L'archetto scivolava sulle corde tese, le dita tremanti questa volta erano ferme; il cuore nel suo petto si animava come fiammiferi appiccati nel cuore della notte e i brividi le correvano lungo la schiena come un fastidioso formicolio. Serena chiuse gli occhi e si lasciò andare. In quel momento c'erano soltanto lei, il mare, la sua arte.
E Luna.
No, non l’aveva vista, ma Luna era avvolta dall’aria mentre alla bocca del suo stomaco frullava un miscuglio di conchiglie e pensieri.
Si era riflessa in acqua con la stessa timidezza di chi dopo un primo bacio lascia che le proprie guance si colorino di un rosso-pompelmo impagabile, inappagabile, e si era persa completamente sotto le creste delle onde cristalline, sbattendo le sue ciglia violacee più e più volte.
Il vento le ruotò intorno, insieme alle parole intrappolate sulla punta della lingua rosea, bisticciando con la sabbia e con la salsedine birichina, pizzicata dal ricordo del tepore del sole ormai dissolto completamente.
Luna si rimboccò le maniche bianche come il latte di capra e si mise a camminare lentamente da una parte all’altra del cielo, descrivendo con i piedi l’arco di nebbia che si stagliava sui capelli di Serena, incrociando così lo sguardo di un passante, gli occhi fugaci di una bambina malinconica e un paio di iridi blu, immobilizzati contro il vetro di una vecchia auto da rottamare. 
Serena suonò una volta e una volta ancora, con maggiore disinvoltura e naturalezza, lasciando che le corde e le sue mani tese diventassero un tutt’uno, senza smettere di guardarsi dentro, sperando che quel momento non finisse mai più, incorniciandolo con ogni singola cellula, come una pesantissima membrana.
Luna le coprì le spalle, abbracciandola cautamente con il manto della notte, infondendole negli occhi la luce delle stelle e nell’animo la brezza notturna. Le sorrise senza aprire bocca e le parlò senza dire niente.
Serena suonò per sua nonna e sua nonna la strinse forte forte per lei e per raccomandarle che, ancor prima di ricordare come si chiamasse, avrebbe dovuto ricordare come fosse davvero.
Serena.

923 parole
Scritto per il concorso di:
thatsmarti

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