Ogni calar del sole
Non ho mai amato le tragedie e quello che stava succedendo sicuramente lo era.
Continuavo ad accarezzare il pelo bianco del mio nuovo gatto, a cui non avevo ancora dato un nome. Me l'aveva regalato una gentile nobildonna, dicendomi che la peste la portavano i topi e quei felini li cacciavano.
Ma sarebbe bastata a salvarmi la protezione di un insulso animale? Io non ci credevo.
Il gatto doveva avermi letto nel pensiero, visto che aveva arcuato la schiena con l'intento di piantarmi le unghie nella gonna.
Venezia mi mancava.
Mi mancava guardare fuori dalla finestra e vederci il mare. Le navi mercantili solcare le acque spumose. Mi mancavano gli odori speziati del mercato, la gente che vociferava allegra, la salsedine, il ruvido dei mattoni sotto ai piedi. Gli sbuffi di fumo, la calca di gente, i palazzi con i loro decori arabeggianti.
Ora fuori dalla finestra vedevo soltanto alberi verdi. Immensi, maestosi. E dietro di loro, campi che avevano sostituito il mare.
La peste si stava mangiando tutto, come il mostro che infestava i miei sogni da bambina.
E ci aveva costretto a rifugiarci in campagna per evitare il contagio.
Ogni tanto mi chiedevo se qualcuno che conoscevo era già morto o stava soffrendo.
«Bu!».
«Vuoi farmi prendere un colpo!» esclamo arrabbiata all'indirizzo di Armando, che se la stava ridendo sotto i baffi.
La sua famiglia era amica della mia e quindi aveva deciso di ospitare me, mia madre e mia sorella nel loro casale di campagna.
Il gatto mi aveva impiantato le unghie nel vestito, rovinandolo e facendomi male. Salta giù dal mio grembo con un balzo.
«Dovresti vedere la tua espressione» continua divertito.
Sto per raccogliere una mela e lanciargliela dietro, ma lui mi blocca.
«Non si spreca il cibo prezioso».
Con uno scatto si avvicina a me, prende il frutto posato sulla pagina del mio libro e lo porta lontano dalle mie grinfie.
«Dovresti smetterla di fare lo stupido».
«Dovresti goderti un po' di più la vita. Sai... non si sa quando...».
Lo blocco io sta volta. Non volevo che terminasse ciò che stava per dire. Non mi piaceva quel posto, ma lì mi sentivo al sicuro.
«Il nostro vicino ha manifestato dei sintomi» mi rivela poi brusco. Ecco cosa stava cercando di nascondermi mia madre da giorni.
Un brivido mi scende lungo la schiena e faccio qualcosa che non mi sarei mai aspettata di fare. Lo afferro per il colletto della camicia e mentre è sorpreso, poso la mia bocca sulla sua.
Lui si tira indietro. «Che stai facendo?» mi chiede, meravigliato dal mio gesto.
«Mi godo la vita» rispondo.
Ma non riuscivo a sorridere. Non come lui.
Nella mia mente si era già formato il ricordo di mio padre, con la febbre, nel letto. Dei medici con quelle maschere dal naso lungo, dell'odore forte delle erbe.
Armando si protende a darmi un altro bacio, mentre io chiudo gli occhi e mi metto a pregare. Prego affinché non succeda più nulla alla mia famiglia, come sono solita ormai fare ogni calar del sole.
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