Per l'onor dell'altro
Una gran scocciatura.
Ecco cos'era quella storia, almeno secondo lui.
Una gran scocciatura che lo obbligava a uscire a metà pomeriggio, con il sole a picco, e a farsi mezza città a piedi, in direzione del peggior quartiere possibile.
Tutto per un capriccio.
Elvero sbuffò, mentre scendeva verso i moli, i piedi che urlavano negli stivali e le gambe che imploravano pietà . Scocciatura o meno, la questione andava sbrigata in fretta, cosa che lo aveva fatto correre, e senza troppo clamore, cosa che non gli aveva fatto prendere una carrozza.
L'uomo si incamminò, mettendo bene in mostra il coltellaccio alla cintura, per evitare che qualche testa calda decidesse di mirare al suo borsello.
Non potendo usare i suoi soliti abiti, Elvero aveva optato per le sue vecchie e care braghe di tela nera, la più rattoppata delle sue camicie e un farsetto che, se ben ricordava, anni prima era stato blu. Si diede dell'idiota per aver usato anche gli stivali di allora, e si ripromise di gettarli nel fuoco appena a casa.
Non lo avrebbe fatto, lo sapeva bene, ma nulla gli poteva impedire di mugugnare e lamentarsi mentre ogni sasso della strada si infilava nelle suole consumate.
Che poi, secondo Elvero, tutta quella solva era nata da una gran fesseria. E dalla boria. E dalla noia di quei due buoni a nulla.
Davanti al vecchio padron Miquel non poteva dirlo, ma Elvero lo pensava da quando il signorino era tornato la scorsa notte, a raccontare euforico la sua bravata.
Un duello. S'era messo di nuovo a sfidare la gente a duello, il signorino Eldonso. E se lo era pure scelto bene, l'avversario, appropriato per farsi ammazzare.
Non era la prima volta che giovani rampolli di buona famiglia, che essendo nobili potevano portarsi dietro gli stocchi nei salotti dell'alta società , si sfidassero a duello.
Elvero lo aveva visto accadere più volte, alle feste. Due galletti miravano alla stessa ragazza, volavano un po' di parole, si elencavano i titoli di genitori, nonni, zii, cugini e parenti vari, e quando non si riusciva a far abbassare la cresta all'altro volavano guanti in faccia.
Ed entrambi, sfidato e sfidante, se ne andavano tutti impettiti, con i rispettivi stuoli d'ammiratori che ne lodavano l'ardore e la cavalleria.
Che poi, di tutti quei duelli promessi, i galletti ne facessero almeno uno, era un altro discorso. Che lui ricordasse, il signorino Eldonso aveva sfidato almeno sette persone a duello, ma non aveva mai incrociato la lama con qualcuno.
Alla fine, prima che si snudassero le spade, i nobili rampolli decidevano di riconciliarsi a parole, oppure facevano intervenire i secondi. Il capitano della loro guardia, messer Jagno, aveva dovuto difendere l'onore del signorino un paio di volte.
E l'avrebbe fatto anche stavolta, se l'avversario fosse stato alla sua portata. Arrivando in fondo alla discesa, Elvero si fermò a prendere fiato.
Tra tutti, proprio dim Belife doveva sfidare, quel giovane matto.
Dim Belife do Truata o Limbrosa ad Flersa, un nome grande come la sua boria, ma anche quanto la sua abilità con la lama. L'aveva visto battersi una sola volta, ma Elvero non ci teneva a fargli incrociare la spada col povero Jagno.
Troppo veloce e troppo bravo, per il capitano della guardia. E quindi serviva un sostituto al sostituto.
E quindi Elvero s'era fatto mezza città a piedi, fino a quella baracca nel porto, con gli scalini rotti che portavano alla porta marcia d'una cantina e una tavola appesa a due corde lerce per insegna. Qualcuno ci aveva scarabocchiato delle lettere, provando forse a scrivere "locanda", o forse "taverna".
In ogni caso, un'anima pia ci aveva anche disegnato su un boccale di birra, così che pure i marinai capissero cos'era il locale.
Elvero entrò, una mano sul coltellaccio e uno sguardo irritato a tutti i furfantelli che alzarono li sguardo su di lui. E che lo riabbassarono subito, capendo che non era un bersaglio per loro.
Dove trovarlo, in fondo, lo sapeva già.
Inutile perdere tempo con i tavolacci dove scaricatori e ambulanti fissavano le curve della cameriera mezz'elfa. O cercare al tavolo dove un trio di goblin biascicava attorno a una mappa ingiallita. Non valeva nemmeno la pena andare dal tozzo nano in un angolo, che fissava tutti con una mano nella barba e l'altra già pronta sulla pistola.
«Derro! Birra! A tutto il tavolo!» urlò Elvero, mentre il tozzo barista annuiva.
Come sempre, la solita cricca se ne stava al suo solito tavolo, intenti a giocare a carte e bevicchiare. Un umano, Elzoso, e un elfo, My'han, tenevano le carte in mano, ma ci prestavano la minima attenzione. Guardano il piatto, i pochi pezzi di ferro con più ruggine che metallo, Elvero non li biasimò certo; per quella cifra non valeva nemmeno la pena barare.
Il terzo occupante stava con i piedi sul tavolo, la sedia in bilico sulle due gambe posteriori e il cappello sul volto. Pareva dormisse.
Gli occhi di Elvero caddero lesti sulla spada accanto a lui, a portata di mano. Un fodero fatto più di graffi che di cuoio, un'elsa semplice e scura, macchiata dall'uso, col paramano scheggiato all'altezza dell'ultimo dito.
A vederla, la spalla di Elvero diede una fitta di dolore, il vecchio ricordo di una vecchia ferita, fattagli dal precedente possessore di quella lama.
«Cinquanta» disse l'uomo, prendendo una sedia e battendola sul pavimento vicino al duo impegnato nella sua finta partita. Elfo e umano lo fissarono, il ragazzo sollevò appena il cappello.
Una barbetta tagliata male spuntò dalle falde, seguita da una bocca sottile, che pareva più una cicatrice guarita male.
«Chi?» disse Viego, la voce dolce che mal si adattava al tono cupo e al vestito lercio.
«Risparmiami le battute» Elvero zittì subito uno dei due compari «ho fretta e sono stanco. Cinquanta pezzi, metà ora e metà dopo. Il nome non lo posso dire»
Viego si tolse il cappello dal volto, i suoi occhi neri fissarono Elvero. Il vecchio si fece forza per sostenere quello sguardo.
Si ricordò di quando quello spadaccino era solo un bambino. Solo un bambino che agitava un bastone nel giardino dietro casa, come facevano migliaia di altri bambini.
Quegli occhi non erano cambiati. E facevano paura ora come allora. Neri dove doveva esserci il bianco, e al centro una specie di stella bianca a quattro punte.
Occhi da Cinereo. Nella sua posizione, cappello e ombre ne nascondevano le piume che spuntavano alla base del collo, e i guanti coprivano le unghie acute e affilate.
Elvero aveva visto Cinerei squarciare gole, con quegli artigli, con la stessa facilità con cui un coltello arroventato taglia il burro caldo.
«Ti hanno sfidato?» chiese Viego, e con un colpo di reni si rimise dritto. Quel rumore fece voltare più d'una testa, gli avventori abituali controllavano che non stesse per scatenarsi una rissa.
«A me?» nonostante tutto, Elvero non poté non ridere «chi mi poteva sfidare o è morto o è invecchiato, i duelli li andrò a fare all'altro mondo»
«Vacci con calma, vecchio» disse My'han, mentre mischiava le carte. Gliene buttò tre, e Elvero le prese con un gesto meccanico.
Elzoso buttò un pezzo di ruggine sul tavolo, forse un tempo una moneta.
«È bravo?» chiese ancora Viego, scrocchiandosi il collo. Elvero annuì rigirandosi le carte in mano.
L'Avico annuì di rimando, sbadigliò, si alzò stiracchiandosi in tutti i suoi sei piedi d'altezza, le braccia sottili che quasi non facevano ombra.
Prese la spada.
Mentre Viego se la legava alla cintura, d'instino la mano di Elvero scivolò al pugnale. L'altro rise.
«Alla piazza delle Tre Vergini. Un'ora prima di mezzanotte» disse il vecchio.
Viego storse un labbro.
«Che razza di orario. Un bel duello al tramonto no?» chiese. Di nuovo, Elvero sorrise.
«Vieni preparato, forse questo ti prende cinque scambi» una luce d'interesse si accese negli occhi dell'Avico.
«Alle Tre Vergini. Spero che, quando ci beccheranno, i nomi degli sfidanti verranno fuori» aggiunse Elzoso. Si grattò l'occhio di vetro.
«Non ci saranno pattuglie» il cameriere di dim Belife l'aveva assicurato, ma sapevano tutti e quattro che era impossibile.
Tutti quelli che, almeno una volta nella vita, avevano sentito parlare di duelli sapevano bene che a piazza delle Tre Vergini, mezz'ora prima di mezzanotte, passava la pattuglia. Ora e luogo non erano causali.
Risolta la questione, Elvero si trovò a pagare due giri di birra a tutti.
Se ne andò dopo un poco, con passo leggero. Il problema era risolto.
Un'ora prima di mezzanotte, in piazza delle Tre Vergini, dim Belife do Truata o Limbrosa ad Flersa incrociò la lama con Viego Alarotta.
Tre scambi dopo, e cinquantacinque minuti prima di mezzanotte, l'Avico si era stufato di giocare, e il nobile aveva un taglio sulla mano della spada; un graffietto, un guizzo di lama, una sottile striscia di sangue sul guanto candido.
Dim Belife strillò, la voce acuta manco l'avessero castrato di colpo, il volto pallido come se gli fosse apparsa la morte in faccia. Riuscì a strillare per dieci minuti interi, quando finalmente il suo secondo lo tranquillizzò.
«Avevi detto cinque scambi» disse Viego, triste, mentre gli passava accanto.
Elvero scrollò le spalle, sorridendo mentre dim Belife veniva portato via quasi in spalla.
Quella nottata curò la mania dei duelli al signorino Eldonso
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