El Dia De Los Muertos, Dabihawks
Dedicata a veciadespade, buon compleanno💛💛
Dabihawks,
Scritto da: Lilla
🎭
Fuori tuonava. Il cielo era diviso a metà come una crepa in un vaso di ceramica. Keigo camminava stancamente per la strada. Aveva i nervi a pezzi e la schiena dolorante. Gli s'erano bagnati i capelli, alcuni ciuffi gli finivano dentro gli occhi, e se li sentiva attaccati alla nuca come su una palla da bowling.
La giornata s'era rivelata un intoppo senza precedenti.
Un lampione lavorava stanco, riflettendo raggi giallognolli lungo tutta la strada. Il marciapiede era una pozzanghera sgangherata, che perdeva acqua piovana da tutte le diramazioni dei sampietrini rotti. Si sentiva come quella pozza, tutto frastagliato. Aveva lavorato ai casi dei più incalliti villain, senza risultati. Uscito dall'agenzia gli era parso naturale mettersi in strada per raggiungere qualche bettola in città. A casa non aveva nessuno che attendeva il suo ritorno, perché preoccuparsi di rientrare presto anche durante la notte più tenebrosa dell'anno? Non aveva neppure un animale domestico. Figuriamoci se poteva passarla da solo, sul divano, a guardare film horror e divorare un cartone di pizza. Aveva bisogno di svagarsi, far evadere la mente.
Almeno per qualche ora.
Le gambe s'erano messe in moto da sole. La strada gli scivolava sotto le suole delle Nike come fosse stata olio. Un lampo squarciò il cielo e parve che qualcuno l'avesse tagliato a metà. Dio, se odiava i temporali. Gli bagnavano le piume e non poteva più volare. Librarsi in cielo, stendere quelle grosse distese di piume che adorava. Fin da bambino, volare era sempre stato il suo modo di riconciliarsi col mondo.
Svoltò l'angolo. Quelle viuzze erano tutte rotte, coi muri ingrigiti e muffi. I tipi loschi negli angoli quella sera non c'erano, parevano essersi presi una vacanza anche loro. Keigo si guardò attorno. Era sovrappensiero, perciò non si era reso conto di essere appena arrivato davanti a quell'edificio.
Sbirciò oltre le finestre illuminate. Non vedeva sagome, ma era normale. I criminali si nascondevano dall'altra parte, quella che aveva le finestre che davano sul retro. Esitò, la mano già protesa. Non voleva tornare a casa. Il temporale era diventato un acquazzone violento, stuprava il cielo e i tetti delle case con quella pioggia rapida, rumorosa, come mille lame.
La mano restò a mezz'aria. La porta si spalancò. Davanti a sé, Toga lo fissava con un sorriso lunghissimo sulla bocca.
«Che cosa-»
«Ciao, uccellino.» mormorò Toga, facendo saettare la lingua sulle labbra, i suoi canini bianchi scintillarono. «Ho sentito che indugiavi.»
«No, io stavo solo-» sospirò, a che serviva dire la verità? Non voleva tornare a casa, tanto valeva restare lì. Indicò l'interno. «Posso entrare?»
Toga annuì. Si distanziò dalla porta per lasciargli spazio.
«Vieni.» disse. «Gli altri si stanno preparando.»
Attraversarono l'atrio, Toga lo condusse nel salotto sul retrò. I villain erano lì. Tutti intenti attorno al bancone, piegati su qualcosa che non riusciva a vedere.
«Ma che state-»
«Hawks! Uccellaccio!» fece Twice, accogliendolo. «Che bello, sei venuto! Vattene immediatamente.»
«Ciao, Twice.»
Sollevò una mano, lo salutò e l'altro sorrise e poi grugnì. Shigaraki non lo guardava. Se ne stava seduto da parte a guardare un programma in tv, assieme a Spinner.
«Ciao, ragazzi.»
Si accostò al bancone, Toga saltellò in direzione di Twice e se lo abbracciò. Hawks non ci fece caso. La ragazza era sempre così… carnale. Quello che gli interessava più di tutti non lo aveva neppure salutato. Gli andò accanto, fece scorrere la mano sulla sua nuca e subito lo vide sobbalzare e mettersi sull'attenti.
«Ti cuocio come un pollo, uccellino.»
«Sta' calmo, Tigre.» lo prese in giro. Rispose al suo sguardo truce con un sorrisetto e si sedette a uno sgabello.
Davanti a loro c'erano cosmetici per bambini. Keigo ne prese uno, se lo rigirò tra le dita, sorrise.
«Che ci fate con questi?»
Dabi scrollò le spalle. Aveva occhi blu come zaffiri. «Ci trucchiamo.»
«Cosa? Perché?»
«Per El Dia de los Muertos.» disse Kurogiri. Keigo che non l'aveva neppure notato, si voltò. Se ne stava lì, tutto fatto di fumo nero, con gli abiti civili che gli stavano addosso come su un manichino.
«Ah.»
Aveva la gola secca. Halloween era sempre stato una festa come un'altra per lui. Festeggiava con i suoi amici, andavano in discoteca, ballavano, si ubriacavano di Midori, Vodka, luci e ragazze. Anche ragazzi se era una bella serata. Ma non aveva mai pensato che in quei giorni si tenesse anche una festività messicana.
«Perché la festeggiate? Non è una festività giapponese.»
Buttò giù il bicchierino che gli aveva preparato Kurogiri. Attese che Dabi si decidesse a rispondere, ma il corvino era così impegnato allo specchio che gli venne da ridere; il grande terrore dalle fiamme nere non sa mettersi una matita sugli occhi, pensò. Si fece sfuggire un sorrisetto.
«Festeggiano per me.» intervenne Kurogiri.
Keigo si volse a guardarlo, sorpreso.
«Come?»
«Sono per metà messicano.» spiegò il villain, con noncuranza. Stava facendo passare uno straccio in un bicchiere di vetro. Ce lo cacciava dentro e strofinava. Hawks cercò il suo sguardo, ma quello non alzò la testa.
«Quindi,» disse, più per spezzare quell'imbarazzante silenzio che per altro. «Vi state truccando?»
«Stiamo realizzando tipici costumi messicani per questa festività.» cinguettò Toga, tutta allegra. Twice le aveva disegnato sulla faccia una maschera che andava da un orecchio all'altro. Lunghe linee rosa che si intersecavano al rosso e creavano un mosaico gentile sul suo viso. Le aveva anche spalmato del sangue finto - Keigo sperava davvero che fosse finto - sul mento.
«Cosa sei?» gli domandò, inclinando il viso per scrutarla meglio. «Una vampira?»
Lei saltellò sul posto, batté le mani. «Esatto!»
«E tu, Twice?»
«Io ho truccato Toga, perciò ora lei truccherà me. Fatti gli affari tuoi!»
Una mano si abbatté sulla sua spalla. «Non fare domande sulla maschera.» mormorò Dabi.
Keigo annuì.
Si voltò, Dabi era tornato a tirarsi l'angolo dell'occhio nel tentativo di tracciare una linea dritta. «E tu?»
«Fatti i cazzi tuoi.»
Keigo rise, guadagnandosi un'occhiataccia dal villain.
«Per caso hai bisogno d'aiuto?» domandò, con fare indifferente. Riprese a sedersi accanto a lui, sorseggiò un altro drink.
«No.»
Fu la sua risposta secca. Hawks scrollò le spalle, chiamò Kurogiri, si misero a parlare. Dabi sbuffava. Lo scrutava con la coda dell'occhio mentre cercava di ricalcare la linea dell'occhio con il colore, senza riuscirci. Lui si truccava tutte le mattine, avrebbe saputo tracciare la linea dell'eyeliner a occhi chiusi.
«Hawks.» lo sentì bofonchiare a un certo punto. Era a metà tra un “Kunigiri sei davvero simpatico” e un bicchiere di gin lemon. Tornò a guardare Dabi, gli fece cenno di parlare.
Il corvino gli porse la matita. Aveva in viso un cruccio arruffato, come se stesse per avere una crisi.
«Puoi,» fece un respiro profondo. Teneva la matita così stretta che temeva di vederla dividersi a metà da un momento all'altro. «Aiutarmi?»
Sembrava star ingoiando sassi mentre lo diceva, ma lui gli sorrise.
«Ma certo.»
«Cosa vuoi che ti disegni?» gli domandò, prendendo la matita.
«Fai tu.»
Afferrò la matita, iniziò a tracciare. Quel viso si apriva e chiudeva in linee rigide, tagli dritti. Ricalcò la punta del naso, la curva delle labbra. Scivolò su quella pelle sottile, aggirò le cicatrici, i punti. Gli aveva disegnato in volto una serie di ghirigori, zanne bianche, e una landa di blu. Trovava che facesse pendant con i suoi occhi.
«Guardati» gli porse lo specchietto, gli indicò la bocca. «Che ne dici?»
Il corvino s'osservò, scrutò le curve del suo volto come se lo vedesse per la prima volta.
«Ci sai fare, pollastro.»
«Non c'è di ché, fiammifero.»
Si guardarono, provocandosi col solo sguardo. Keigo trovava che in Dabi ci fosse una specie di bagliore. Lo aveva sorvegliato per mesi, s'era finto un altro con tutti, ma con lui anche quando ci provava, usciva solo un agglomerato di verità travestite. Parve intuire anche lui che quella sera, non aveva voglia di giocare. Si scrutarono in silenzio e alla fine scoppiarono a ridere. Dabi si limitò a storcere le labbra in una smorfia che gli addolcì i tratti feriti. Gli altri non si curavano di loro, erano tutti impegnati a scherzare, a rubarsi i trucchi a vicenda.
Il villain accostò una mano al suo viso. Teneva tra le dita la stessa matita nera di prima.
«Che fai?»
«Chiudi gli occhi.»
«Ma no, non mi pare il caso, dai...»
Dabi insistette. Aveva in viso una smorfia serena, qualcosa che gli abbelliva i sensi e la bocca. Si arrese, spostò lo sgabello più avanti, si lasciò truccare.
«Che ti disegno?»
«Fai tu.» mormorò il biondo, ripetendo quello che aveva detto prima l'altro. Sembrò sul punto di dire qualcosa, ma poi ci rinunciò e si mise all'opera.
Aveva una mano tremolante, dita lunghe e calde. Keigo le sentiva solleticargli la pelle, il naso. Sorrise, fu attraversato da un brivido, il villain lo rabbonì, ma non era nervoso come al solito. C'era in lui qualcosa che aleggiava nell'aria. S'era aggrappato a tutti gli altri, ce l'avevano nel viso, nelle curve delle labbra, degli occhi, nelle mani che si mettevano all'opera. Keigo non avrebbe saputo definire cosa fosse, ma sapeva che aveva le sembianze di una bambina che giocava. Allo stesso modo, lei donava in quella baracca una sorta di allegria, mischiata a qualcosa di molto più profondo. Dabi rise, Keigo provava a stare buono ma di tanto in tanto l'altro gli sfiorava qualche punto sensibile accanto agli occhi o alle orecchie e sobbalzava sulla sedia, gli faceva uscire male una linea e doveva ricominciare. Ma non era arrabbiato. Non si arrabbiava mai. Riprendeva, continuava a tratteggiare e nel frattempo lo prendeva in giro. Scherzava con lui. Keigo ne restò sorpreso, si voltò a guardarlo, sorrise, lo scrutava mentre se ne stava davanti a lui - a pochi millimetri dal viso - tutto concentrato. Gli pareva una visione buffa, qualcosa che non gli sarebbe più capitato di vedere.
«Guardati.»
Gli porse uno specchietto sgangherato, con le impronte delle sue dita ai lati. Lo prese, si guardò. L'immagine che c'era dentro lo fece sciogliere in una smorfia. Le labbra non smettevano di tendersi.
«Uno scheletro.» mormorò, inclinando il viso, sbirciando qua e là, nelle fessure, sugli zigomi. Aveva fatto un buon lavoro, era stato preciso nei colori, un po' meno nelle linee tremolanti, che però, rendevano il look più realistico. Gli piaceva la maniera in cui aveva mischiato nero e bianco. Lo aveva assottigliato, reso diverso.
«Grazie.» si ritrovò a biascicare. Dabi sbarrò gli occhi, fece finta di non averlo sentito.
Fuori imperversava ancora il temporale. L'acqua sembrava voer bucare il soffitto. Keigo si sedette meglio sullo sgabello, guardò un angolo della stanza con una malinconia sofferente negli occhi.
«Che ti prende ora?»
«Ma, niente.»
Non aveva voglia di rivelargli che c'era sempre qualcosa dentro di lui, che lo spingeva ad allontanarsi, a mettere dei pali prima che fossero gli altri a farlo, che oltre quel lavoro la sua vita si riduceva a mucchi di panni da piegare e tonno in scatola, a pranzo e cena. Dabi e gli altri lì dentro, avevano scelto la via del male, avevano scelto di vivere unicamente per loro, per un loro obiettivo. Lui non era così, ma a volte si chiedeva se tutto quel pensare sempre non lo stesse facendo diventare un mostro. Qualcuno che agiva e basta, senza fermarsi a chiedere se avere altri attorno al cuore fosse necessario.
Un suono dolciastro si fece largo nella stanza. Balzò contro le pareti, gli raggiunse le orecchie. Sollevò d'istinto lo sguardo. La musica si riversava dalla radio sopra al caminetto. Dabi si stava allontanando lentamente, ma non ci mise molto a capire ch'era stato lui ad azionarla. Si chiese a che scopo.
Lo seguì con gli occhi. Si avvicinò a Toga, la prese per mano, la fece volteggiare. La biondina rise come se avesse appena ascoltato una barzelletta divertente, si aggrappò alle mani di Dabi, presero a girare.
«Andiamo, ballate!» fece il corvino, regalando alla sua ballerina un sogghigno.
Twice non si fece pregare. Si riversò in pista come se non attendesse altro. Fece qualche piroetta, sferzò le mani in alto come quelle dei manichini. Borbottava frasi contrastanti, faceva smorfie. A una certa si accostò a Shigaraki, lo pregò di unirsi a loro. Il ragazzo scosse la testa, scrollò le mani in aria, non voleva. Spinner al contrario, al contario, s'alzò di sua spontanea volontà, raggiunse il centro della stanza e prese a dimenarsi. A occhi chiusi, sbatteva le mani qua e là, come un pioppio al vento. Keigo si fece sfuggire un sorrisetto. Dabi e Toga ora stavano ballando sulle note di un vecchio jazz, le gambe che si mangiavano il parquet, i bacini che si flettevano. Erano ragazzi fatti di pietra, con quei corpi secchi, i musi strani, ma si stavano divertendo come una banda di pazzi.
Danzavano, ridevano, facevano smorfie.
Il male ha tante facce, pensò Keigo, ma quelli che aveva davanti erano solamente ragazzini resi violenti dalla vita. Quello che gli adulti chiamavano crimine, era il loro modo di dire al mondo e a chi lo abitava; eccomi, sono qui, sono vivo. Quella notte, loro ballarono danze messicane, baciarono un altarino nell'angolo. L'aveva allestito Kunigiri. C'aveva messo sopra foto, cornici, candele, centrini di ogni colore. A guardarlo ti faceva girare la testa, ma ti pareva di non aver mai visto nulla di tanto bello. C'era ogni genere di fiore, ogni genere di tinta.
Toga appiccicò fronde colorate ai lati della stanza, presero qualche cornice, se la strinsero al petto. La fecero volteggiare assieme ai loro corpi, a quelle braccia spinose.
Poi Dabi s'avvicinò. Aveva danzato, s'era distrutto sulla pista e ricostruito mentre chiudeva gli occhi e lasciava che la musica lo lavasse di ogni peccato. Indossava una tuta nera, jeans scuri Levi's, che gli stringevano i glutei come un guanto. Keigo non aveva potuto fare a meno di notare quanto fosse magro. S'accostò, gli prese un polso.
«Vieni a ballare.»
«No, no. Non sono capace.»
Lui insistette. «T'insegno io.»
«No, davvero, Dabi. Non serve-»
Ma valsero a poco. Lui lo fece scivolare giù dallo sgabello, gli prese le mani. Avevano dita che s'incastravano insieme come ossi. Volteggiarono, Dabi s'impigliò nelle sue ali, risero. Cercarono di sprogliarsi mentre gli altri muovevano i piedi, pestavano la terra. L'aria s'era fatta calda, caldissima. Il corvino era un buon ballerino. Scalpitava, agitava i piedi con un'irruenza che gli ricordava quella dei contadini che pestavano l'uva. Muoveva tutto il corpo come se avesse un grillo nei punti più adatti. Un solletico che nasceva dalle vene e dettava il ritmo. Keigo s'adeguò. Danzò in mezzo a quella tana, chiuse gli occhi, rise, s'arrese contro la spalla di Dabi. Gli piaceva quella confusione, quella sensazione di euforia mischiata a decadimento. Quei ragazzi si stavano divertendo, stavano mettendo il dolore alla porta per qualche ora. Keigo ne seguì l'esempio. Volteggiò, cacciò un urlo. Dabi rise, lo imitò. Così fecero gli altri.
«Ti senti meglio, ora?» gli chiese Dabi. L'orologio segnava un'ora che Keigo non avrebbe dovuto vedere. Sarebbe dovuto essere a letto, a casa sua, ma stranamente non sentiva colpe. Tutte quelle piroette dovevano avergli scombussolato il cervello.
«Sì.» Attorno a lui Toga dormiva sulle ginocchia di Twice, quest'ultimo se ne stava a terra con la testa appoggiata al divano. Shigaraki s'era messo vicino al camino, si scrutava le mani con Spinner che ronfava a bocca aperta. Kunigiri s'era allontanato. Dabi gli sedeva accanto, la nuca contro il divano. Sorrideva con quella bocca tagliata. Lo guardò. Riconobbe lo stesso sentimento complicato negli occhi blu, sorrisero assieme. Gli prese la mano. Era calda, con quelle dita che somigliavano a spago.
«Ora sto meglio. Buon Halloween, Dabi.»
Lui ricambiò la stretta.
«Buon Halloween, uccellino.»
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