T4

Questo é un racconto che parla dell' operazione T4.
L' trovato su EFP ed é di RoseScorpius. Quella ragazza é fantastica.
Buona lettura.

Contesto storico.

Le vittime dell'Operazione T4 furono le prime su cui fu sperimentato il sistema delle camere a gas, seppure in una forma ancora rudimentale: inizialmente venivano portate nei cosiddetti “centri di eutanasia” e assassinate con delle iniezioni, che furono però giudicate poco efficaci. Si passò quindi alla ricerca di un metodo per uccidere più persone più velocemente. Il soffocamento da gas iniziò quindi come soffocamento da monossido di carbonio, proveniente prima da bombole apposite e poi dai gas di scarico dei furgoni, i cosiddetti “Gaswagen”, in cui potevano essere uccise anche cento persone in una volta sola. Mentre nel lager di Auschwitz-Birkenau si passò a un metodo più veloce e raffinato di gassazione, con lo Ziklon B, le tredici camere a gas del campo di sterminio di Treblinka continuarono a usare il monossido di carbonio prodotto dagli scarichi, un metodo più lento e doloroso. Per questo motivo alcuni lo chiamano il “metodo Treblinka”.

 
***

Mi chiamo Erich Müller. Sono tedesco. Sono nato il 7 gennaio 1922.

Qualcuno urla. È il ragazzo della baracca 43, credo. Lui urla sempre e si strappa i capelli e si graffia. Lo tenevano nell'ala dei malati gravi, a Monaco.

Le urla continuano. Perché non sta zitto? Mi tappo le orecchie più forte e ripeto il mantra dall'inizio.

Mi chiamo Erich Müller. Sono tedesco. Sono nato il 7 gennaio 1922. Ho 17 anni.

Non so che giorno è oggi. Odio non sapere che giorno è. Nella mia stanza, a Monaco, segnavo i giorni sul muro con un carboncino. Era il 12 marzo 1939 quando mi hanno portato via.

Hanno detto che mi portavano in un altro ospedale. Non volevo. Hanno detto che dovevo andare lo stesso: i Tedeschi sono il popolo più grande di tutti, per questo dovevano portarmi via. I Tedeschi hanno bisogno dei geni migliori, per essere il popolo più grande di tutti.

Mi hanno messo in un treno, ma dentro era piccolo e chiuso e brutto e non mi piaceva. C'erano tante persone, tutte strette, e c'era cattivo odore e mi toccavano da tutte le parti e volevo andare via. Non mi piacciono le persone. Nemmeno gli uomini in divisa che mi hanno tirato fuori dal treno e mi hanno portato qui: anche loro urlano sempre, ma non si graffiano e non credo che fossero nel manicomio a Monaco con gli altri.

Le urla sono finite e ora va un po' meglio perché il silenzio mi piace di più, ma ho fame e vorrei non dover andare giù in quel posto domattina: le gallerie mi fanno claustrofobia, e poi ho male alle mani e alla schiena.

Il ragazzo della baracca 43 tace per il resto della notte, ma ripeto ancora il mantra, così sono sicuro di non dimenticarlo.

Mi chiamo Erich Müller. Sono tedesco. Sono nato il 7 gennaio 1922. Ho 17 anni. Mio padre è un ufficiale delle SS.

Non lo ricordo molto bene, mio padre. Avevo 12 anni quando mi hanno portato al manicomio e da allora non mi è mai venuto a trovare. Non mi dispiace troppo: quando stavo a casa mi picchiava forte ogni volta che mi scopriva a contare le mattonelle o a parlare da solo. Mia madre piangeva, quando mi picchiava, e piangeva anche quando mi hanno portato al manicomio, ma mio padre ha detto che bisognava fare come dice il Führer.

Ogni tanto mia madre mi veniva a trovare al manicomio. Le dicevo che stavo bene ed era abbastanza vero, anche se forse avrei preferito fare la scuola militare come mio fratello. In effetti anche al manicomio mi picchiavano, ogni tanto, ma almeno non c'era mia madre che piangeva.

Ora è l'alba e ho sempre fame. A momenti gli uomini in divisa verranno a svegliare gli altri e ricominceranno ad urlare. Continuo a ripetere il mantra a bassa voce.

Mi chiamo Erich Müller. Sono tedesco.

Oggi dicono che non ci danno la colazione: ci portano in una parte del campo che non ho mai visto.

Sono nato il 7 gennaio 1922. Ho 17 anni.

I prigionieri delle baracche in fondo al campo, quelli con la stella sulla manica, vanno a lavorare con gli altri.

Mio padre è un ufficiale delle SS. Mia madre è figlia di un banchiere.

Il ragazzo della baracca 43 è qui accanto a me. Oggi si sta mordendo il braccio e ogni tanto geme. Vorrei che lo portassero via. Vorrei che li portassero via tutti.

Ma gli uomini in divisa, quelli con la croce storta sul braccio, ci fanno entrare tutti in un grande magazzino pieno di furgoni e ci fanno spogliare. Uno di loro mi sembra familiare: ha il naso e gli occhi di mio fratello, ma l'espressione somiglia più a quella di mio padre quando mi trovava a contare le mattonelle. Anche lui mi guarda e di colpo la sua faccia si fa strana, come se avesse visto un fantasma.

Distolgo lo sguardo, perché non mi piace che la gente mi fissi. Forse il fantasma lo ha visto davvero.

« Tu » dice ad un tratto. « Come ti chiami? »

« Erich Müller ».

Trema un po', adesso, sotto la sua divisa con la croce storta. Per un attimo sembra che voglia dire qualcosa, ma poi mi spinge verso un gruppo di altre persone e ordina: « Con loro, là dentro ».

Entriamo tutti dentro un grande furgone e non so se essere contento perché forse ci riportano al manicomio, ma ho fame e freddo e rivorrei i miei vestiti.

Intanto un altro uomo con la croce chiude il portellone e dice qualcosa che sembra “T4”. Raramente quello che dicono ha senso.

Dentro il furgone è stretto e siamo tutti ammassati. Mi sembra di non riuscire a respirare. Il matto della baracca 43 piagnucola; lo vorrei ammazzare.

Voglio uscire da qui, non respiro.

Mi chiamo Erich Müller. Sono tedesco. Sono nato il 7 gennaio 1922. Ho 17 anni. Mio padre è un ufficiale delle SS. Mia madre è figlia di un banchiere. Sono autistico.

Dicono che sono sbagliato.

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