" 666 " (Parte 5 )
Pareva il paradiso ma sapevo che era l'inferno eppure mi sentivo disposto ad una eterna disperazione per un solo attimo di felicità.
E qui mi sbagliai.
Quando mi vide in ginocchio ai suoi piedi e presi le sue mani, baciandogliele con amore e bagnandole di lacrime ( che versavo poiché ero dilaniato dal desiderio e dalla paura di diventare suo schiavo), ella mi allontanò con disprezzo e disse:
"Siete tutti uguali!"
Poi si rizzò sul letto, il lenzuolo cadde ai suoi piedi, girò su sé stessa, si trasformò in una falena e volò via, oltre la finestra.
A me non rimase che la disperazione a farmi compagnia.
Meditai di morire, di gettarmi dalla finestra, ma mentre mi avviavo verso la mia fine, il padrone dell'albergo aprì la porta della camera, con la sua chiave doppia, ed entrò appena in tempo per fermarmi.
Lo avevano attirato le mie urla di dolore.
Non pronunciai parola, eppure come se mi avesse conosciuto da sempre, aveva compreso ciò che mi angustiava.
Ero l'ultimo della lunga serie di sventurati.
Lui mi aveva messo in guardia ma la vanità mi aveva accecato al punto di credermi immune all'amore e solo adatto al piacere.
L'uomo mi scongiurò di partire immediatamente: dovevo allontanarmi e dimenticare, se non volevo morire o peggio, impazzire.
Preferivo piuttosto morire ma non potevo: avevo ricevuto un insulto troppo grande per perdere la vita a causa di una donna così meschina e malvagia.
L'amore si era trasformato in disperazione e questo, in poco tempo, in odio purissimo e desiderai unicamente la morte di lei.
Impugnai il mio pugnale ma mi venne in mente che avrei fatto meglio a non manifestare il mio pensiero ad alcuno.
Acconsentii a partire subito.
Saldai il conto, salii sul mio cavallo e mi allontanai sotto gli sguardi impietositi degli abitanti del villaggio.
Raggiunto un boschetto poco distante, mi fermai ed attesi la notte.
Nascosto dalle tenebre mi avviai verso il casolare di quella strega ammaliatrice.
Allorché giunsi nei suoi pressi, legai il cavallo ad un albero e mi incamminai attraverso il bosco.
Finalmente giunsi al posto agognato: la porta era socchiusa e si intravedeva nel buio, una striscia di luce proveniente dall'interno.
Pensai che la fortuna fosse dalla mia parte ma nessuno avrebbe avuto l'idea di introdursi come feci io, stupidamente: sarebbe stata troppo facile la cosa.
Entrai, subito udii la risata stridula di Veneria, echeggiare nel silenzio della notte e l'abitazione cambiò il suo aspetto.
Mi aveva ingannato: non ero nella sua casa, ero in una grotta illuminata da tre file di nicchie, contenenti piccoli lumini ad olio.
L'apertura della grotta era bloccata da grate d'oro; oltre, libera e perfida, Veneria mi guardava e gioiva della sua vittoria su di me.
"Sei proprio stupido, nobile cavaliere. Sapevo che saresti tornato per vendicarti. Adesso sei mio prigioniero. Ho deciso che sarai il mio confidente: verrò a raccontarti delle mie conquiste. Sei contento?"
"Non la passerai liscia! Mi troveranno e mi libereranno... E io ti ammazzerò! Puoi starne certa!" Urlai con rabbia.
Un'altra risata, ancora più forte della prima echeggiò, facendomi scuotere i nervi.
"E chi verrà a cercarti? Tu sei partito dal villaggio e poi, in confidenza: sappi che ti posso vedere solo io. Tu sei invisibile per qualsiasi altra persona. Ne vedrai passare davanti i tuoi occhi, di gente. Ma tutti ti ignoreranno!"
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