2 |Non lasciare che questa città ti spezzi il cuore|
Erano ormai ore che girovagavo per i vari quartieri di New Orleans, ero così affascinata dalla vita notturna di quella città. La notte era mille volte più viva e movimentata del giorno. Avevo sentito suonare alcuni musicisti ed avevo assistito ad uno spettacolo col fuoco nella piazza centrale, eppure non mi sentivo appagata.
Non ero del tutto contenta di come avevo passato la serata perché non era successo nulla di elettrizzante. Sbuffai, però non decisi ancora di tornare a casa.
Lasciai semplicemente che i piedi mi trascinassero da se’, “Magari in un posto magico” pensai. Camminai più o meno un chilometro, o almeno per quello che a me sembrava essere un chilometro, notando come le luci dei lampioni si stessero allontanando da me, e con esse anche i rumori, non presagiva nulla di buono.
Continuai a camminare, trattenendo quasi il fiato. La strada era dritta per una cinquantina di metri e poi svoltava a destra, facendomi intuire che si trattasse di un vicolo cieco. Accidenti a me ed alla mia stupida ed invadente curiosità.
Passai la mano destra tra i capelli, come se facendo quello il mio respiro si sarebbe regolarizzato. Una scarica elettrica aveva attraversato tutto il mio corpo, decisi di seguire la strada, poi svoltai a destra.
Dietro l’angolo cominciarono a sentirsi dei rumori ovattati, sospirai per il sollievo perché era il primo suono che udivo dopo tempo.
Continuai a trascinare le mie gambe sull’ asfalto fino a quando non giunsi quasi alla fine del vicolo cieco, dove delle persone se ne stavano appoggiate al muro di un edificio che non era mai stato abitato, o per lo meno quella era l’impressione che dava l’assenza delle finestre e le fondamenta che si potevano intravedere dai buchi creati dalla caduta dei mattoni rossi.
Passai uno sguardo fugace sulle persone in questione, constatando così che di sicuro erano ubriache e forse anche un po' pericolose. “Hey bambola!” biascicò un uomo che poteva benissimo avere l'età di mio padre. Brividi intensi attraversarono il mio corpo e non avendo così molta scelta mi guardai un’altra volta intorno per poi capire, che proprio accanto ai due ubriaconi si trovava un'insegna. "The mirror” lessi sottovoce. In quel momento mi ritrovai di fronte a due possibili scelte. Entrare dentro e salvarmi la pelle, o provare a correre col rischio che i due mi inseguissero. Pensai logicamente, ma soprattutto da persona che aveva il cellulare morto da un paio di ore. Dovevo entrare dentro, magari avrei trovato qualche animo buono che poteva prestarmi il telefono per chiamare un taxi. Poggiai la mano sul vetro freddo della porta per poi spingerla, cigolò rumorosamente ed una ventata di aria calda mi travolse dritto in faccia, con essa portò odore di fumo ed alcool. Mi spostai i capelli dalla faccia provando a sistemarli alla meglio che
potevo e cominciai a camminare lentamente tra i tavoli pieni di gente che non si trovava proprio nelle migliori delle condizioni.
Intravidi un posto al bancone libero e mi ci avvicinai senza batter ciglio, posizionandomi sullo sgabello abbastanza alto perfino per me. Notai la presenza di tre baristi, tutti impegnati, così aspettai pazientemente. “Non serviamo alcool ai minori” sentii dire a bassa voce, alzai la testa per incontrare degli occhi che mi guardavano con indifferenza ed un pizzico di noia.
“Scusa?” chiesi io, abbastanza attonita.
“Non lo ripeterò un'altra volta” rispose il ragazzo, per poi girarmi le spalle ed andarsene in quello che presupposi essere il magazzino. Rimasi allibita e con la bocca aperta per almeno mezzo minuto.
E poi, eccolo lì che arrivò il mio “Angelo custode”. Una certa Lexy, da come avevo potuto leggere sul cartellino attaccato alla maglietta.
“Ti posso aiutare?” chiese lei dolcemente, facendomi immediatamente capire che il suo atteggiamento non aveva nulla a che fare con quello del barista precedente.
“Si certo, avrei bisogno di un telefono, mi sono persa e vorrei chiamare un taxi. Ho provato a spiegarlo al tuo collega, ma non mi ha proprio voluto star a sentire. “Chi è stato? Occhi verdi?” chiese lei abbozzando un sorriso.
“Si, chissà se si comporta così con tutti” dissi tra me e me, ma lei mi sentì comunque.
“Si, fa sempre così con tutti, nessuna eccezione.” sbuffò lei. “E perché non lo cacciano, se tratta male tutti i clienti?”
“Cacciarlo? Impossibile tesoro, lui è il proprietario.” disse cominciando a ridere alla fine della frase.
Spalancai la bocca. “Accidenti...” balbettai io abbozzando un sorriso. “Eh si...comunque per il taxi, oggi non lavorano, essendo giorno festivo. Ma se aspetti un altra ora ti posso portare io visto che stacco.”
“Davvero faresti questo?” chiesi io sbalordita dalla sua gentilezza.
“Senza alcun problema, ora dimmi, che ti porto?” mi chiese alzando un sopracciglio.
“Mojito?” titubai un istante. “Mojito sia, torno subito” concluse lei prima di allontanarsi da me per preparare il cocktail. Mezz’ora dopo ero già al terzo mojito e stavo ballando da sola vicino al mio sgabello. Avevo attirato abbastanza attenzioni indesiderate ma già dal secondo cocktail non mi importava più. Infondo stavo festeggiando il mio compleanno.
“Lexy, comincia a prepararne un altro.” urlai a voce troppo alta ed un po' troppo eccitata. “Diamond, penso sia abbastanza...” provò ad avvertirmi.
“Ma è il mio compleanno!” spiegai.
“Davvero?” chiese stupita. “Si” “Quanti anni compi?”
“Diciotto” dissi io mentre roteavo la cannuccia contro i bordi del bicchiere vuoto.
“Avete sentito gente? È il compleanno di questa ragazza, fategli gli auguri mascalzoni” urlò lei a tutta la gente presente nel locale.
Un enorme coro di auguri si susseguì ed io sorrisi come un’ebete. Mi sentivo quasi felice, ma si sa che la felicità non dura mai abbastanza ed ecco che in quel preciso momento la mia teoria si dimostrò essere veritiera.
“Penso che per stasera basti” sussurrò la stessa voce della persona che, appena ero entrata nel locale non mi aveva nemmeno lasciato spiegare il
perché’ della mia presenza.
“Prego?” chiesi facendomi coraggio e spostando il mio sguardo dal bicchiere alla sua faccia.
“Penso che dovresti proprio tornartene a casa” rispose guardandomi dritto negli occhi.
“Chi ti credi di essere tu per dirmi queste cose? Mio padre?” Quasi urlai alzandomi dallo sgabello a cui mi ero poggiata prima a causa del giramento di testa.
“Primo, non ti rivolgere così a me ragazzina. Secondo, sono il proprietario del fottuto locale se non lo hai capito bene e adesso smamma.”
Non ci vidi più dalla rabbia, e la mia poca lucidità mi portò a comportarmi da bambina viziata. Guardai il mio quarto drink, poi guardai di nuovo lui e di nuovo il bicchiere che Lexy aveva riempito e poggiato di fronte a me, mi avvicinai fino ad essere ad un palmo dalla sua faccia, alzai il braccio in aria e versai tutto il contenuto del mio cocktail sopra la sua testa.
Dopo aver riaperto gli occhi, chiusi per la paura di una sua eventuale reazione, lo vidi sbattere il palmo contro il bancone, così forte che per un momento pensai potesse spaccare il marmo in due.
Lexy, che era apparsa come per magia mi prese per il braccio e senza dire nulla mi tirò fuori dal locale passando dal retro. Lì vidi una macchina nera parcheggiata nella quale salii senza dire nulla.
La osservai mentre armeggiava con le chiavi, era ansiosa e lo si poteva notare da chilometri di distanza. Quando finalmente riuscì a mettere in moto la vettura, accese il riscaldamento e poi si girò a guardarmi. Io guardavo lei e lei me, fu una frazione di secondo dopo che cominciammo a ridere come delle pazze.
“Tu lo sai che sei fuori di testa?” chiese lei dopo essersi calmata.
“Non lo sono, solo mi ha fatta incavolare.” “Sei cosciente che non potrai più mettere piede qui dentro per molto, molto tempo” mi chiese enfatizzando in modo particolare la parola molto.
“Chi lo dice? Lui? Non mi importa” sorrisi.
“Vedremo” concluse lei, la quale dopo avermi chiesto 'indirizzo di casa, mi accompagnò fino a destinazione, senza fare domande, solo sorridendo di quando in quando. Prima di abbandonare la sua macchina ci scambiammo i numeri. Non mi dispiaceva averla incontrata perché lei non era come le altre. Avevo proprio il presentimento che saremmo diventate amiche.
“Ci sentiamo uno di questi giorni. Ah e non lasciare che questa città ti spezzi il cuore, qui è pieno di gente come lui.” mi disse prima che io spingessi la portiera per farla chiudere, avviandomi poi traballante verso la porta di casa. “Chi ce lo ha un cuore?” pensai. “Ed ora chi la sentiva mia madre...” sussurrai tra me e me. Ma hey, almeno avevo qualcosa da raccontare.
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